martedì 31 marzo 2020

Come cominciai ad amare la fotografia

Vista dal Santuario di Supersano

Si fa presto a dire: troppe fotografie in giro! Sfido, voi ci siete nati dentro. Dopo un mese dalla nascita avevate già due album belli pieni, comprese le stampe dell'ecografia prenatale. Eh sì, lo possiamo dire tutti oggi, che ci sono in giro troppe fotografie, perché tutti le facciamo e le condividiamo e ci sembra di esserne sommersi.
Ok, diciamolo pure. E in fondo mi dispiace un po' per quelli che il valore di una fotografia lo devono cercare nella folla, isolare dalla quantità impazzita di immagini che ci circondano.
Io invece ho avuto si può dire la fortuna?, - mah, non credo possa dirsi una circostanza fortunata -, io ho capito il valore di una fotografia non dalla sua presenza, ma dalla sua mancanza. La fotografia che più mi è entrata dentro è stata una fotografia che non è mai esistita.
Detto così, è una roba da pazzi. Se avete pazienza, ve lo racconto.



Oltre sessanta anni fa, nel mio paesino di origine, si nasceva ancora in casa. Questa fu anche la scelta (scelta?) di mia madre.
Molti bambini nascevano allora, ma ancora tanti ne morivano. E così avvenne anche per la primogenita della mia famiglia. L'avevano chiamata Anna. Nata morta, ma con la pelle rosa, le guance paffute e tantissimi capelli. La secondogenita, Maria, nacque in ospedale, ma morta anch'essa, perché i medici capirono che occorreva un taglio cesareo quando era ormai troppo tardi. Il terzogenito, Rocco, nacque in un altro ospedale, ma morì anche lui dopo tre mesi. Un difetto cardiaco congenito. Mia madre lo trovò cianotico nella culletta quando lo prese in braccio per allattarlo.
Ma quella santa donna era testarda e non voleva rinunciare. Vincendo l'opposizione di mio padre, decise di portare avanti una quarta gravidanza, che era arrivata come un dono del cielo all'età di 43 anni (come cambiano le cose!: all'epoca era già un'età avanzata per partorire, oggi è l'età media delle puerpere) e che mia madre aveva accolto come la sua ultima speranza.
Nei suoi racconti, che faceva a me bambina seduta di fronte alle sue ginocchia nelle sere invernali, queste due parole risuonavano con un'enfasi solenne: ultima speranza. Ma che voleva dire? Qualcosa di importante, di sicuro. Due parole che mi riempivano di orgoglio, ma mi mettevano addosso un mantello pesante. Ero l'ultima speranza di qualcuno. In tre erano dovuti morire perché arrivassi io. Forse è stata la prima volta in cui ho cominciato ad applicare rigorosamente la logica: se fossero sopravvissuti loro, io non sarei mai nata. Forse è stata la prima volta in cui ho cominciato ad applicare rigorosamente la fantasia: c'era un destino scritto che mi penzolava sulla testa. Forse è stata la prima volta in cui il senso di colpa ha fatto il nido dentro di me e da allora non è più andato via: la mia vita era dovuta alla morte dei miei fratelli e sorelle.
Sono cresciuta parlando non di rado con Dio, spesso non avendo nessun altro con cui farlo, e non ho mancato di chiederglielo con una certa frequenza: perché proprio io? cosa vuoi da me? Meno male che la Guerra dei Cent'anni fosse passata da un pezzo, altrimenti poteva venirmi qualche paturnia da Giovanna d'Arco.
Ma lasciamo perdere. Veniamo al dunque. La fotografia. Quella che non c'è mai stata.
Quasi tutte le domeniche si andava al cimitero, posto ai piedi di una collina, coperta dal verde scuro di una fitta pineta, proprio sotto il santuario della Madonna e la cripta con gli affreschi bizantini. Un percorso di circa tre chilometri a piedi, con il rosario fosforescente penzolante dalle mani, da sgranare nel tragitto. Beninteso, in latino. Che ancora non studiavo, ma le preghiere dell'Ave Maria e del Requiem aeternae, e la lunga litania finale, quella che ad ogni invocazione si risponde Ora pro nobis, le avevo apprese dalle donne anziane. Ora, di preciso non so dire che lingua fosse quella che veniva fuori da quel rosario, comunque mi auguro che Dio, nella sua misericordia, abbia comunque apprezzato il pensiero.
Saliti su, mia madre faceva il giro dei nonni e degli altri parenti, mentre io mi rifugiavo per tutto il tempo nel settore dei bambini, dove era sepolto il mio fratellino, Rocco. Dopo Dio, è stato il secondo interlocutore della mia età acerba. Il terzo è stato Docky, il cane di mio zio. Ora che ci penso, me li sceglievo bene: tutti impossibilitati a rispondere. Più che altro, impossibilitati a ribattere e mandarmi a quel paese, perché probabilmente a un certo punto si saranno pure stufati dei miei strani ragionamenti, delle mie domande strampalate.
La tomba di mio fratello era un loculo a muro, posto nella terza fila, proprio ad altezza della mia testa di allora. Oltre quel muro, oltre i cipressi che si alzavano maestosi all'esterno, si vedeva in lontananza la bianca distesa del paese. La lapide era una pietra spoglia, dove un pennello intinto in quello che in origine doveva essere un colore bordeaux aveva tracciato in elegante corsivo il nome, il cognome, la data di nascita e quella di morte. Nessuna fotografia. Nessuna immagine che mi restituisse la fisionomia di quel bambino che era stato mio fratello.
I miei genitori non hanno mai avuto una macchina fotografica. Quando c'era qualche occasione, compleanni compresi, chiamavano il fotografo del paese. E quando era morto mio fratello, probabilmente saranno stati troppo disperati anche solo per pensarci.
Solo qualche altra tomba era priva di ritratto. In quasi tutte invece era lì, di forma quadrata o rotonda, in bianco e nero o a colori. In molti, spiccava il bianco candido della veste del Battesimo, con i volant e i merletti ricamati. Qualche ritratto era stato scattato post mortem; me ne accorgevo dagli occhi chiusi o perché si vedeva la piccola salma già composta. Non so quante volte sono andata avanti e indietro lungo quelle file di tombe, che pochi visitavano, perché ormai i bambini fortunatamente non morivano più, o molto di rado. I portafiori erano spesso vuoti, oppure riempiti di fiori di plastica o di stoffa, polverosi e sbiaditi, mentre i davanzali delle lapidi più vecchie si andavano incrostando di escrementi di uccelli. A quel tempo, nel prato al centro di quella parte del cimitero crescevano fiori selvatici, di colore viola, di cui non ho mai saputo il nome. A primavera li raccoglievo e li distribuivo nei portafiori delle tombe. Uno ciascuno, così li facevo contenti tutti. Anche un Requiem aeternae già che c'ero, perché mi avevano detto che i morti andavano sempre raccomandati a Dio. E' inutile, noi proprio non ci tiriamo indietro davanti a nessuno con questa storia delle raccomandazioni.
Insomma, mi ero affezionata a tutti quei bambini e bambine dei miei pomeriggi domenicali. Eppure, devo confessarlo, c'era una cosa che invidiavo a quelle tombe: non il marmo, non i caratteri in metallo dorato o la dedica sulla targhetta in porcellana o il lume di cristallo. Ciò che davvero guardavo con un sentimento di invidia era quella piccola fotografia, spesso ormai sbiadita, attaccata alla parete di ogni tomba. Attraverso quel pezzo di carta protetto dal vetro, io potevo vedere il volto di quelle piccole creature, a cui donavo il fiore e la preghiera, ma quando parlavo con mio fratello, avevo di fronte solo la nuda pietra con le scritte scrostate. Eh no, il nome non bastava come traccia. I miei occhi volevano vedere.
Forse è stato allora che ho capito l'importanza di quell'oggetto prezioso che è una fotografia, che permette alla nostra memoria di costruirsi, tra realtà e fantasia. Un'immagine che non ci restituisce la verità di quella persona che inseguiamo nei nostri ricordi, ma è capace di fornirci un sostegno, un punto da cui partire, una fisionomia.
E' da tempo che non torno in quell'ala del cimitero del mio piccolo paese natale. D'altra parte, dopo i lavori di ristrutturazione, tutto è cambiato. I fiori selvatici probabilmente non crescono più. Ogni tanto il mio pensiero ritorna di fronte a quella pietra, dove le scritte hanno smesso di scrostarsi. Un quadrato duro, in cui perdura un vuoto. Perciò oggi posso dire che la fotografia che più di ogni altra ha segnato la mia vita è una fotografia che non è stata mai scattata.

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