venerdì 2 ottobre 2020

Autoritratti allo specchio o in ombra. Vivian Maier


CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 

IV. IL CORPO POST-UMANO


Vivian Maier scattò molti autoritratti, ma lei non li condivise mai con nessuno. La sua ricerca personale, per le strade d’America e del mondo, fu del tutto solitaria. Non stampò la maggior parte dei suoi rullini, ritrovati in modo fortuito da un agente immobiliare e collezionista di Chicago, John Maloof, poco prima che lei morisse in solitudine, sconosciuta al mondo (nel 2009).

Per scattare i suoi autoritratti si serviva spesso di superfici riflettenti: specchi presenti per strada, nei bagni pubblici, nelle vetture di un tram; specchi fortuiti, posti tra le cianfrusaglie ammassate sul carretto di un rigattiere; e poi vetrine, finestre, perfino cerchioni di ruote cromate: insomma tutte le superfici, che le capitassero a tiro, in grado di restituirle la sua immagine riflessa.

Vivian Maier – Autoritratto (senza data).

Spesso si autoritrae mentre guarda nel mirino della sua Rolleiflex, operazione che la costringe ad abbassare lo sguardo; qualche volta invece guarda davanti a sé, per comporre il proprio ritratto. Guardando i numerosissimi autoritratti che ha lasciato, non ci si può esimere dallo stupirsi di fronte a quella che appare quasi un’ossessione. L’impressione che trapela non è quella di un esibizionismo narcisista, ma la volontà ostinata di uno sguardo indagatore, lo stesso con cui osservava e riprendeva gli estranei. Nei suoi autoritratti emerge la capacità che aveva di guardare se stessa dall’esterno, senza velleità intimistiche, in modo crudo, distaccato, inclemente. È la loro implacabile opacità e, occasionalmente, la sorprendente invenzione formale che li colloca in una categoria diversa rispetto alle immagini più convenzionali che ha realizzato per strada. 

Self-Portrait; October 18, 1953, New York, NY

Con la storia di Vivian Maier è stato abilmente costruito un mito pop, adatto alla nostra epoca così affamata di favole e leggende che nascono dal basso, che suggellano le storie anonime con il lieto fine della fama, che riscattano ciò che è sempre stato ai margini e rispolverano gli antichi miti di tesori favolosi nascosti sottoterra e scoperti per caso o per fortuna. In questa operazione commerciale, il battage ha insistito molto sulla creazione di una narrazione, sulla definizione dell’aura di questo personaggio, come portatore di un messaggio misterioso, inconsapevole interprete e testimone di un’epoca, rappresentante insigne sebbene ignoto del genere della street photography, ecc.

La verità è che Vivian Maier ci ha lasciato decine di migliaia di negativi, che rivelano uno straordinario talento: equilibrio e armonia delle composizioni, taglio delle inquadrature mai banale, resa della profondità, giusta illuminazione, capacità di cogliere i dettagli, di pre-visualizzare la scena e quindi di afferrare il momento giusto per lo scatto. Ma nulla più. Poche stampe, nessun’altra indicazione. Una vita silenziosa e appartata. Neanche una frase in grado di darci una qualche indicazione, una sua idea della fotografia.


Vivian Maier, Self-Portrait, 1954

La mia ipotesi, impossibile da dimostrare, è quella che Vivian Maier avesse la facoltà di pensare per immagini e di registrare le sue percezioni come fossero gli elementi di un archivio fotografico mentale, perfettamente catalogato e usufruibile come uno schedario costituito da foto. Che attraverso il fotografare costruisse quell’archivio, rispetto al quale la stampa successiva sarebbe stata del tutto superflua, visto che l’obiettivo non era quello di fare delle immagini un medium. Che la macchina fotografica per la Maier avesse la funzione di mediare il suo personale rapporto con il mondo, e il fotografare fosse in questo senso una catalogazione mentale di volti, emozioni, oggetti, scorci, dettagli, una sorta di vocabolario fatto di immagini, attraverso cui conoscere e interpretare il mondo.

Il paradosso Vivian Maier risiede in questo: si è costruita l’opera di un autore come fenomeno massmediatico utilizzando fotografie che non erano state realizzate per esserlo. Come la pubblicazione di un diario segreto. Un diario un bel po’ rimaneggiato, a dire il vero. Difficile dire se le selezioni pubblicate o portate in giro per le mostre di tutto il mondo rappresentino l’ “opera” di Vivian Maier o se, piuttosto, ci troviamo davanti a un progetto di found photography. Difficile, insomma, dire se le fotografie sono l’opera di Vivian Maier o l’opera di John Maloof realizzata con foto trovate, come quelle che si trovano nei mercatini e negli archivi, nate per scopi del tutto diversi dall’esposizione in mostre e cataloghi.


Vivian Maier, Self-portrait, Undated.

Un ruolo fondamentale nell’operazione mediatica di costruzione del personaggio ce l’hanno proprio i numerosissimi autoritratti rinvenuti, sia come riflessi su specchi e vetri, che sotto forma di ombre portate. Sono loro che non fanno che ribadire il riferimento all’artefice di queste fotografie, a indicarlo in tutto e per tutto come l’autore. Autoritratti che portano a interrogarsi sull’enigma irrisolvibile di questa donna, di questa vita, di questo sguardo impassibile, austero e perennemente sfuggente.

Da dove nasce quell’ossessione di collocarsi continuamente nella scena, di farne parte in qualche modo, di essere contemporaneamente soggetto e oggetto del proprio guardare?

Oltre agli autoritratti in superfici riflettenti, sono molto numerosi anche quelli realizzati tramite ombra portata: la sagoma scura spesso si allunga lungo tutto il frame come un maestoso interrogativo. Qui vale la pena distinguere tra autoritratti e rappresentazione di sé, perché mentre tutti gli autoritratti sono rappresentazioni di sé, non tutte le rappresentazioni di sé sono autoritratti. E in esse possono essere incluse le sue ombre portate. Questo, come è noto, è un tropo ricorrente nella fotografia modernista; Lee Friedlander, ad esempio, ha prodotto un intero libro su questo dispositivo. Il che a sua volta suggerisce che Maier fosse stata molto più consapevole della fotografia dei suoi contemporanei di quanto non si riconosca. Tra i suoi archivi, infatti, figura una serie di libri di fotografia. 


Un libro (2019) e una mostra di sue fotografie hanno come titolo Vivian Maier: Out of the Shadows, ma io credo che Vivian Maier non sia mai uscita dall’ombra, che tutto il suo mistero continui a rimanere lì, condensato nella silhouette scura della sua figura avvolta da lunghi soprabiti e cappotti e da cappelli dalla larga falda.

Immergersi nella visione delle sue foto equivale a compiere un viaggio affascinante nello sguardo di una donna che probabilmente riusciva a stabilire un contatto con la realtà solo attraverso la macchina fotografica, perché forse (almeno così piace pensare a chi scrive), senza quella mediazione, il mondo appariva a lei, solitaria e poco portata per le convenzioni sociali, incomprensibile e difficile da interpretare.


Vivian Maier












Nei paragrafi che compongono questo ipertesto sull'autorappresentazione della donna in fotografia, predomina la modaltà dell'autoscatto, dove la macchina esegue a tempo. Gli autoritratti della Maier, invece, adottano dispositivi diversi, basati su riflessi e proiezioni. 

Nella pratica dell'autoscatto il soggetto che riprende e il soggetto che viene ripreso si separano al momento dello scatto. L'operator si priva temporaneamente di una delle sue componenti (quella umana) e il soggetto si trasforma brevemente in oggetto dell'atto fotografico, abdicando al controllo totale su di esso. Nell'autoritratto allo specchio o in quello in ombra portata, invece, l'operator è contemporaneamente da una parte e dell'altra dell'obiettivo. E la macchina, con lui. Succede, perciò, che il mirror selfie possiede una caratteristica che gli altri autoritratti non hanno: l'immagine mostra l'atto fotografico con tutti i suoi attori; lo specchio, includendo il fuori campo, rivela l'atto di produzione dell'immagine. Nelle fotografie dove la Maier si allontana dallo specchio, inquadrando una porzione più grande di spazio, accade che l'autoritratto costituisca solo una componente dell'immagine, occupata prevalentemente dal contesto. Attraverso questi dispositivi, i confini della fotografia diventano ambigui, perché ritagliano sì uno spazio determinato, ma quest'ultimo contiene al suo interno anche parte di quello esterno, mettendo in scena, tra l'altro, il processo alla base dello scatto. E lo stesso accade per gli autoritratti mediante ombra portata.

A questi link, la selezione di autoritratti in bianco e nero e a colori pubblicata nel sito a lei dedicato

http://www.vivianmaier.com/gallery/self-portraits/




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