mercoledì 4 novembre 2020

Il paradosso dell'arte del Novecento

Yves Klein, Le Vide, 1958

Quando si cerca di fare chiarezza in merito a certe questioni riguardanti la materia dell'arte, è più facile che si approdi a nuovi interrogativi, piuttosto che arrivare a qualche forma di certezza. Se si cerca di comprendere, infatti, uno degli aspetti caratteristici dell'arte del Novecento si rischia di imbattersi nel seguente paradosso: da una parte la tesi, che riprende la profezia di Hegel, della morte dell'arte, dichiarata in base alla presa d'atto della perdita, da parte di quest'ultima, della sua autonomia, in quanto sconfinante nella filosofia; dall'altra parte la dichiarazione dell'autoreferenzialità dell'arte contemporanea, cioè della sua totale distanziazione dal mondo empirico per concentrarsi solo su se stessa, rivendicando la propria autonomia di linguaggio che ha in sé le ragioni del suo essere, che si caratterizza come focalizzazione sul significante anziché sul significato. Da una parte, dunque, l'arte avrebbe perduto la sua autonomia divenendo teoresi - e perciò altro da sè -, dall'altra l'arte avrebbe acquisito totale autonomia confinandosi nella sua dimensione linguistica, divenendo meta-arte.
Probabilmente, alla base di questo paradosso ci sono due diversi modi di intendere l'arte. Il primo polo dell'antinomia pare sottendere una visione dell'arte come mimesi e come momento estetico (dell'aisthesis), per la quale l'inversione antimimetica partita già dall'Impressionismo (o forse già dal Romanticismo) e affermatasi pienamente con le prime avanguardie rappresenta una perdita di autonomia. Tale inversione seguiva l'avvenuta presa di coscienza, operata dalla scienza e dalla filosofia, dei limiti dell'esperienza sensibile e di come il mondo accessibile ai sensi non sia che una piccola parte del reale, consapevolezza sfociata nella rinuncia da parte dell'arte alla rappresentazione imitativa del mondo e all'indagine fenomenologica oggettiva della realtà, per divenire momento teoretico, concettuale, metalinguistico. "Da Cezanne in poi - scrive Alessandro Tempi - e per tutto il Novecento scorre quella che è stata chiamata la "linea analitica dell'arte moderna", che taglia i ponti con la referenzialità (ovvero col rapporto di rappresentazione del mondo, detto anche mimesi) per concentrarsi tutta sulla propria natura di linguaggio e quindi su di sé, sui propri strumenti espressivi" (Tempi A., La società dell'arte. Saggi di sociologia dell'arte moderna). Una concezione estetica dell'arte considera dunque la perdita di referenzialità e l'inversione autoanalitica dell'arte contemporanea una 'deriva', una perdita di autonomia della pratica artistica. 
Dall'altra parte, sottesa al secondo termine del paradosso, abbiamo invece una visione dell'arte che ha definitivamente accantonato la sua valenza estetica e rappresentativa, che ha già metabolizzato il passaggio dal visivo al concettuale, dal sensibile all'immateriale, che intende l'opera svuotata di contenuto per essere traduzione dell'idea. Già con le prime avanguardie, e in particolare con l'Astrattismo, l'arte si emancipa dalla rappresentazione, per diventare creazione, esplorazione dell'invisibile, autoriflessione. L'arte diviene discorso sull'arte e allontanamento dall'oggetto sensibile. 
La pratica artistica contemporanea sembra così profilare una crisi ontologica dell'opera d'arte (intesa come manufatto), declinata nelle varie forme del suo impoverimento, del suo sovvertimento, della sua dislocazione, della sua distruzione, se non della sua negazione. Il filo comune delle pratiche più diverse che rientrano nell'arte contemporanea è quindi l'ozio dell'arte, o, se si preferisce, la sottrazione dell'opera, e sul venire meno della rappresentazione, cioè del legame referenziale e mimetico.
La pratica artistica del Novecento è segnata da alcune correnti concettuali che mettono da parte ogni forma di relazione referenziale con il mondo, e dalle declinazioni del ready-made duchampiano che, pur appropriandosi degli oggetti del mondo, li rinomina, sospendendone l'uso comune, decontestualizzandoli in modo totale e sottoponendoli a nuove attribuzioni di significato. 

Definizione speculativa dell'arte contemporanea. Negli autori dell'astrattismo - Mondrian, Kandinsky, Malevič - la modernità intraprende un percorso in cui l'arte è votata a rompere ogni legame con il mondo empirico. L'opera d'arte deve esprimere una realtà interiore, dominata dall'idea, e non i fenomeni sensibili. In questo senso, la creazione artistica abbandona la mimesis - cioè il legame con il mondo delle cose - per volgersi verso il suo polo concettuale. La teoria speculativa dell'Arte ha così avviato il processo di liquidazione dell'oggetto, l'evoluzione verso un'arte immateriale dato che il concetto è sprovvisto di concretezza sensibile. 
L'essenza dell'arte risiede nei suoi elementi autoreferenziali: gli artisti rifiutano la funzione figurativa della pittura per dedicarsi ai suoi costituenti formali, puramente pittorici, come i colori, la luce e la forma. L'arte contemporanea si caratterizza come "uno sforzo autoanalitico", teso "sempre più a definirsi come sapere autonomo e come forma specifica e consapevole di conoscenza ." (Alessandro Tempi, op. cit.)
E sullo stesso binario antifigurativo e antimimetico procederà l'Espressionismo Astratto così come l'arte minimalista e quella concettuale degli anni Sessanta. Questa definizione speculativa dell'arte contemporanea ha come conseguenza quella di ridurre l'arte al suo contenuto filosofico, allontanandola da quello materiale, mimetico ed estetico, a ricerca puramente concettuale dell'essenza dell'opera che non accorda più importanza agli aspetti sensibili della produzione. Il culmine del progetto moderno è dunque la scomparsa dell'opera a favore dell'idea, della sua forma concettuale. Il godimento intellettuale prodotto da questa arte smaterializzata è tanto grande quanto scarso è il godimento estetico, una privazione che raggiunge il suo culmine nella scomparsa stessa dell'opera per lasciare il posto al vuoto. Yves Klein è stato uno dei primi a inaugurare il vuoto come progetto smaterializzato, nella sua famosa mostra Le Vide, presentata il 28 aprile 1958 alla galleria parigina Iris Clert, dove il concetto colmava l'assenza di un'opera sensibile e visibile. L'identificazione dell'arte con il concetto, attraverso un'azione di forza intellettuale che trasferisce la filosofia nell'arte, segna la fine dell'opera. Fino alla sua distruzione: nel 1953 Robert Rauschenberg realizza Erased De Kooning Drawing, consistente nel cancellare completamente, dopo un mese di lavoro, un disegno del pittore De Kooning. Joseph Kosuth conia la perfetta definizione tautologica: l'idea di arte e l'arte sono la stessa cosa. È arte ciò che l'artista chiama arte. 

Definizione istituzionale dell'arte contemporanea. La decontestualizzazione del ready-made, nelle intenzioni dei suoi fautori, partiva da una provocazione: dimostrare che non è l'opera d'arte a conferire valore sacrale al museo che la ospita, bensì è il museo, tempio di per sé, a conferire lo statuto sacrale dell'arte a ogni oggetto che trovi spazio al suo interno. E tuttavia quello che viene definito il sistema dell'arte ha cooptato lo stesso gesto dissacratorio, investendo quegli oggetti della stessa aura di sacralità che si intendeva smascherare.
Con la modernità l’arte assume una definizione concettuale, ma soprattutto le vengono assegnati dei luoghi deputati: prima le accademie e le collezioni private, poi il museo e le esposizioni. Già il secolo dei Lumi aveva decretato la fine dell'arte pubblica e dato avvio all'arte istituzionale, collocata in spazi appositi, finalizzati alla fruizione artistica, oggetto di un piacere scevro da ogni interesse, un piacere che può realizzarsi solo una volta che l’arte venga estrapolata da ogni contesto pratico o utilitario e inserita in un’istituzione come il museo, che la considera come un oggetto deputato alla sola contemplazione nel mentre la confina nei limiti dell’immaginario estetico privo di influenza sul mondo. 
A partire soprattutto dal secondo dopoguerra si struttura l'impianto che definiamo 'sistema dell'arte', il luogo dove l’arte si dà o avviene e che è un sistema formato da vari soggetti interrelati fra loro (l'artista, il curatore, il critico, il museo, la rivista, il collezionista, ecc.), legato a doppio filo con il mercato. "Ecco che abbiamo così a che fare con una sorta di circolo vizioso per cui il museo accoglie ciò che è degno di essere rammemorato e, in questo modo, lo valorizza a sua volta anche sul piano economico." (Vercellone F., Dopo la morte dell'arte)

Nel suo saggio La trasfigurazione del banale, Arthur C. Danto affronta la questione fondamentale: dare una definizione ontologica di opera d'arte sufficiente a permettere di distinguere un oggetto artistico da uno che non lo è. Tale urgenza era stata determinata dalla visita della mostra di Andy Warhol tenutasi nel 1964 alla Stable Gallery di New York, dove erano esposte le famose Brillo Boxes, realizzate da Warhol ma del tutto simili alle omonime scatole di spugnette abrasive.

Che cosa distingueva, allora, quegli oggetti esposti come opera d'arte da quelli, del tutto simili, che invece erano esposti nei supermercati (real thing)? Danto arriva alla conclusione che, se non è possibile distinguere i due oggetti in base alle loro proprietà materiali percepibili, allora tale elemento di distinzione deve trovarsi nella dimensione extra-materiale, e dunque extra percettiva dell’oggetto-opera, in un dominio non visibile e non accessibile ai sensi, un universo discorsivo e teorico in cui l’intenzionalità dell’artista occupa la posizione centrale quale criterio di riferimento per la definizione e la comprensione dell’opera.

Discende forse da qui il 'peccato originale' dell'arte contemporanea? Da un lato l'opera d'arte si è svincolata dal suo momento estetico e dal principio di rappresentazione, dall'altro ha condotto lo spettatore ad accettare l’idea che l'opera è tale non per un proprio statuto intrinseco, in quanto quest'ultimo viene conferito dalla volontà dell'autore e dal contesto in cui viene esposta. In questo modo, l’arte è ciò che il sistema dell'arte riconosce e legittima come tale, negandole ogni altra possibilità di esistenza e ogni legame al piano dei giudizi di valore. L’arte è "ciò che l’artista presenta come tale, che le gallerie espongono, di cui i critici parlano, che i collezionisti si contendono." (Alessandro Tempi, op. cit.)
Pietro Montani definisce l'autoreferenzialità dell'arte come "uno stato di effettiva sospensione del riferimento al mondo, come se i segni potessero nutrirsi esclusivamente di altri segni" (Montani P., L’arte anticipa ancora i tempi?). 

La concettualizzazione dell'arte contemporanea obbedisce a queste condizioni, che non sempre sono comprese dallo spettatore: 1. l'eliminazione della dimensione materiale dell'opera che impone un'estetica priva di aisthesis e 2. la riduzione dell'oggetto artistico a un'affermazione performativa puramente tautologica, legittimata dall'intenzionalità dell'artista e dai luoghi deputati all'interno dei quali viene esposto, che sono spazi separati da quelli della 'vita'. Perdendo il legame con il mondo fisico, e dunque non avendo un contenuto 'riconoscibile', e proponendosi come concetto,  il rischio era quello che l'arte finisse per parlare un linguaggio talmente autonomo ed autoreferenziale da risultare quasi iniziatico, comprensibile ai soli addetti ai lavori, conducendo ad una totale perdita di relazione con il grande pubblico.

la morte dell’arte produce la fine dell’arte pubblica, facendo invece proliferare l’arte come istituzione e dunque anche l’arte come finzione consapevole di sé; l’arte come istituzione è poi, per parte sua, l’esito della morte dell’arte, che confina quest’ultima nei limiti dell’immaginario estetico privo di influenza sul mondo.





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