lunedì 30 marzo 2020

LA DONNA FETICCIO. LA POUPEE DI HANS BELLMER


Vista con gli occhi di un uomo. Alcuni stereotipi di genere nell’arte dal Rinascimento al Novecento

INDICE DELL'INTERO PERCORSO


La donna feticcio. La poupée di Hans Bellmer

C’è un racconto di Hoffmann, intitolato Der Sandmann (L'uomo della sabbia), in cui si racconta la storia di un giovane di nome Nathanael, che si innamora perdutamente di una ragazza, Olimpia. Con orrore, però, il protagonista scopre che non si tratta di una donna, ma di un automa, la figlia artificiale del Dottor Spallanzani. E la scoperta avviene mentre due uomini, nel contendersela, letteralmente la fanno a pezzi, smembrandola. Questa, e un’altra serie di circostanze, spingeranno il giovane alla pazzia e, infine, al suicidio.





Tale racconto viene citato da Freud nel suo saggio dedicato al tema del “perturbante” (Das Unheimliche), perché questo è il sentimento che spesso suscitano oggetti come figure di cera, bambole e automi, in grado di far sorgere il dubbio che, pur essendo senza vita, siano in qualche modo animati.


Bellmer, nel 1932, assiste all’opera musicale di Jacques Offenbach Contes d’Hoffmann, il cui secondo atto riprende proprio la storia di Nathanael e Olimpia. Pare che proprio la visione dell’opera gli ispirasse l’attività che protrarrà per tutta la vita, cioè l’assemblaggio della Poupée, "una ragazza artificiale – la definisce il suo creatore -  con molteplici possibilità anatomiche". All'inizio, si tratta di una bambola di circa un metro e quaranta, avente il volto di Ursula, una cuginetta di Bellmer, innestata su un corpo continuamente scomposto e rimontato, riassemblato nelle forme più azzardate e disarticolate, collocato in vari luoghi della casa, e infine fotografato.


La prima serie dedicata a La Poupée viene pubblicata nella rivista dei surrealisti “Minotaure” nel 1934, mentre la seconda, Les Jeux de la Poupée, completata nel 1936, viene pubblicata dopo la guerra, nel 1949, e comprende una serie di fotografie di una bambola diversa, più flessibile, formata da parti con snodi sferici e colorate a mano come le cartoline dell’epoca. Ma Bellmer continuerà a disarticolare e ricomporre i suoi manichini per tutta la vita, condividendo la sua passione morbosa con la propria compagna dal 1952, Unica Zürn, poetessa e artista tormentata, morta suicida nel 1970.
Le bambole di Bellmer mostrano un corpo profondamente “osceno”, cioè privato della sua forma anatomica consueta, esaltata dalla tradizione classica, e plasmato piuttosto dall’irrazionalità del desiderio, della pulsione ossessiva alla dissezione e a nuove, alternative, ricombinazioni. Il corpo viene esposto alla penetrazione dello sguardo fin nel suo interno (la Poupée, infatti, contiene nel proprio addome un dispositivo – il panorama -  che permette una visione degli organi interni), rendendo visibile quella forza pulsionale che disarticola lo schema razionale della corporeità, che sdoppia, scompone, seziona e ricompone secondo criteri diversi, che provengono dalla sfera dell’inconscio.


Il corpo della Poupée non è sottomesso ad alcun principio unitario di organizzazione  dell’organismo, ma è un assemblaggio di frammenti scollegati tra loro. Esso è, dunque, una proiezione del desiderio, la creazione di una volontà sadica e pornografica che struttura una nuova anatomia, deformando e violando i limiti del corpo, ridotto dal rango di “Leib” a quello degradato, oggettivato, di “Körper”.



Attraverso il meccanismo ottico che permette di vedere (e mostrare) anche l’interno del corpo, viene superato il limite imposto dalla pelle, che racchiude e limita ogni individuo, presentandolo nella sua sacra alterità. Bellmer, con la sua bambola, così come nei suoi disegni, rovescia quest’idea violando i confini e mostrando l’apertura totale dei corpi, avvicinandosi alla filosofia della continuità, intesa come superamento dei limiti dell’io, di Bataille.
Le macabre bambole di Bellmer sono ridotte in pezzi ed assemblate secondo un ordine innaturale, che non risponde a un desiderio erotico, che non cerca, cioè, il superamento della pulsione in qualcosa di più elevato, ma si focalizza sui dettagli e sui frammenti. Si tratta del corpo sottoposto a metamorfosi dall’istanza libidica, che reifica il suo oggetto per poterlo dissezionare e poi riassemblare in forme dettate dall'inconscio e dall’immaginazione.


Queste bambole sono composte per lo più da testa e gambe, e sono prive di braccia, cioè degli arti che più potrebbero attivarsi nella relazione con l’altro. Molto frequente è la composizione che unisce insieme due paia di gambe, realizzando una figura perfettamente simmetrica sia rispetto all’asse verticale che a quello orizzontale. La mancanza di testa e braccia enfatizza la passività di un corpo che il desiderio trasforma in feticcio, cioè in un insieme disarticolato di frammenti decontestualizzati. L’amico di Bellmer, e psicanalista, Jean-François Rabain, definisce la Poupée “un immenso anagramma da decifrare secondo la sintassi del lettore”, un anagramma plastico, le cui parti possono essere ricomposte a piacimento e ogni volta acquistano un diverso significato. Bellmer vuole svelare la “grammatica” della pulsione che decostruisce e ricostruisce le parti del corpo in quanto ente significante, proprio come si fa con le lettere dell’alfabeto o con gli elementi di una frase. Ma questa grammatica è una forza distruttiva, una sorta di regresso agli impulsi primordiali, che violenta e deforma l’aspetto naturale dei corpi.


Le bambole di Bellmer incarnano la nozione batailliana di “informe”, per la quale, però, avverte Elio Grazioli, non bisogna intendere solo “ciò che non ha forma, l’amorfo, ma ciò che si ribella, che rifiuta la forma, che pretende di restare eterogeneo e irriducibile a qualsiasi integrazione (dialettica) della forma. E’ allora, in realtà, qualcosa di più della distorsione, cui aggiunge un lato provocatorio che segnala la sua volontà rivoltosa, trasgressiva, disgregatoria, è quel conturbante che resta irrisolto, quell’inquietante che turba e disturba, ciò che arriva a provocare repulsione, avversione, ripugnanza” (“Corpo e figura umana nella fotografia”). E negli anni Trenta, doveva certamente apparire inquietante e trasgressiva la rappresentazione di un corpo femminile così oscenamente distante da ogni schema iconico e sociale, così opposto al modello del corpo perfetto, atletico e sano, propagandato dal regime nazista. Come scrive L. Coloni (“L’arte come Resistenza. La Poupée di Hans Bellmer”), queste bambole irrompono negli interni domestici, che la tradizione ha plasmato quale sereno teatro del femminile, occupano i luoghi più quotidiani come una cucina, una scala, una camera da letto, e li dissacrano.

  
  

La Poupée è la figura sempre disponibile, sempre variabile e modellabile a proprio piacimento, in grado di incarnare il desiderio e l’immaginazione, liberandoli dalla schiavitù dei limiti della forma fissa e della norma. Il desiderio annulla la possibilità della relazione e si configura come ossessione di asservimento e di manipolazione, di riproposizione senza fine di un’epifania perversa e dissacratoria.



In una fotografia a colori, la poupée, priva di testa e con due paia di gambe, due bacini e due sessi, è collocata in piedi in un bosco. Poco lontano, parzialmente nascosto da un albero, un uomo con un lungo cappotto nero. Il paesaggio silvestre dei quadri del Cinquecento, teatro del gioco erotico di dei, ninfe e satiri lascivi, in cui il corpo femminile nudo si esponeva allo sguardo del maschio (qui), è diventato quasi una scena del crimine, in cui il corpo della donna è ormai ridotto a oggetto dissezionato e ricomposto da un desiderio sadico e perverso e il maschio, il suo carnefice, si occulta come un guardone dei boschi, godendo dalla sua posizione celata il macabro spettacolo che gli si offre alla vista, la messa in scena dell'oscenità.


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