domenica 8 marzo 2020

I DONI DI MATRIMONIO

Raffaello, Ritratto di giovane donna (Dama col Liocorno), 1505-1506, olio su tavola, cm 65 x 51, Roma, Galleria Borghese.

Vista con gli occhi di un uomo. Alcuni stereotipi di genere nell’arte dal Rinascimento al Novecento

INDICE DELL'INTERO PERCORSO
II - Angelo del focolare
      - Maternità


CAP. II - ANGELO DEL FOCOLARE

Nel Capitolo precedente, dedicato ad alcuni dispositivi scopici in cui l'occhio maschile regna avido e sovrano, sono state passate in rassegna delle opere che prendono a pretesto storie del mito e della Bibbia per presentare la donna come oggetto dello sguardo e del desiderio, messo in scena all'interno di giochi di seduzione che il personaggio femminile per lo più subisce.
In questo capitolo verranno presi in considerazione altri schemi rappresentativi, il cui tema non è la donna come oggetto erotico ma come figura domestica, sublimata nelle sue qualità morali e spirituali e inquadrata nei ruoli di moglie, madre e padrona di casa. La rappresentazione del femminile oscillerà sempre tra questi due archetipi: la Venere e la Vergine Maria, la dea seduttrice e la sposa onorata, la cortigiana e la madre amorevole. L'ideale dell'eros e quello della virtù.
Un'altra dimostrazione di come l'iconografia della donna sia sempre stata appannaggio dell'uomo, che la esplora e la mette in posa, che ha inventato una femminilità che è l'immagine dei suoi desideri e anche delle sue paure, rinchiudendola in una sfera simbolica molteplice e ambivalente.


I doni di matrimonio

Nel periodo del Rinascimento era consuetudine, in occasione del matrimonio, commissionare dei quadri in cui, oltre al ritratto della promessa sposa, erano rappresentati i simboli della vita coniugale e delle virtù morali richieste alla fanciulla, in primis quelle di castità e fedeltà, principi fondamentali su cui si reggeva la famiglia patriarcale e che, oltre a un valore morale, possedevano soprattutto un valore economico, se si pensa che l’unione nuziale nel Rinascimento era innanzitutto un contratto nel quale venivano menzionate crude cifre e proprietà immobiliari, accompagnato da una serie di atti rituali. Il matrimonio offriva la possibilità di contrarre alleanze vantaggiose con altre famiglie. Alle figlie veniva chiesto di rinunciare a due rivendicazioni: quella sulla proprietà paterna al di là della dote e quella ad una libera scelta sessuale. I genitori sceglievano i mariti per le figlie e ne negoziavano la sistemazione economica per lo più senza che queste intervenissero. Condizione imprescindibile perché venisse celebrato il matrimonio era l’illibatezza della fanciulla, per garantire la discendenza legittima della famiglia del marito.

Il Ritratto dei Coniugi Arnolfini

Una delle ipotesi su questo celebre doppio ritratto, dipinto da Jan van Eyck nel 1434, è che esso fosse un dono di Giovanni Arnolfini alla giovane moglie.
Un’opera che ha stimolato numerosissimi studi e riflessioni e che tuttavia lascia ancora molti interrogativi irrisolti, anche a causa della ricca simbologia presente nell’opera.
Il dipinto raffigura una coppia borghese, il mercante di Lucca Giovanni Arnolfini con la moglie Giovanna Cenami, anche lei lucchese, che fecero parte del gruppo di mercanti e banchieri italiani residenti a Bruges, alla corte del duca di Borgogna Filippo il Buono. Secondo l'interpretazione prevalente, la scena rappresenta la celebrazione del giuramento della coppia (alla presenza di testimoni, le cui figure, fuori campo, sono riflesse nello specchio convesso alle spalle dei protagonisti). Tale cerimonia avveniva tramite una promessa scambiata col congiungimento delle mani davanti a dei testimoni, e pertanto aveva valore giuridico.

Jan Van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini, 1434. Olio su tavola, 82 x 60 cm. Londra, National Gallery.

Variegata è la simbologia rinvenibile negli oggetti raffigurati e in alcune caratteristiche dei personaggi. Sono presenti simboli legati al matrimonio (ad esempio il cane è simbolo di fedeltà coniugale, l'unica candela accesa nel lampadario a sei bracci che pende dal soffitto è anch'essa un richiamo matrimoniale) oppure simboli che testimoniano la ricchezza e posizione sociale ed economica della coppia (le vesti ricercate e preziose, il tappeto pregiato, i mobili costosi).
Il posizionamento delle due figure nella scena rispecchia alcuni stereotipi legati ai ruoli di genere: la donna (e le sue pantofole) si trova vicino al sontuoso letto matrimoniale e al centro della stanza, come richiede la sua funzione di custode della casa, mentre Giovanni è più vicino alla finestra aperta, simbolo del suo ruolo nel mondo esterno. Quest'ultimo guarda in faccia lo spettatore, con la mano destra sollevata in un gesto che denota autorevolezza, mentre la donna china il capo in segno di obbedienza al marito, posando la mano sinistra sul grembo come auspicio di future gravidanze. Al ventre gonfio della gravidanza allude anche l'angolo del tendaggio del baldacchino raccolto a sacco.


La Dama con l’ermellino

La Dama con l’ermellino è una delle opere più famose di Leonardo, realizzata a Milano, dove il pittore si era recato nel 1482 ed era stato assunto come ingegnere militare presso la corte di Ludovico Sforza detto il Moro. L’opera raffigura la nobildonna Cecilia Gallerani, all’epoca sedicenne favorita del Moro. Cecilia è bellissima, elegante e, nonostante la giovane età, ha un temperamento molto forte. Verrà allontanata da corte dopo il matrimonio del duca di Milano con Beatrice d’Este e andrà in sposa al maturo conte Bergamino di Cremona. Questo quadro non costituisce, pertanto, un dono di matrimonio, perché Cecilia non è mai stata promessa sposa del Moro, ma si tratta comunque di un'opera realizzata nell'ambito di una relazione tra uomo e donna, contenente una simbologia analoga a quella presente nei quadri commissionati in occasione delle nozze del signore.

Leonardo da Vinci, La Dama con l'ermellino, 1489-90, Castello del Wawel, Museo Czartoryski.

Cecilia è colta e raffinata, il suo sguardo è aristocratico e intelligente, ma guarda altrove, escludendo lo spettatore dall’opera. Ella sembra volgersi come per osservare qualcuno che sta entrando nella stanza, e al tempo stesso ha la solennità imperturbabile di un'antica statua. In realtà secondo molti studiosi l’animale raffigurato non è un ermellino, ma un furetto, che è di una specie affine e sicuramente più addomesticabile e meno mordace. Ma nel quadro l’animale che si vuole rappresentare è un ermellino, per la simbologia ad esso associata.
La scelta di questo piccolo predatore sottintende un sottile gioco linguistico: in greco ermellino è detto galé, termine che per assonanza richiama il cognome Gallerani. Inoltre, nei bestiari medievali, esso, per il suo manto candido, rappresenta alcune virtù come la purezza, la genuinità e la pacatezza.
Questo animale era anche uno dei simboli scelti da Ludovico il Moro per il proprio casato, in quanto era stato insignito dal Re di Napoli del prestigioso titolo onorifico di cavaliere dell'Ordine dell'Ermellino. La sua presenza nel dipinto, quindi, rimanderebbe non solo al nome e alla personalità della dama, ma allo stesso duca di Milano. Grazie all’associazione con l’ermellino, Cecilia viene presentata come una persona onesta, virtuosa, pura, ma anche nobile d’animo e di sentimenti.
Cecilia rivolge il suo sguardo fuori dallo spazio scenico. Secondo alcuni, la sua attenzione è stata catturata dall’arrivo improvviso di Ludovico il Moro, entrato nella stanza dove la ragazza sta posando per il quadro. La sua espressione e la sua postura sono dunque legate e condizionate da uno sguardo maschile, e tuttavia in esse non traspare alcuna sottomissione. Cecilia ricambia lo sguardo con dignità.
Secondo il critico Federico Zeri, i due ritratti femminili di Leonardo di quest’epoca milanese, La dama con l’ermellino e La Belle Ferronière, sono anche straordinari per i modi in cui è raffigurata la donna, in quanto ella è qui rappresentata sullo stesso livello mentale, intellettuale e spirituale dell’uomo. Non ci sarà più, nell’epoca successiva, il perfetto equilibrio morale e spirituale che troviamo nei due ritratti di Leonardo.


Due Dame misteriose

Lo straordinario quadro Due Dame di Vittore Carpaccio (pittore di origini venete vissuto a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento) è una delle opere più enigmatiche della pittura rinascimentale, esposto nel Museo Correr di Venezia.

Vittore Carpaccio, Due Dame, 1495 circa, Museo Correr, Venezia.

Vediamo due dame della buona società veneziana della fine del Quattrocento. Esse sono probabilmente madre e figlia, sedute entro il recinto marmoreo di una terrazza in attesa che i famigliari tornino dalla caccia, circondate da oggetti e presenze che sono un trionfo di allegorie moraleggianti, simbolicamente attribuibili sia a Venere che alla Vergine Maria, con il preciso scopo di sottolineare la virtù delle dame e del matrimonio, elementi fondamentali in una società che aveva le sue radici nella famiglia e nella maternità. E’ soprattutto la giovane donna che concentra in sé il maggior numero di significati simbolici: le sue virtù di sposa promessa appaiono minuziosamente concatenate in tutti gli oggetti e animali che le sono spazialmente più prossimi, allineati sulla balaustra o posti ai suoi piedi: il matrimonio è richiamato dal mirto nel vaso a destra, che nella letteratura classica era definito coniugalis, e dalle due tortore, che simboleggiano un solido legame coniugale; anche l'arancia fa parte, come si sa, del simbolismo matrimoniale, in quanto dono delle spose. La pavoncella rappresenta la fecondità della coppia sposata, mentre il pappagallo, solitamente associato a Maria per il suo verso "ave", riferito all'Annunciazione, qui simboleggia il destino della donna come sposa. Anche le perle, che ornano il collo e i vestiti delle dame, sono simbolo di castità e rispetto verso il marito. La giovane donna, inoltre, tiene in mano un fazzoletto, simbolo di purezza e pegno di amore fedele.
Questa, originariamente, era unita a un'altra tavola (conosciuta come Caccia in valle e ora conservata al Getty Museum di Los Angeles) ed entrambe formavano un pannello unico. Il candido fiore del giglio, che si trova nella tavola del Getty, indica la purezza virginale e richiama il dono dell'Arcangelo Gabriele a Maria nell'Annunciazione; esso è, inoltre, punto d’incontro tra l’allegoria matrimoniale e la scena di caccia.

Ricomposizione dell'opera originaria (Le due Dame + Caccia in valle)

I due cani, con il duplice significato tradizionalmente loro associato di fedeltà e vigilanza, tenuti dalla donna più anziana, sottintendono che a questa spetta il compito di custodire la giovane sposa e garantirne l’onore e l’onestà. Il levriero infatti è mostrato ringhiante e minaccioso, mentre il più piccolo, tutto bianco, guarda con aria altera e severa lo spettatore. Un paggetto si intrufola nel terrazzo dalla balaustra, elemento di congiunzione tra il mondo maschile dipinto sul fondo con quello domestico delle due donne in attesa, silenziose e assorte (e potremmo aggiungere "annoiate"), come si addice al decoro e al loro alto stato sociale.
Ecco dunque svelato il mistero: si tratta del dispiegamento di tutta una simbologia legata alla castità e alla fedeltà matrimoniale. Lo spazio, fisico e mentale, dell’attesa è quello femminile per eccellenza, cioè la casa, universo chiuso e appartato, solo idealmente e virtuosamente collegato a quello esterno, che è il mondo maschile per antonomasia.


L’enigma del cane trasformato in unicorno

Questo dipinto ha una storia alquanto singolare. Eseguito da Raffaello, ha tuttavia subito negli anni successivi una serie di rimaneggiamenti. Nel quadro è raffigurata, contro un parapetto e fra due colonne di una loggia aperta, una fanciulla bionda (fiorentina a giudicare dalla veste, la “gamurra”, e dalla pettinatura) elegantemente vestita, ritratta frontalmente, con in grembo un piccolo unicorno.
Ma, da una foto risalente al 1930, si può vedere chiaramente che, prima del restauro eseguito nel 1934-36, l’unicorno non c’era, al suo posto era raffigurata una ruota, le spalle della donna erano coperte da un mantello e il titolo del quadro indicava che il personaggio raffigurato era Santa Caterina d’Alessandria. Nel corso del restauro si scoprì che sotto lo strato superficiale, di grossolana fattura, l’immagine era ben diversa. L’ipotesi più probabile è che l’opera fosse originariamente un ritratto, commissionato a Raffaello in previsione di un matrimonio e per qualche motivo lasciato incompleto dall’Urbinate. Secondo i dati emersi dall’esame radiografico emerge che nel primo strato, quello sicuramente attribuibile a Raffaello, la dama era dipinta senza alcun animale in grembo. Poco dopo con un disegno, eseguito sulla pittura preesistente, venivano aggiunti, probabilmente da Giovanni Antonio Sogliani, altri elementi, tra i quali le maniche del vestito e un animale nel grembo della donna. Ma non l’unicorno che vediamo oggi, bensì un cagnolino, simbolo di "fidelitas".

Raffaello, Ritratto di giovane donna (Dama col Liocorno), 1505-1506, olio su tavola, cm 65 x 51, Roma, Galleria Borghese.

Nel terzo strato, cui si fece ricorso qualche anno dopo, probabilmente a causa del danneggiamento del cane, veniva sovradipinto l’unicorno, simbolo di verginità. Ma la storia non finisce qui: un ulteriore intervento avrebbe, infine, modificato la figura come Santa Caterina d'Alessandria, con l'aggiunta di un mantello e della ruota del martirio, tradizionale emblema associato all’iconografia di questa santa.
Dopo il restauro, che aveva evidenziato ben tre ridipinture successive sull’originale, la Santa Caterina d’Alessandria era diventata un Ritratto di giovane dama con unicorno.
L’iconografia del ritratto è un altro enigma non risolto: il personaggio è ancora senza nome, anche se più volte si è proposto quello di Maddalena Strozzi, sposa di Angelo Doni dal 1503, ritratta ancora in seguito da Raffaello nel dipinto conservato negli Uffizi di Firenze. Le somiglianze tra le donne di questi due dipinti sono maggiori delle differenze e, inoltre, un altro elemento gioca a favore di questa identificazione: la famiglia Strozzi risiedeva nel Gonfalone dell’Unicorno del quartiere di Santa Maria Novella.
La scelta dell’unicorno come simbolo di purezza virginale era perfettamente legittimo come attributo di una promessa sposa, ma non così consueto, agli inizi del Cinquecento, come lo era stato in epoca tardo-gotica nell’ambito della cultura cortese. Come attributo della sposa era più consueto scegliere il cane, simbolo di fedeltà; e in effetti in precedenza era stato dipinto proprio un cane, cui fu sovrapposta in un secondo momento la figura del liocorno. Il motivo di tale mutamento in corso d’opera non è mai stato spiegato e si potrebbe ipotizzare che fosse dovuto alla volontà di precisare l’appartenenza della sposa alla famiglia di quella contrada.


Dettaglio dell’esame radiografico in cui si vede la figura di un cane

L’unicorno che la donna porta in grembo, simbolo di verginità, è legato alla tipologia del ritratto nuziale. Di questo animale fantastico ci parla la letteratura cortese e cavalleresca. Nei bestiari medievali esso è descritto come una bestia inavvicinabile, indomabile e difficile da catturare. Ma se l’unicorno sente il profumo di una fanciulla vergine, allora si inginocchia davanti a lei umilmente e si addormenta tra le sue braccia. Pertanto la rappresentazione di un unicorno accanto ad una giovane ne simboleggia la purezza virginale e per trasposizione l'unicorno diventa simbolo di Castità. Anche i gioielli indossati dalla fanciulla fanno propendere per l'interpretazione del quadro come dipinto nuziale, in particolare la perla scaramazza del pendente è un riferimento simbolico alle virtù coniugali e al candore virginale della sposa. La stessa collana d'oro annodata al collo poteva rappresentare il vincolo matrimoniale.
Questo è un altro esempio di quadro nuziale in cui la fanciulla è raffigurata con un cagnolino in braccio. Pare si trattasse del ritratto idealizzato di Isabella d'Este e la bestiola umanizzata somiglia tanto al marito Francesco Gonzaga (lo si può constatare nel confronto con la scultura di Gian Cristoforo Romano al Palazzo Ducale di Mantova).


La Venere di Urbino

Nel 1538 Guidobaldo della Rovere, duca di Camerino e futuro duca di Urbino, manda un suo agente a Venezia a ritirare il quadro della "donna ignuda" presso la bottega del grande Tiziano.

Tiziano Vecellio, Venere d'Urbino, 1538, Galleria degli Uffizi.

Secondo l'interpretazione più accreditata, il dipinto doveva servire come modello "didattico" per Giulia Varano, la giovane moglie del duca, sposata per ragioni politiche nel 1534 quando la fanciulla aveva solo dieci anni e, all'epoca del dipinto, adolescente chiamata ad assolvere i propri doveri coniugali. L'opera aveva dunque la funzione di istruire la giovane sposa alla dimensione erotica del matrimonio e, poiché la modella del quadro è stata identificata come la celebre cortigiana veneziana Angela del Moro, con cui Tiziano usava intrattenersi, l’arte della seduzione è forse presentata come elemento essenziale del ruolo coniugale della sposa.
E' una Venere singolare, infatti, quella qui rappresentata: non l'ideale allegoria dell'amore, la dea tradizionalmente rappresentata sì nuda, ma immersa in paesaggi arcadici e da sogno, come la Venere dormiente del Giorgione (che Tiziano aveva contribuito a ultimare, dopo la morte dell'autore).
Malgrado la rilevante somiglianza tra le due opere, questa Venere del Tiziano non dorme affatto, né ha un’espressione assorta o distante, ma fissa in modo deciso l'osservatore, consapevole della sua nudità, con sguardo aperto e seducente e una posa ambigua, a metà strada tra il pudore e l'invito. Mentre con gli occhi, teneri e maliziosi nello stesso tempo, intrattiene con lo spettatore un dialogo erotico e pieno di lusinghe, con la mano sinistra si copre il pube (tema della Venus pudica), ma così facendo, naturalmente, l'attenzione dell'osservatore viene attirata proprio su quella parte del corpo. Anche la verticale linea di forza creata dalla cesura della parete scura alle spalle della dea, che si interseca con la diagonale del corpo, concorre a convogliare lo sguardo sullo stesso punto: gli occhi della dea e il gesto della sua mano costituiscono un connubio di perfezione irripetibile. Tiziano rappresenterà tante altre Veneri distese, ma nessuna avrà il successo enorme e intramontabile di questa.
Rispetto alle rappresentazioni tradizionali della dea dell'amore, in quest'opera è diversa anche l’ambientazione: non lo spazio bucolico di una natura da sogno ma l’interno di un palazzo contemporaneo. Tiziano ha dunque rinunciato a ogni idealizzazione e ha collocato la sua Venere in un ambiente domestico. Ella è qui rappresentata come vero e proprio simbolo dell’amore carnale: distesa su coltri sfatte, in attesa di essere vestita dalle ancelle, ha in mano un mazzolino di rose canine, attributo della dea. Quanto è distante questa Venere da quella del Botticelli, luminoso ideale irraggiungibile. Questa dea è immersa in un ambiente reale, mondano, adagiata sul letto disfatto di una camera da letto, con i capelli sparsi sulle spalle, con le stoffe pregiate, l'arredo alla moda del tempo, le ancelle sullo sfondo che si danno da fare: una è infatti inginocchiata e rovistare all'interno di una preziosa cassapanca nuziale e l'altra, con un vestito rosso e un'elegante acconciatura, si rimbocca una manica mentre regge sulle spalle la sontuosa veste da far indossare alla dama appena svegliata: un quadretto di vita quotidiana e domestica all'interno di una ricca dimora patrizia. Il riferimento divino è poco più di un alibi all'audacia della rappresentazione.

Tiziano Vecellio, Ritratto di Eleonora Gonzaga Della Rovere, 1536-38, Galleria degli Uffizi.

Se spostiamo lo sguardo ai piedi del letto, troviamo un delizioso cagnolino che dorme tranquillo e acciambellato e sappiamo che il cane è simbolo di fedeltà coniugale e di vigilanza. Ecco dunque che alla traboccante sensualità della figura femminile fa da contrappunto la tradizionale simbologia legata al matrimonio: il cane che rammenta il dovere di lealtà verso lo sposo, la pianta di mirto sul davanzale, attributo della dea ma anche simbolo di vincolo coniugale, la perla dell'orecchino simbolo di purezza. Ecco il vero destinatario di tutta quella carica erotica: lo sposo e nessun altro, tanto più se si pensa che il cagnolino raffigurato è lo stesso che compare in un altro dipinto di Tiziano, conservato anch'esso agli Uffizi: è il ritratto di Eleonora Gonzaga, madre di Guidobaldo della Rovere, suocera della fanciulla cui il messaggio del quadro è indirizzato.
E' vero che la rappresentazione della dea dell'amore viene qui spogliata dell'aura del mito e realisticamente "incarnata", ma nello stesso tempo la sensualità che se ne sprigiona viene immediatamente "addomesticata", riportata nelle maglie del dovere coniugale, asservita alle regole della famiglia patriarcale.
La Venere di Urbino ebbe una duratura fama nel mondo dell'arte, sviluppando il tema della Venere distesa, che fu portato avanti per tutto il XIX secolo, fino all'Olympia di Édouard Manet. Ma Manet, invece del cane, mise ai piedi del letto un grazioso (e trasgressivo) gattino nero.

Nessun commento:

Posta un commento