martedì 17 marzo 2020

DONNE CHE UCCIDONO GLI UOMINI

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Giuditta e Oloferne, 1597, Gallerie nazionali d'arte antica, Palazzo Barberini, Roma.

Vista con gli occhi di un uomo. Alcuni stereotipi di genere nell’arte dal Rinascimento al Novecento

INDICE DELL'INTERO PERCORSO
Introduzione
I - Passivo oggetto dello sguardo
II - Angelo del focolare
Appendice - Con le mani in mano
III - Femme fatale
      - Donne che uccidono gli uomini
      - La femme fatale della Belle Epoque
      - Donne al tavolo di un bar
IV - Corpi tra metamorfosi e frammentazioni


Nel nostro immaginario, anche iconografico, il braccio alzato, nell'atto di colpire, non appartiene in genere a una donna. Eppure la nostra produzione pittorica, a partire dal Medioevo, ha frequentato spesso questo tema, riprendendo in particolare due episodi dell’Antico Testamento, quello di Giuditta e Oloferne e quello di Giaele e Sisara.
Il primo è narrato nel Libro di Giuditta, contenuto nella Bibbia cristiana cattolica, ma non accolto nella Bibbia ebraica. Racconta le gesta della giovane e ricca vedova ebrea, Giuditta, la quale, usando il suo fascino e la sua intelligenza, riesce a sconfiggere la minaccia assira, che da tempo assedia la città giudea di Betulia, ormai ridotta allo stremo e sul punto di arrendersi. Giuditta, la cui virtù, umiltà e fede in Dio ispirano il rispetto di tutti, accompagnata dalla fedele schiava Abra, si reca all'accampamento assiro, dopo essersi purificata e splendidamente abbigliata, portando doni e fingendo di aver tradito il suo popolo. Affascinato dalla sua bellezza e dalle sue parole, il generale Oloferne accoglie la donna. Dopo tre giorni, alla fine del banchetto serale, Giuditta rimane sola in compagnia dell’uomo, completamente ubriaco, che sprofonda rapidamente in un sonno profondo. Afferrata la scimitarra del generale e invocato l’aiuto di Dio, la donna ne taglia la testa, la avvolge in un panno, la mette in un cesto e la affida alla sua serva. In questo modo Giuditta salva il suo popolo dal nemico e per questo viene festeggiata con tutti gli onori, vivendo a lungo, libera e assai rispettata dalla sua gente.

Giuditta e Oloferne

La storia di Giuditta ha avuto grande successo come fonte di ispirazione sia letteraria che iconografica. Come Salomè, anche lei ricorre alle armi tutte femminili della seduzione e dell’inganno volgendole all’assassinio di un uomo, ma il trattamento che le viene riservato è decisamente diverso. D’altra parte, se nel racconto evangelico, il maschio decapitato è un santo, anzi il primo santo cristiano, nel caso di Giuditta, invece, si tratta del nemico del proprio popolo. Giuditta assurge così al rango di eroina e patriota, che impiega le sue doti a beneficio della sua gente, senza venir mai meno alla propria virtù. Al tempo stesso Giuditta è simbolo della potenza di Dio, di vittoria del debole contro il forte, in analogia all'episodio di Davide contro Golia. Nei primi del Novecento, invece, anche Giuditta subisce la stessa sorte di altri personaggi femminili della Bibbia e del mito, divenendo un'icona del decadentismo, simbolo della femme fatale, donna dominatrice cui l'uomo finisce per soccombere.

Trophime Bigot, Giuditta decapita Oloferne

Giuditta rappresenta la vittoria della debolezza e dell’intelligenza sulla forza bruta delle armi e quella del fascino e delle doti femminili sulla violenza dei mezzi maschili. Abbattendo il solo capo, e non tutto l’esercito, riesce a sconfiggere il nemico del suo popolo. La sua condizione di vedova, ricca e virtuosa, inoltre, le permette di non compromettere la sua dignità di donna. Tuttavia, alcune delle numerosissime rappresentazioni che questo personaggio ha avuto nel corso dei secoli, non tralasciano di sottolinearne non tanto la grandezza d’animo e il coraggio quanto il potere di seduzione o l’eccessiva violenza del gesto. Si tratta comunque di una figura complessa, resa in molteplici sfumature. In una sorta di logorrea artistica, tutti vogliono dare la propria versione del personaggio, mostrandolo spesso come creatura umile e virginale,  altre volte come virago fredda e dominatrice, come eroina di limpidezza morale e di patriottismo o come simbolo di mortale sensualità.
Alcune versioni si caratterizzano per la semplicità con cui viene mostrato il personaggio, la quale riflette la sincerità e la purezza della sua anima. In queste rappresentazioni, solitamente Giuditta è una donna molto giovane e umilmente vestita, caratteristiche lontane dal ritratto della ricca vedova della tradizione biblica. Non di rado, Giuditta ha un’espressione di tristezza e malinconia nello sguardo, che non mostra alcun segno di soddisfazione, ma evoca piuttosto l'umile serenità di colui che ha agito per il bene del suo popolo, aiutato dalla mano di Dio.

Giaele e Sisara

Altri artisti, invece, non mancano di sottolinearne le ambiguità. E spesso lo fanno attraverso la figura dell'ancella Abra, che acquisisce il ruolo di "specchio dell'anima" dell'eroina e diventa un vero parametro iconografico per sondare la levatura morale della protagonista. In alcune rappresentazioni, infatti, gli sguardi laterali di Abra, il suo broncio ghignante, il suo sguardo sospettoso, diventano come indizi di una certa torbidità di Giuditta, che l'osservatore suppone non sia più guidata da una sete di giustizia, ma da quella di sangue e da una volontà castrante. Alla fine del XIX secolo, in ambito simbolista e Art nouveau, la figura stessa di Giuditta rivestirà nuove sfumature che ne faranno un personaggio ambiguo e perverso, una delle tante declinazioni che avrà lo stereotipo della femme fatale.
Giuditta è davvero un personaggio dalle molte sfaccettature, la cui verità è difficile da decifrare. Spesso la rappresentazione privilegia il momento più dinamico, quello della decapitazione (soprattutto nelle versioni medievali e seicentesche); altre volte, invece, si sofferma sull’episodio in cui la donna afferra e tiene sollevata la testa di Oloferne, mostrandola come un trofeo, oppure mentre lei e Abra la mettono in un sacco o in un cesto, o ancora mentre le due donne, con il macabro bottino, escono dalla tenda e vanno via dall’accampamento assiro (questi episodi caratterizzano in particolare le rappresentazioni rinascimentali). Questo collage si concentra sul primo di questi temi, cercando di cogliere il dinamismo e la forza del gesto della donna.
Questa iconografia (braccio alzato nell’atto di colpire e tensione del corpo) avvicina la storia di Giuditta a un altro episodio biblico, narrato nel Libro dei Giudici, in cui si racconta di Sisara, giovane generale nemico degli israeliti, battuto da Barac e ospitato nella tenda di Eber, la cui moglie, Giaele, gli conficca un picchetto nella tempia proprio mentre dorme. Anche questa vicenda ha conosciuto numerosissime interpretazioni, che partono dal Medioevo e arrivano ai nostri giorni.

Felice Ficherelli, Giaele e Sisara, 1635.

Salomè

Personaggio citato sia nei Vangeli sinottici che in quelli apocrifi, Salomè è stata protagonista di un’abbondante produzione iconografica.

Tiziano Vecellio, Salomè, 1515 ca.

Nel Medioevo è sottolineato, in particolar modo, l’episodio della danza. Salomè viene raffigurata come una figura diabolica, danzatrice contorsionista e seduttrice. La Salomè dei pittori del primo Rinascimento, invece, è una giovane ragazza dai lunghi capelli biondi o castani, carnagione chiara e viso angelico. Scompare ogni traccia di eccentricità e demonizzazione. E’ probabile che all’origine di questo cambiamento iconografico ci sia La Legenda Aurea, una storia delle vite dei santi scritta nel XIII secolo dall'Arcivescovo di Genova Jacopo da Varagine. Nel capitolo dedicato al martirio di Giovanni Battista, la figlia di Erodiade viene presentata come lo strumento di uno schema diabolico di Erode per sbarazzarsi del profeta.

Salomè con la testa di Giovanni Battista

Nelle rappresentazioni rinascimentali e seicentesche Salomè in genere è raffigurata non mentre danza, ma mentre regge il piatto su cui il carnefice pone la testa del santo. Spesso la donna distoglie lo sguardo; il suo volto mostra in genere un'espressione di tristezza, se non di disgusto. L’atteggiamento messo in evidenza dall’autore è quello di sottomissione della ragazza alla volontà della madre.
A poco a poco, l'immagine di Salomè diventa autonoma, lascia il contesto della pittura religiosa e assume il ruolo di protagonista, divenendo una figura di femme fatale, una figura fortemente erotizzata, che incarna nella propria bellezza femminile il male, la morte e la perversione. A partire dall'Ottocento, lo sguardo di Salomè si trasforma radicalmente, diviene torbido e sensuale. Vuole incantare e sedurre, trascinare l'uomo in un abisso di perdizione.
La donna del mito diventa l'incarnazione della Femme fatale. Ma, per questo argomento, rimandiamo al prossimo paragrafo.

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