lunedì 2 marzo 2020

CAPITOLO I – PASSIVO OGGETTO DELLO SGUARDO. IL SONNO

Giorgione, Venere dormiente, 1507-10, Gemäldegalerie di Dresda

Vista con gli occhi di un uomo. Alcuni stereotipi di genere nell’arte dal Rinascimento ai nostri giorni

INDICE DELL'INTERO PERCORSO
Introduzione
I - Passivo oggetto dello sguardo
            - Il sonno
            - Il bagno
            - La toilette e lo specchio
            - Il serraglio
            - L'estasi mistica
            - La violenza
II - Angelo del focolare
Appendice - Con le mani in mano
III - Femme Fatale
IV - Corpi tra metamorfosi e frammentazioni


La rappresentazione della donna nell’arte è caratterizzata da notevole ambivalenza. Lo sguardo maschile l’ha plasmata di volta in volta facendone un modello di bellezza, un oggetto erotico, l’incarnazione delle virtù domestiche, la madre, la vergine, la santa, la peccatrice, la crudele seduttrice in grado di condurre l’uomo alla rovina e alla perdizione. Madonna ed Eva, Musa e Sfinge, Venere e Salomè: l'iconografia ha contribuito notevolmente a plasmare e trasmettere molti degli stereotipi di genere che caratterizzano il ‘femminile’.
La rappresentazione dei sessi nell’arte contribuisce a consolidare e reiterare le strutture mentali tipiche della società patriarcale, incarnandole in pratiche simboliche e stereotipi iconografici che regolano la postura e il linguaggio del corpo femminile e maschile, definendo consolidate relazioni sociali e di potere. Una di queste si esprime nella costruzione dello sguardo.

Questo studio ha individuato sei principali modelli iconografici di rappresentazione del corpo femminile come oggetto dello sguardo, nella pittura dal Quattrocento all'Ottocento: il sonno, il bagno, la toilette davanti allo specchio, le donne in gruppo tra di loro, l’estasi mistica e le scene di violenza. Situazioni tematiche propizie alla raffigurazione della nudità, certamente, ma che soprattutto mostrano il corpo femminile caratterizzato da uno stato di inazione: o viene raffigurato passivo e discinto, languidamente disteso su letti o prati, oppure impegnato in attività puramente narcisistiche, come quella di mirarsi allo specchio, o ancora vittima della violenza del maschio. In ogni caso, si tratta di un corpo chiuso su se stesso al fine di sottrarlo ad altra finalità che non sia la seduzione e l’esposizione come oggetto del desiderio. La sola attività permessa al corpo femminile, in queste messe in scena, è di essere immagine, cioè di mostrarsi disponibile alla vista. Il meccanismo si gioca sulle sottili relazioni tra vedere e farsi vedere, mostrare e nascondere, svelare e coprire. L’inattività della donna lascia, in qualche modo, libertà all’investimento da parte dello sguardo maschile; tale condizione passiva la trasforma in un campo di visione, e potenzialmente in un campo di azione, del desiderio dell’uomo. In questo tipo di rappresentazioni emerge prepotente una prima discriminazione di genere: gli uomini sono possessori dello sguardo, mentre le donne sono soggette allo sguardo altrui.

IL SONNO
La donna immersa nel sonno è un topos iconografico della storia dell'arte. Dalle scene del mito agli interni borghesi, questo tipo di rappresentazione modella nello spettatore un tipo di fruizione particolare, quella di chi osserva, non visto, qualcuno che si trova in una condizione di estrema inerzia e inconsapevolezza. La rappresentazione della dormiente si configura come uno stereotipo di passività, in cui la donna diventa puro e inconsapevole oggetto di una brama che si esprime nello sguardo.


Spiate nel sonno

Fin dall’antichità ci sono pervenute statue di figure mitologiche scolpite mentre sono avvolte nel sonno. Un esempio classico è quello di Arianna, addormentata sull’isola di Nasso mentre Teseo sta fuggendo via.
Dal mondo classico ci sono giunte anche statue di personaggi maschili dormienti, come Endimione o il Satiro ubriaco. Le rare rappresentazioni di uomini dormienti nella pittura del Quattrocento legittimano lo stato di passività maschile come meritato ristoro in seguito a una qualche fatica, tipo ‘il riposo del guerriero’. Nel dipinto di Botticelli, Venere e Marte, il dio della guerra è avvolto nel sonno dopo le fatiche dell’amore. E’ dunque uno stato di stanchezza, dovuto a grande attività, come ad esempio la guerra o, nei secoli a venire, il lavoro, che autorizza l’uomo al meritato riposo.

Sandro Botticelli, Venere a Marte, 1485.

Raffaello Sanzio, Il sogno del cavaliere, 1503-04, National Gallery di Londra

Nel Rinascimento esplodono le figure di Veneri, ninfe e fanciulle addormentate nei boschi, qualche volta da sole, molto spesso spiate da Satiri o da Dei. In questo tipo di rappresentazioni, la donna che dorme non è una donna che riposa, ma che si espone allo sguardo maschile, che le immobilizza quale oggetto del desiderio, passivo e seducente nella sua quasi completa nudità.
Una delle Veneri dormienti più celebre è senza dubbio quella del Giorgione, la cui posa del braccio sollevato dietro la testa riprende quella dell’Arianna antica. La sua bellezza è offerta senza resistenza allo sguardo attivo dello spettatore, offrendo un parallelo tra le sue curve e le tenere colline del paesaggio. L’associazione donna e natura è un elemento fondamentale di queste opere: entrambe si offrono all’uomo come ‘territori’ incontaminati e ricchi di possibilità, di caccia e di raccolta.
Molte delle tele in cui compare anche il personaggio maschile, intento a spiare la donna dormiente, riprendono il mito che narra la storia di Antiope, giovane e bellissima figlia del re di Tebe, Nitteo, re di Tebe. Dopo una cavalcata sul monte Citerone, sorpresa da un temporale, Antiope si rifugia in una grotta; qui, mentre dorme, le si avvicina Zeus, sotto le spoglie di un satiro, che la possiede amorosamente e la lascia incinta.

Tiziano e bottega, Giove e Antiope, detto la Venere del Pardo, 1551

Carle Vanloo, Giove e Antiope, 1753

Anthony van Dyck, Jupiter and Antiope, prima metà del XVII sec.

La rappresentazione canonica vede la bella Antiope immersa nel sonno mentre Zeus le si avvicina, la guarda e le scopre il corpo. Comprende opere di autori da Tiziano a Luca Giordano, da Poussin a Ingres. L’altro collage è dedicato al topos di Venere dormiente o della ninfa, insidiate anch’esse da un Satiro, che le spia mentre sono immerse nel sonno, figure passive ed esposte allo sguardo lussurioso del maschio. I Satiri sono divinità minori, compagni di Pan e Dioniso, esseri metà uomo e metà capra, selvaggi abitanti dei monti e delle foreste, dediti al vino e alle pratiche d’amore. Personificano la fertilità e la forza vitale della natura, connessa con il culto dionisiaco.

Giove e Antiope

Sulla scena di questi quadri non è rappresentata solo una fanciulla o una dea dormiente, ma soprattutto l’azione della figura maschile che spia e svela la donna. Tale tema della ninfa svegliata/svelata ha un’ampia diffusione a partire dalla fine del Quattrocento, derivando dal repertorio figurativo tratto da modelli archeologici dell’età antica, riscoperti proprio in quel secolo.

Luca Giordano, Venere dormiente con Cupido e Satiro, 1663

Sebastiano Ricci, Venere e Satiro, 1716-20
Venere e Satiro  -  Ninfa e Satiro

Jan Brueghel il Giovane e Jan Van Boeckhorst. Ninfe dormienti spiate da un satiro, 1640-45.

Un altro racconto che permette di risolversi in un analogo apparato iconografico è la novella Cimone ed Efigenia, tratta dal Decameron di Boccaccio.
Si narra la storia di Cimone, un rustico e incolto giovanotto, figlio di un ricco cittadino di Cipro, che un giorno incontra nel bosco la bella Efigenia, che giace addormentata vicino a una fontana e che i pittori non hanno esitato a spogliare di ogni velo.


Peter Paul Rubens, Cimone ed Efigenia

Abraham Bloemaert, Cimone ed Efigenia, 1620.

Jan van Noordt, Cimone ed Efigenia

Nel 1925 troveremo lo stesso schema nel bellissimo quanto enigmatico quadro di Felice Casorati, Conversazione platonica, in cui il ruolo di Giove o del satiro è stato assunto da un individuo anonimo, con vestito e cappello. La sua figura scura e in ombra fa da contrappunto allo splendore del corpo della donna addormentata.

Felice Casorati, Conversazione platonica, 1925.

Ignare e passive

Nell’immaginario collettivo, la donna dormiente è simbolo di sospensione: è immobile ma non morta, è inanimata, passiva e indifesa. E’ la “Bella Addormentata” delle favole, che attende l’uomo, il salvatore che la risveglierà dal suo incantesimo.
Se fino al Settecento le figure femminili rappresentate appartengono generalmente ai miti antichi, a partire dall’Ottocento il soggetto si arricchisce anche di donne comuni, addormentate nelle loro camere per lo più oppure su un prato. Dalla scena scompare il satiro o il Dio che la spia e la insidia; rimane solo il corpo della donna, immersa nel torpore. L’azione dello sguardo impudico, dunque, esce fuori dalla scena e investe lo spettatore: è lui il voyeur che esplora, non visto, la donna ignara e inerme.


Mauro Lavagetto, a proposito del romanzo La prigioniera di Proust, analizza la scena in cui il protagonista Marcel, ossessionato dalla gelosia per Albertine, pervaso da una passione che è soprattutto desiderio di impossessarsi per intero del suo oggetto d’amore, guarda la sua amata addormentata e pensa: “Mi sembrava, in quei momenti, d’averla posseduta completamente, come una cosa incosciente e senza resistenza della muta natura”. L’oggetto del suo amore è sfuggente, perché è impossibile penetrare totalmente la mente di un individuo. E’ solo quando Albertine dorme che Marcel può placare la sua ossessione, illudendosi di possedere finalmente per intero la sua prigioniera, sebbene in modo furtivo.
E’ significativo il paragone che Marcel fa tra la donna e il mondo della natura: “ormai era animata solo dalla vita inconsapevole dei vegetali, degli alberi, una vita più remota della mia, più strana, e che tuttavia m’apparteneva di più”. Il sonno, insomma, riporta la donna a uno stato di natura, inerte, passivo, remoto.


E tuttavia il sonno può rendere la donna un mondo anche più impenetrabile e angoscioso per lo sguardo maschile, perché quando si dorme si sogna, si abitano mondi diversi, quelli del desiderio e dell’inconscio.
Nelle rappresentazioni che sono state date di questo soggetto, prevale l’armonia dell’immagine. I volti delle dormienti sono distesi e graziosi, immersi in sonni tranquilli.
Il sonno chiude gli occhi alle donne, le priva dell’espressione e della vista, le mette nella condizione ideale per essere attentamente esplorate dallo sguardo del voyeur. La condizione del dormire, immobilizzando la figura femminile, favorisce la sua reificazione: la donna diventa un soggetto privo di volontà, e dunque un oggetto, alla stregua di una natura morta.

Frederic Leighton, Flaming June, 1895.

Interessante è, da questo punto di vista, il fatto che, nel XIX secolo, il museo itinerante di Pierre Spitzner, il "Grand Musee Spitzner", portasse in giro, tra le altre sue collezioni e meraviglie, un famoso set di modelli anatomici di cera, raffiguranti donne addormentate, in grado di aprirsi per rivelare gli organi interni. Queste bambole erano oggetto di spettacolari dissezioni, pensate soprattutto per stuzzicare il voyeurismo degli spettatori.



Il voyeur smascherato

E’ proprio l’acquiescenza della donna addormentata che permette un’intrusione spudorata allo sguardo maschile. Infatti, quando alla donna verrà data la possibilità di restituire lo sguardo e di guardare direttamente in faccia lo spettatore, come alla Maja desnuda di Goya o alle donne di Manet, scoppierà lo scandalo.
Nella seconda metà dell’Ottocento accade qualcosa di dirompente, che provoca grande scalpore nella società benpensante di allora. Appaiono alcuni dipinti di nudo che sconvolgono i precetti consolidati del genere. Si tratta del celebre Déjeuner sur l’herbe (1863) e dell’Olympia (1863), realizzati da Édouard Manet, e dell’Origine del mondo (1866) di Courbet. Non si tratta più di pittura allegorica ed accademica, ma di rappresentazioni di un nudo realistico, per nulla idealizzato, esibito all’interno di un contesto contemporaneo. Quelle raffigurate, infatti, non sono allegorie o divinità fuori dal tempo o eroine del passato, ma sono donne vere e proprie, che ostentano la propria nudità. Il dipinto di Courbet, poi, che introduce all’esplorazione quasi scientifica del corpo superando la censura degli organi sessuali femminili, è reso con un realismo quasi fotografico, che provoca all’opera il marchio di immagine pornografica.

Édouard Manet, Le déjeuner sur l'herbe, 1862-63.

Fonte di grande clamore e scandalo presso il pubblico e la critica ad esso contemporanei, Le Déjeuner sur l’herbe rappresenta uno dei simboli che incarnano la rivoluzione artistica del XIX secolo.
Apparentemente nelle opere di Manet non c’è niente di rivoluzionario; anzi, molte sue opere rivelano con chiarezza l’impianto compositivo di matrice classica e il riferimento ai grandi maestri del passato (Tiziano, Raffaello, Goya, Ingres), studiati nei maggiori musei. Ma se nel repertorio classico la nudità delle donne le contraddistingueva come personaggi divini o personificazione di concetti ideali, il quadro di Manet non cela alcun significato allegorico. Il pittore francese sostituisce i personaggi del mito con uomini e donne del suo tempo; i nuovi dei sono dei gentiluomini borghesi vestiti alla moda e la donna in primo piano, i cui abiti moderni sono ammucchiati per terra e il cui sguardo si rivolge sfrontatamente allo spettatore, sembra più una prostituta che una dea o una ninfa.
L’arte accademica era infarcita di nudi femminili, ma la nudità era sempre idealizzata e nobilitata dalle finalità celebrative o allegoriche delle opere e dall’ambientazione mitologica o storica delle stesse, molto lontana nel tempo e nello spazio.
Le Déjeuner sur l’herbe costituiva la prosaica rappresentazione di un’ineluttabile “perdita dell’innocenza”, dove la nudità, lungi dal richiamare alti e nobili ideali di purezza, si mostrava come una sfacciata provocazione alla morale e al decoro.

Édouard Manet, Olympia, 1863.

A un altro quadro del Tiziano (la famosa Venere di Urbino) sembra ispirarsi anche l’altro quadro-scandalo di Manet, Olympia. Ma se la figura di Venere è casta e innocente e, accanto a lei il cane è un simbolo di fedeltà, lo sguardo di Olympia è invece freddo e disinibito e fissa lo spettatore con sfrontatezza, mentre un gatto nero ha preso il posto del fedele cagnolino. La donna ci guarda con espressione provocante e non sembra prestare alcuna attenzione ai fiori che le reca la cameriera. Anche qui si è rotta la convenzione di rappresentare il nudo femminile in un contesto lontano nel tempo. In questo dipinto, inoltre, la figura di donna è altamente individualizzata, il che contraddice il tradizionale obbligo all’idealizzazione.
La polemica provocata da quest’opera fu ancora più acuta di quella innescata da Le Déjeuner. Lo spettatore borghese si sentiva disturbato dal quadro, in quanto osservato a sua volta e trasformato in un voyeur. La tela gli rinviava indietro un’immagine di sé che probabilmente non voleva accettare pubblicamente.
Dal momento in cui la donna è in grado di restituire lo sguardo, di guardare chi la guarda, troviamo in lei una coscienza, e dunque un giudizio. Quel giudizio affrontava lo sguardo maschile, facendogli provare un senso di vergogna.


Dietro una porta chiusa

E arriviamo al XX secolo. Al tema dello sguardo e all’analisi della fruizione come visione è dedicata l’ultima, incredibile e controversa, opera di Duchamp, che può essere considerata il suo testamento artistico. Si tratta di Étant donnés: 1° la chute d'eau / 2° le gaz d'éclairage (1946-1966), un’installazione realizzata per la prima volta nel Museum of Art di Philadelphia (luglio 1969), ma dopo la morte dell’artista, che all’opera aveva lavorato in segreto per venti anni (mentre tutto il mondo era convinto che avesse ormai abbandonato del tutto la creazione artistica), con la raccomandazione di farla esporre postuma, lasciando in proposito dettagliate istruzioni.


A prima vista, l’opera consiste in una grande porta sbarrata, di legno massiccio, anche se corroso dai tarli (proveniente da Caduqué), orlata da una cornice di mattoni e traforata da due piccoli fori a livello degli occhi. Guardando attraverso, si scorge un muro, aperto da una breccia, oltre la quale vediamo parte del corpo nudo e inerte di una donna, con le gambe divaricate, sdraiata di schiena tra la vegetazione, che regge una lampada con la mano sinistra. Il corpo è una sorta di manichino di gesso, ricoperto di pelle di cinghiale, che gli conferisce una notevole apparenza di carnalità. In fondo si scorge un paesaggio naturale a trompe l’oeil e una piccola cascata.




Fin da subito è chiaro che l’intento che si pone Duchamp attraverso l’assemblaggio di questi diversi materiali è di analizzare, quasi di dissezionare, l’atto del guardare da parte dello spettatore; gli stessi buchi nella porta non fanno che enfatizzarne lo status di intruso e di voyeur. E  sembra di riconoscere, in questa installazione, l'esasperazione e nello stesso tempo l'implosione del dispositivo rinascimentale e barocco messo in scena dalle storie della mitologia, in cui Veneri e ninfe sono spiate mentre giacciono passive e inerti sopra un prato e lo spettatore gioca il ruolo di Giove o del satiro lascivo.
Di fatto, più che guardare, la situazione impone l’atto dello sbirciare furtivamente, e certo si può intuire il disagio che può provare chi si trovasse davanti a una scena di quel tipo, la cui oscenità e, insieme, incongruenza colpiscono e disarmano lo sguardo dello spettatore. Duchamp, in questo modo, di fatto vincola la fruizione a quella modalità, che costringe l’osservatore all’immobilità e ne indirizza lo sguardo in modo obbligato. Come scrive Riccardo Caldura, “L’artista prepara il dispositivo pubblico – si è nella sala di un museo e non in un peep show – per denudare lo spettatore, per svelare quel che si celava dietro la parvenza di un’educazione e di un bisogno di cultura. Lo spettatore è il voyeur, e, dato il soggetto che vedrà, il pornografo per eccellenza. Soltanto che questo pornografo non può più celarsi nell’ombra e spiare, ma è costretto a essere visto in pubblico. Una sala di museo trasformandosi così in una sorta di gogna per l’espiazione dell’impudicizia del ‘voler’ vedere”. (in Il luogo dello spettatore, a cura di Antonio Somaini).


Sono molte le speculazioni elaborate intorno a quest’opera, in primo luogo sulla natura mortifera dello sguardo maschile, che “oggettiva” (cioè trasforma in “oggetto”, materia inerte, e dunque uccide) il corpo della donna che si offre alla sua vista. Il corpo femminile finisce dunque per apparire un semplice residuo della violenza di quello sguardo, dopo che per secoli l’ha ridotto a puro oggetto.
Soffermiamoci, però, soprattutto sulle implicazioni dell’opera come dispositivo della visione. Possiamo facilmente intuire i rimandi a L’origine du monde di Courbet, da una parte, e a una xilografia di Albrecht Dürer, dall’altra, in cui si vede il pittore che guarda la sua modella sdraiata attraverso una finestra quadrettata, mantenendo un punto di vista fisso. D’altra parte il prospettografo, come dice lo stesso nome, era uno strumento finalizzato al dispositivo della visione per eccellenza dell’arte occidentale, la prospettiva.

Xilografia di Albrecht Durer, Draughtsman Drawing a Recumbent Woman. 1525. Graphische Sammlung Albertina, Vienna.

La porta chiusa di Duchamp, attraverso cui può penetrare solo lo sguardo dello spettatore, è il dispositivo che genera e nello stesso tempo mortifica e ancor contemporaneamente smaschera il desiderio pulsionale, divenendo un perfetto meccanismo di perversione scopica.

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