mercoledì 16 settembre 2020

Cindy Sherman e gli stereotipi del femminile


Untitled Film Still #3


CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 


Le fotografie di Cindy Sherman sono delle meticolose messe in scena tramite le quali l'artista esplora l'identità, in particolare l'identità femminile, partendo dalla convinzione che il modo in cui percepiamo noi stessi e gli altri è mediato dalle immagini.
Una delle sue prime serie, Untitled Film Stills, è costituita da 69 fotografie, prodotte tra il 1977 e il 1980. Già il titolo (il cui significato letterale è “Fermo-immagine senza titolo") ci induce a considerare queste immagini non come delle semplici fotografie, ma come dei fermo-immagine cinematografici, momenti di una narrazione. Sono, inoltre, delle fotografie in bianco e nero, perché in esse la Sherman mette in scena gli stereotipi visivi, ma anche psicologici, che il cinema hollywoodiano degli anni Cinquanta e Sessanta aveva costruito intorno all’immagine della donna (la starlette, la femme fatale, la casalinga solitaria, la donna in carriera, la ragazza romantica). Le molteplici identità femminili rivelate da queste fotografie mirano a evidenziare le convenzioni sociali e culturali che hanno sottratto alle donne la propria individualità, costringendole a conformarsi a degli standard. Modellati dai media, instillati dalla cultura, questi stereotipi condensano una serie di attributi del "femminile" - la fragilità, la seduzione, il mistero (per citarne alcuni) - che le donne devono rispettare per poter "esistere".

Untitled Film Still #21.

I suoi personaggi impersonano il modello di femminilità che caratterizzava l’immaginario cinematografico del genere noir dei decenni precedenti e dei thriller hitchcockiani, come si evince dal netto contrasto tonale che stilizza la messa in scena, tipico di quella cinematografia, ma anche del Neorealismo e dei film di Antonioni. Per questo motivo le immagini hanno un carattere familiare, quasi di déjà vu. Rimandando direttamente a un immaginario mediatico diffuso, il loro significato e la loro portata artistica non sono scindibili dal bagaglio visivo che evocano.
Supporto di interminabili manipolazioni e metamorfosi, è l’artista stessa alla base della sua impresa fotografica. Sebbene la Sherman esponga continuamente il proprio corpo, rimodellandolo all’infinito, sarebbe ingenuo interpretare queste immagini come degli autoritratti. Le fotografie che produce costituiscono altrettante sfaccettature dell’artista, ma non la rivelano mai. Questo è il paradosso che è alla base dell’intera opera: l’artista, come la donna che vuole rappresentare, è contemporaneamente sovraesposta e assente, rappresentata e anonima, familiare e non identificabile. Cindy Sherman non ritrae se stessa, ma presta il suo "proprio" volto all'interpretazione di uno stereotipo e di un modello ben definiti: giocando a imitare i vari cliché, l'artista denuncia la codificazione del corpo femminile da parte dei sistemi di rappresentazione dominanti.

Untitled Film Still (#14)

Come è consuetudine per un attore cinematografico, anche il personaggio femminile che compare in queste fotografie (la stessa Sherman, che nelle sue messe in scena svolgeva tutti i ruoli, dalla modella alla truccatrice alla scenografa) non guarda in macchina, ma dirige il proprio sguardo sempre al di fuori dell’inquadratura, come ad evocare un fuoricampo che rimarrà ignoto.
Il lavoro dell’artista è una riflessione sull’immagine e sull’identità, ma soprattutto una analisi sui cliché mediatici della figura femminile, alla decostruzione dei quali mirano queste messe in scena. In esse, infatti, la donna è presentata così come l’ha elaborata lo sguardo maschile: inquieta, vulnerabile, sottomessa, disperata, non autonoma. La sua postura è quella di un soggetto che non riempie lo spazio in modo stabile e consapevole, ma è subordinato a un altro spazio, che noi non vediamo, il fuori campo dove probabilmente c’è una presenza maschile, che incute paura e sottomissione. Il suo sguardo, spesso spaventato o insicuro, carica l’immagine di tensione drammatica, anche all’interno di una banale scena domestica. Il soggetto della fotografia, che è oggetto di quello sguardo esterno che non vediamo, sembra privato di ogni potere sotto l'influenza dell'altro.

Untitled Film Still #15, 1978


Uno still-frame è un fotogramma bloccato, che interrompe il flusso del film. A differenza di una fotografia, che è immobile e la cui porzione di spazio inquadrata è immutabile, un film è, invece, caratterizzato dai movimenti di macchina, che fanno variare in continuazione lo spazio incluso nell’inquadratura, in un movimento che mette sempre in relazione un campo e un fuori campo. Lo sguardo dei personaggi femminili della Sherman evocano proprio il fuori campo, attivando un meccanismo narrativo propriamente cinematografico, dando l’idea dell’attimo in cui sta per verificarsi qualcosa. A differenza delle immagini assorbite in cui tutta la scena è chiusa in se stessa, qui l’immagine rimanda oltre la cornice, ma comunque verso un spazio contiguo a quello rappresentato, e che dunque appartiene alla stessa dimensione.
Davanti a queste immagini dall’azione bloccata, lo spettatore è tagliato fuori dalla scena. Egli non sa come collocarla: tutto gli sembra familiare e al tempo stesso sconosciuto. Per poterla interpretare, è invitato a inventarsi una storia o, come la stessa artista ha dichiarato, a immaginarsi il personaggio di un film degli anni Cinquanta o Sessanta.

Cindy Sherman, Untitled Film Still #50, 1979.

Utilizzando consapevolmente un mezzo ambiguo come la fotografia, che produce documenti e contemporaneamente costruzioni finzionali, Sherman produce delle immagini ibride, capaci di conservare la stessa tensione scenica e drammatica di un film, ma nello stesso tempo di mettere in atto la potenzialità rivelativa di un’immagine fotografica. Sono proprio l’immobilità e l’isolamento spaziale e temporale della fotografia che permettono all’immagine di ritornare criticamente su se stessa. In questo modo, fissati in modo stabile, esasperati da una messa in scena che amplifica certi effetti teatrali, gli stereotipi rappresentati si rivelano per ciò che sono: delle costruzioni, delle finzioni, dei vuoti esistenziali. In questo senso si spiega la ricerca della Sherman di accentuare l’artificio dell’immagine (trucco marcato, accessori ricorrenti, volti inespressivi). Lo spettatore è chiamato a ricoprire la posizione del voyeur e, contemporaneamente, a riflettere sulla perversità del proprio sguardo, attratto da situazioni ambigue, morbose, angosciose o violente dove la vittima è la donna. Di più: tutta l'opera non è altro che il disvelamento del paradigma dello sguardo voyeuristico, in quanto le immagini sono costruite "a beneficio" di esso e, nello stesso tempo, per smascherarlo.

Cindy Sherman, Untitled Film Still #10 1978,

Mentre le fotografie si palesano come messe in scena, contemporaneamente mettono in luce l’artificiosità di ciò che rappresentano. Come le immagini sono costruite, così anche i soggetti ripresi si rivelano identità fittizie, modellate secondo codici e schemi prestabiliti. Letteralmente intrappolate nei cliché che incarnano, queste donne sono condannate a essere solo oggetti seriali, destinati al consumo.
Il lavoro di Sherman, in conclusione, rivela il carattere fluttuante e artificiale dell'identità e la complicità della fotografia e dei media nella sua costruzione. Mette in discussione il corpo per mostrare i limiti e l'artificialità della sua rappresentazione in una società inondata di immagini. È anche un’analisi sull’immagine, quella della Sherman: la fotografia non riproduce la realtà, ma mette in atto processi di costruzione di stereotipi visivi, che modellano inconsciamente la nostra identità e lo sguardo su noi stessi.

Cindy Sherman, Untitled Film Still #30, 1979.

Cindy Sherman, Untitled Film Still #58, 1980.

“Untitled Film Still #17” (1978)

Sherman ha continuato a trasformarsi anche in seguito, mettendo in luce gli stereotipi insiti nella costruzione delle immagini, non solo di quelle cinematografiche, ma anche delle immagini presenti in altri format popolari come la televisione, le riviste di moda, le pubblicità, la pornografia e arriverà a confrontarsi persino con i modelli insiti nelle opere dei grandi maestri della tradizione pittorica. Nelle sue serie proseguirà a lavorare con i travestimenti, esplorando il tema dell’identità di fronte ai meccanismi di identificazione e di riconoscimento sociale. 
In una serie successiva, risalente al 1981, per la prima volta Cindy Sherman fa uso del colore: Centerfolds / Horizontals è un portfolio di immagini, commissionato dalla rivista Artforum, che si ispira al formato orizzontale delle riviste, in particolare di quelle pornosoft. Si tratta di una delle
serie più contestate perché giudicata intrisa di stereotipi sessisti, in quanto la figura di donna che emerge dalle immagini risulta caratterizzata da fragilità e passività mentre le inquadrature orizzontali e le riprese dall'alto la schiacciano e la umiliano. L'artista si rappresenta in figure di donne angosciate, sdraiate, in situazioni di noia o di attesa di qualcuno; di donne, pertanto, non autonome e indipendenti ma caratterizzate da dipendenza affettiva. La Sherman esaspera il cliché per stigmatizzarlo e, tuttavia, ArtForum rifiutò la serie e le immagini non vennero mai pubblicate sulla rivista.

Cindy Sherman, Untitled #92, The Centerfolds. 1981.


Cindy Sherman, Untitled #96, The Centerfolds. 1981.


Nella sua serie fotografica Fashion, 1983-1994, mette in discussione i codici della fotografia di moda attraverso rappresentazioni caricaturali e grottesche, insistendo sulla dimensione artificiale delle sue parodie. La serie History Portraits / Old Masters (1988-1990) rievoca la storia dell'arte, o meglio, attacca l'arte e la sua sacralità ricorrendo alla caricatura, parodiando i più grandi maestri della pittura e del ritratto, del Rinascimento in particolare, ma anche del Barocco, Rococò e del Neoclassicismo. Nella storia dell'arte la Sherman rinviene una fonte iconografica che trasporta anche codici sociali e stereotipi femminili. In queste fotografie l'artista si mette in posa in vari costumi ed elaborate ambientazioni, esplicitamente riferite alle opere di famosi pittori del passato e tuttavia il pesante trucco teatrale, le parti protesiche del corpo, i falsi nasi, i finti seni e le parrucche, così come i colori sgargianti non fanno altro che esacerbare, e dunque sottolineare, l'artificiosità del tutto, in modo comico e grottesco. 

Untitled #19


La varietà di media con cui si destreggia può essere vista come parte di un processo che Didi-Huberman definisce médiamorphoses (in La Condition des images). Le immagini cambiano continuamente, si citano e si echeggiano, da una forma mediale all'altra. L’operazione della Sherman è, ancora una volta, mirata a mettere in discussione le nozioni di genere e identità femminile nel mondo dell'arte. Tali nozioni sono modellate dalla storia dell'arte, dai media e dalla cultura, tutti convergenti nella definizione di alcuni attributi della femminilità (fragilità, seduzione, mistero): è in reazione ai vincoli di questi ideali femminili che va la produzione della Sherman, che mette in crisi il carattere immutabile e rigido di queste rappresentazioni, cercando di depotenziare l’arroganza di queste icone.
In seguito l’artista sceglie di approfondire il tema della maschera (serie Masks , 1994-1996) e quello del clown (serie Clowns, 2003-2004), dove il travestimento viene portato all'estremo, fino al limite del mostruoso, rivelando il sostrato che è al fondo di tutto, fatto di terrore e di morte. 
Forse l'artista sceglie di parodiare se stessa come un clown per rappresentare la donna al di fuori dei rigidi schemi di raffigurazione imposti socialmente e storicamente: in generale, il clown interpreta il ruolo di colui che mostra una parte nascosta dell'essere umano e che si concede ogni tipo di trasgressione. Ciò è in contraddizione con le aspettative sociali attribuite alla femminilità "ideale". Il personaggio del clown rappresenta il paradosso dell'essere: un lato oscuro, generalmente represso, fatto di angoscia e sottomissione, ma anche di trasgressione e di feroce irriverenza.

Untitled #205, 1989


I suoi autoritratti travestiti rivelano un profondo vuoto d'identità, particolarmente evidente nella serie Hollywood / Hampton Types (2000-2002), dove interpreta attori dimenticati in cerca di lavoro. I ritratti frontali, come le fotografie ufficiali, raccontano l'invecchiamento e la disillusione, ma anche la disperazione di essere ridotti a un ruolo unico.


Cindy Sherman, Untitled #418, 2004


Untitled 359, 2012



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