sabato 4 aprile 2020

La wilderness e la fotografia americana di paesaggio

Carleton Watkins, El Capitan, Yosemite Valley, Calif., 1865 ca.

Il termine inglese per paesaggio è landscape, che combina la parola land (terra) con un verbo di origine germanica, scapjan/shaffen (trasformare, modellare). Il termine landscape significa, quindi, grosso modo “territorio trasformato”. Il paesaggio, dunque, non è un puro dato naturale. D'altra parte, il paesaggio non è neanche un dato puramente estetico e psicologico, un romantico stato d’animo individuale, una rappresentazione spirituale, la natura che si rivela esteticamente a chi la osserva e la contempla con sentimento.
Il paesaggio è prima di tutto una costruzione culturale, un processo di rappresentazione, organizzazione e classificazione dello spazio. In esso convergono le simbologie, l’immaginario, le aspettative e le relazioni di una determinata comunità. Un luogo diventa paesaggio perché subisce un processo di trasformazione causato dall’agente culturale.
Non esiste, inoltre, un paesaggio in senso oggettivo e indipendente da un osservatore e dall’azione esercitata dall’uomo. Il paesaggio è sempre un prodotto dell’intervento degli individui e delle comunità, che non si limitano a modificare l’ambiente in senso fisico attraverso la trasformazione del territorio, ma anche attraverso l’elaborazione di connotazioni e di rappresentazioni simboliche complesse.

Carleton Watkins, Cape Horn, Columbia River, 1867.

Il mito della wilderness americana

I paesaggi sono dunque dei prodotti culturali, ognuno dotato di una sua fisionomia, per quanto mutevole, definita dalla storia e dalla cultura dei luoghi. Il paesaggio americano, pertanto, è sempre stato molto diverso da quello europeo. Lo sottolineava anche Luigi Ghirri, con la sua consueta acutezza, in occasione del VII Symposion über Fotografie di Graz sul tema “Europa-Amerika” (1985), e in altre occasioni successive, affermando che il paesaggio europeo si costruisce sul tempo mentre quello americano si costruisce sullo spazio, quello dei territori sconfinati cui ci avevano abituato le grandi narrazioni delle produzioni visive provenienti dal Grande Paese.
La mitologia che si andò elaborando a partire dai primi processi di colonizzazione di quelle terre, ad opera dei pionieri, si fondava sull’idea di natura incontaminata, di wilderness, di patria predestinata. A partire dagli anni Trenta del XIX secolo, le colonie americane conobbero un processo di rapida espansione che portò in breve i loro territori dal Mississippi fino all’attuale superficie. Il successo dell’edificazione nazionale degli Stati Uniti fu dovuto a molti fattori, primo fra tutti indubbiamente la loro solidità economica. Ma un ruolo importante in questo processo è anche attribuibile alla convinzione, radicata nel popolo americano, che il Nuovo Mondo fosse la terra promessa, destinata da Dio ai Padri pellegrini che giunsero in quei territori dall’Europa per scampare alle persecuzioni religiose. I coloni puritani, nella veste del nuovo popolo eletto, avevano attribuito agli scenari paesaggistici del continente americano degli attributi contrastanti: quest’ultimo era stato visto insieme come terra vergine e selvaggia, fertile e desolata, pastoral garden wilderness. Ma entrambe queste immagini - il paesaggio selvaggio e il giardino dell’eden - furono di centrale importanza nella formazione dell’identità culturale di quella che alcuni storici hanno definito nature's nation. Si può parlare, a questo proposito, di un vero e proprio culto nazionalistico della natura.

Timothy O'Sullivan, Rock formations in the Washakie Badlands, Wyoming, 1872.

La scoperta di luoghi primordiali, che si mostravano molto più antichi di quelli europei, permetteva di individuare le origini del nuovo continente in un passato mitico, più antico e più vicino alla creazione. Se il paesaggio europeo, con le sue rovine e i suoi monumenti, si costituiva come paesaggio storico, quello americano si presentava invece come paesaggio edenico, sacro, precedente il tempo della storia. E la fotografia fu lo strumento culturale decisivo nel trasformare, sia nel senso della percezione visiva che della costruzione simbolica, quei luoghi naturali nel ‘paesaggio della missione’ del popolo americano. Furono le fotografie di Carleton Watkins dello Yosemite, che richiamavano molto la contemporanea iconografia pittorica (si pensi alle opere della River Hudson School o della Rocky Mountains School), a convincere l’allora presidente degli Stati Uniti Abramo Lincoln e il congresso a siglare la legge che garantiva la conservazione della Yosemite Valley e del bosco Mariposa di sequoie giganti, affidandone la cura e la proprietà allo stato della California, dopo che naturalmente l’esercito aveva mandato via i legittimi abitanti di quel territorio, gli indiani Yosemite. Fu proclamato definitivamente parco nazionale nel 1890, diventando subito una delle mete turistiche privilegiate.

Timothy O'Sullivan, Panoramic view of tents and a camp identified as "Camp Beauty", rock towers and canyon walls in Canyon de Chelly National Monument, Arizona, 1873.


Natura e progresso

Due degli elementi principali su cui si è fondato il mito della wilderness e della retorica nazionalista americana sono l’epopea della frontiera e la relazione tra natura e progresso. Quest’ultima prendeva la fisionomia di un rapporto conflittuale, che opponeva il rurale e l’urbano, il paesaggio incontaminato e la macchina, un dilemma che il popolo americano si trovò ad affrontare in quegli anni caratterizzati da sviluppo industriale ed espansione territoriale. Come conciliare l’idea della natura selvaggia, primordiale, della terra vergine e incontaminata con la spinta al progresso, con l’azione dirompente della macchina che compiva il suo percorso inarrestabile verso la modernizzazione? Tutto ciò sollevava prima di tutto un problema morale, che si cercò di risolvere grazie all’innovativa istituzione dei parchi nazionali. Quegli scenari paesaggistici incontaminati, messi sotto tutela, divennero nella percezione comune i monumenti fondativi dell’identità del popolo americano, i sacrari della wilderness, i ritratti dell’America primitiva. In quei luoghi si celava il mito della grande natura primigenia, il santuario disabitato, mai calpestato da impronta umana prima dell’arrivo degli europei. Paradossalmente fu la civiltà a creare la wilderness, un’idea sostanzialmente astratta e artefatta, che costituì la base della costruzione dell’identità nazionale degli Stati Uniti. E, come nella maggior parte dei processi coloniali, ci si servì dell’idea di wilderness, intesa come “terra di nessuno”, per giustificare l’esproprio ai danni degli indigeni. Nel momento infatti in cui quella terra veniva identificata come selvaggia e disabitata, implicitamente non si dava riconoscimento alla presenza e ai diritti di coloro che in quei territori abitavano da secoli e che avevano lasciato la loro impronta su di essi.

Timothy O'Sullivan, Cottonwood Lake, Utah (Wahsatch), 1869


A.J. Russell, Sun pictures of Rocky Mountain scenery...resources of the Great West, 1870.

In secondo luogo, venne ben presto maturando la convinzione di una possibile coesistenza tra wilderness e pastoral garden. Lo si può riscontrare nella letteratura, nelle arti visive e nella fotografia dell’epoca, in cui compaiono numerose varianti dell’immagine del paesaggio naturale entro il quale la tecnologia (macchine, ferrovie, costruzioni civili di vario genere) fa la sua comparsa. Rappresentano il primitivo ideale pastorale sottoposto alle forze inarrestabili del progresso e della storia. Molti sono i dipinti e le fotografie del periodo che illustrano ad esempio l’espansione ferroviaria. In questo tipo di rappresentazioni si fa in modo che l’immagine del treno non disturbi l’armonia del paesaggio, ma si integri perfettamente con esso. L’opera dell’uomo è vista non come in opposizione, ma come parte delle forze della natura.
La conquista del territorio grazie alle macchine viene trasformata nell’idea poetica della terra domata e resa feconda dal lavoro dell’uomo mentre i restanti paesaggi incontaminati, preservati dai nascenti parchi nazionali, diventano nell’immaginario comune del popolo americano luoghi ideali in cui compiere un pellegrinaggio purificatore, monumenti di identificazione nazionale e memoria di un passato di integrità e agreste armonia.

Timothy O'Sullivan, The Pyramid and Domes, Pyramid Lake, Nevada, 1867

Andrew J. Russell, “High Bluff, Black Buttes,” from The Great West Illustrated, 1869. (Gilder Lehrman Collection)


L’epopea della frontiera

Se nel vecchio continente l’elemento principale su cui si fonda l’identità nazionale è il tempo storico (visibile nei monumenti, nelle antiche vestigia, nei documenti del passato), in America questo elemento è costituito dallo spazio. Uno spazio che si dilata sempre più, verso la frontiera. Una terra ideologicamente investita di significati epici e religiosi. Una religione fondata sull’unione mistica di Dio, natura e nazione, perché l’avanzata verso Ovest non era altro che la realizzazione di un Destino Manifesto (Manifest Destiny), dovuto al volere divino.
Non si sottolineerà mai a sufficienza quanto in America lo spazio sia stato il riferimento identitario più importante. Non solo. Se in Europa la soluzione dei conflitti sociali poteva intraprendere solo la strada della mediazione politica, sindacale o dell’atto rivoluzionario, negli Stati Uniti, fino a quando tutte le terre non furono conquistate, la risoluzione dei conflitti si indirizzò verso lo spazio, verso l’occupazione di nuove terre. E’ chiaro dunque quale posto l’elemento spaziale, e quindi la sua rappresentazione nel paesaggio, rivestisse nell’immaginario americano dell’Ottocento. I paesaggi delle nuove terre facevano tutt’uno con l'American dream.

Andrew J. Russell, Promontory Trestle Work and Engine No. 2, 1869.

Tra il 1850 e il 1880 vengono svolte su incarico governativo numerose esplorazioni geologiche e geografiche, volte a conoscere e quantificare le risorse naturali e le effettive possibilità di vita nei territori da conquistare. Le immagini che provengono da quelle terre rafforza l’utopia del West come giardino biblico della creazione e l’idea del valore morale di quella conquista, in quanto facente parte del disegno divino.
L'esplorazione e insediamento nei territori del West coincidono con lo sviluppo del mezzo fotografico. Proprio le immagini fotografiche, riprodotte in libri e giornali dell’epoca e disponibili per l'acquisto in proprio, contribuiscono alla creazione dell’immaginario comune dell’Ovest come territorio incontaminato ricco di spettacolari meraviglie naturali; come simbolo del futuro e compimento di un destino; come una terra di opportunità economiche, dove ognuno può costruire la propria fortuna tramite lo sfruttamento delle risorse naturali.
La storia della fotografia e quella della formazione degli Stati Uniti sono andate di pari passo, intrecciandosi a vicenda. Il nuovo medium era stato appena inventato (1839) che già seguiva i soldati americani nella guerra contro il Messico per l’annessione della California e degli stati del sud-ovest, nella corsa all’oro, sui campi della guerra civile, nella costruzione delle grandi linee ferroviarie, nella colonizzazione degli immensi territori del West. Attraverso queste immagini, che ritraevano le montagne più alte, i canyon più profondi, le popolazioni native con i loro usi e costumi, e che grande diffusione ebbero come illustrazioni di album, libri e giornali, la maggior parte degli americani fece il primo incontro con quelle terre lontane. E attraverso di esse quel popolo acquisì coscienza di chi fosse, della terra che abitava, delle risorse a disposizione.

ANDREW J. RUSSELL (1829-1902) Dale Creek Bridge.

Fin dall’inizio il governo federale ebbe un ruolo fondamentale nel processo di acquisizione della documentazione visiva del West. Nell’era pre-fotografica, a partire dagli anni venti dell’Ottocento, il governò assunse diversi pittori e illustratori al seguito delle spedizioni di esplorazione. Ma, a partire dagli anni quaranta, furono numerosi i fotografi incaricati di documentare i nuovi territori con quelle immagini prelevate con la tecnica. Furono soprattutto gli anni sessanta e settanta la golden age of western photography, di cui furono protagonisti fotografi pieni di ingegno e di talento, formatisi sui campi della Guerra di secessione.
Il governo giocò due ruoli chiave nella creazione dell’immagine fotografica del West: non solo sponsorizzò le spedizioni di scienziati e fotografi attraverso gli immensi territori sconosciuti, non solo provvide dunque alla produzione di queste immagini, ma si occupò anche della loro pubblicazione e ad approntare gli archivi in cui tali immagini sarebbero state raccolte. In questo secondo ruolo, il governo nazionale delineò la funzione che queste fotografie dovevano avere nella coscienza degli americani: esse dipingevano il West come un posto libero, pieno di risorse naturali e pronto per essere occupato. Inoltre, mostrando quei territori come un paradiso incontaminato, così come era uscito dalle mani di Dio, sembravano affermare: “questa è la terra promessa del popolo americano. Questa è, per diritto divino, la terra destinata a lui e a nessun altro”. Tocqueville, nel suo soggiorno americano, annotò i commenti che alcuni “onesti cittadini” avevano rilasciato: “Questo mondo ci appartiene... Dio, nel rifiutare ai primi abitanti la capacità di civilizzarsi, li ha destinati in anticipo all’inevitabile distruzione. I veri proprietari di questo continente sono quelli che sanno come sfruttare le sue ricchezze”.

Alexander Gardner, Leavenworth, Lawrence, and Galveston Railroad Bridge across the Kaw River at Lawrence, Kansas, 1867.

Dopo la fine della Guerra di Secessione, come altri fotografi di guerra, Alexander Gardner (famoso per le sue foto del Presidente Lincoln e del condannato a morte Lewis Payne, uno dei responsabili dell’attentato allo stesso Presidente) seguì la costruzione della ferrovia transcontinentale da parte della Union Pacific RailRoad, una linea che iniziava nelle praterie del Kansas, attraversava il Colorado, le Montagne Rocciose, i deserti del Nuovo Messico e dell’Arizona e arrivava in California. Nel 1868 pubblicò un album di immagini che mostrano sia la costruzione della ferrovia sia i territori attraversati (Across the Continent on the Kansas Pacific Railroad).
Le immagini di questi servizi fotografici al seguito delle grandi compagnie ferroviarie perseguivano scopi diversi: incoraggiare i possibili investitori, documentare la topografia dei territori del West, intrattenere il pubblico e ottenere il consenso verso questa nuova impresa comune che unificava le aspettative di un popolo che fino a poco tempo prima si era tragicamente trovato diviso su fronti contrapposti.

Alexander Gardner, Mushroom Rock on Alum Creek, Kansas, 1867

Alexander Gardner, View near Fort Harker, Kansas, 1867.

Le fotografie di Gardner documentano l'impatto iniziale dei nuovi insediamenti ferroviari nelle grandi praterie e la graduale trasformazione del paesaggio. Nonostante il suo compito fosse quello di fotografare il terreno, vi sono tuttavia pochissime fotografie della serie prive di presenza umana. Egli era fortemente affascinato dalla profonda relazione tra l’uomo e la sua terra, una terra sconfinata, di cui non si vede mai la fine, una terra immensa dentro la quale l’uomo non è che una piccola presenza.
Nel 1867 il fotografo Timothy O'Sullivan (1840-1882) accompagnò Clarence King, geologo del Geological Exploration of the Fortieth Parallel (comunemente conosciuto come Fortieth Parallel Survey) in una spedizione, finanziata da fondi federali, nel lontano west, dalla California al Wyoming.
La spedizione incontrò non pochi ostacoli: malaria, fiumi insidiosi, impervi passi di montagna ghiacciati. Ma, in condizioni spesso disumane, O'Sullivan riuscì a scattare fotografie incomparabili, divenute leggendarie. Si tenga presente che le grandi lastre al collodio venivano sviluppate sul posto, in pochi minuti (mentre le stampe all’albumina vennero eseguite in un laboratorio fotografico di Washington dopo la conclusione della spedizione).

Timothy O'Sullivan, South Side of Inscription Rock, New Mexico, 1873 (Getty Museum)

Lo scopo espresso della spedizione era quello di accertare le caratteristiche fisiche della regione, tra cui le risorse minerarie, la flora, la fauna e il potenziale agricolo. Un altro scopo potrebbe essere stato quello di identificare e mappare le possibili roccaforti da cui i nativi americani potevano organizzare la resistenza contro l’avanzata dei coloni bianchi. Tali indagini e fotografie erano, in ultima analisi, uno strumento della politica di espansione verso ovest.
Le immagini dei fotografi al seguito delle grandi spedizioni del lontano West mostrano fin da subito un punto di vista costante: nel mentre illustrano la vastità e la grandiosità del paesaggio, rivelano anche la sua malleabilità alle trasformazioni, la sua duttilità a piegarsi alla volontà di ferro e al potere tecnologico del popolo bianco americano. Un potere che significava soprattutto creazione di ferrovie, città, industrie, miniere, insomma di tutte quelle strutture stanziali che comportano una radicale trasformazione del paesaggio. Una visione di quel territorio del tutto diversa da quella delle tribù nomadi dei nativi americani, che su quelle terre avevano vissuto da sempre apportando modifiche molto più limitate.

Timothy O'Sullivan, Shoshone Falls, Idaho, in 1868.

Eppure in quelle foto viene completamente ignorato un fatto centrale: la conquista del West comportava non solo una lotta contro una terra dura e a volte spietata, ma anche una lotta contro le popolazioni native di quei luoghi, che in quelle terre vivevano già da prima. Questo conflitto è completamente eluso in queste immagini.
Se noi guardiamo bene queste fotografie di “esplorazione”, il dato interessante non è ciò che esse mostrano, ma soprattutto ciò che esse escludono dalla loro visione del territorio. Come mette in evidenza Martha Sandweiss in Photography, the Archive and the Invention of the American West, le immagini di western landscape dipingono uno spazio privo di conflitti: da una parte come natura incontaminata specchio della creazione, dall’altra come luogo pieno di risorse e di possibilità per tutti. Un mondo ideale, all’interno del quale è assente qualsiasi minaccia al nuovo ordine delle cose che si sta imponendo.

Timothy O'Sullivan, The mining town of Gold Hill, just south of Virginia City, Nevada, in 1867.

Tra le opere più significative nate al seguito della costruzione delle linee ferroviarie americane vi è senza dubbio The Great West Illustrated (1869) di Andrew J. Russell, il quale seguì l'avanzata della linea Union Pacific Railroad, che si sviluppa più a nord rispetto a quella seguita da Gardner, da Omaha lungo le pianure del Wyoming, attraverso le montagne dello Utah fino alle coste del Pacifico.
Le fotografie di Russell documentano sia la costruzione della ferrovia che l'aspra bellezza dei paesaggi occidentali, terre sconfinate dalle illimitate potenzialità, selvagge e tuttavia domate dal lavoro dell’uomo. Montagne aspre e deserti aridi, ampi fiumi e immense praterie danno la misura della maestosità e della vastità di questi nuovi territori, e tuttavia non compaiono come ostacoli all’intervento umano e al progresso. Questo è anzi sempre ben presente nelle immagini, nella forma quasi sempre dei binari e del treno, che attraversano i posti più impervi o desolati.
E’ pressoché costante, nella letteratura e nell’arte di questo periodo, una visione ambivalente del progresso industriale e tecnologico, di cui la ferrovia e la locomotiva sono potenti emblemi. E così, anche in queste fotografie, da una parte il treno ci appare come l’elemento intruso che viola l’integrità e la sacralità di questi luoghi incontaminati, e dall’altra si fonde bene con il paesaggio e ci dà la misura dello sforzo eroico compiuto dall'ingegneria umana.

ANDREW J. RUSSELL, Granite Caon.

E' il sentimento che, ad esempio, troviamo in Walden ovvero La vita nei boschi di H. D. Thoreau che, da una parte, sente con disgusto il fischio del treno che, come il grido di un falco, profana la pace silvestre e dall'altra non può che provare ammirazione verso questa invenzione dall'energia prodigiosa.
Se infatti il treno che sfreccia via lungo i binari costituisce una forza che minaccia l’immagine pastorale del paesaggio, allo stesso tempo dà a tutti la possibilità di percorrerlo e di unire terre lontane. Il treno all’epoca offriva la possibilità di mettere in diretto contatto l’abitante della città con territori distanti ed incontaminati, e permetteva di farlo rapidamente. Per questo la macchina, e il treno in particolare, non contrasta con l’ideale pastorale e contribuisce a formare quello che Leo Marx, nel suo saggio The Machine in the Garden, chiama middle landscape.
Il binario è un efficace agente di trasformazione del paesaggio naturale in paesaggio antropico. Queste foto scattate al seguito dei lavori di costruzione delle grandi ferrovie transoceaniche indugiano in particolare su questo elemento, la nuova strada in grado di condurre proprio alla conquista del sogno americano.

A. J. Russell, Malloy's cut near Sherman, 1868, Yale University.

E’ abbastanza frequente, inoltre, in questo tipo di fotografie, la presenza di figure umane solitarie, riprese di spalle, come assorte nei loro pensieri. E’ il caso, ad esempio, di Malloy’s cut, sempre di Russell, in cui vediamo un uomo ripreso di schiena nei pressi di un binario, apparentemente perso in una qualche forma di contemplazione. Egli è collocato tra una bassa altura e le rotaie, tra la natura e l’artificio umano. La sua presenza è più di un semplice strumento di valutazione delle grandezze. La figura solitaria in queste foto è l’uomo che contempla il farsi del suo destino epico e individuale.
Le fotografie di Russell raccolte in The Great West Illustrated testimoniano un paesaggio in cambiamento ad opera dell’intervento umano. Non illustrano pertanto solo dei luoghi, ma un movimento, un avanzamento, un processo di conquista del territorio che queste immagini contribuiscono a “sublimare” (o si potrebbe dire “mascherare”) nella retorica del compimento di una missione. Le sentiamo subito familiari perché concorsero a creare il mito della frontiera e perché ad esse si sono ispirati i registi del fortunato genere western, che hanno condotto fino a noi le stesse atmosfere e le stesse suggestioni.

A. J. Russell

La wilderness di Ansel Adams

Ansel Adams raccoglie e rifonda l'eredità dei grandi paesaggisti americani dell'Ottocento, come William Henry Jackson, Carleton Watkins e Timothy O'Sullivan, interpreti di quel sentimento della wilderness quale elemento identitario della nazione americana, che porta lo sguardo del fotografo a immortalare la maestosa e incontaminata natura dell'Ovest. Nell'epoca di grandi sconvolgimenti e profonde tensioni che caratterizzano la società statunitense della prima metà del XX secolo, il californiano Adams teorizza e porta avanti il suo credo: “Più bellezza nella mente, e più pace nello spirito". Solo il ritorno alla natura può redimere un mondo pericolosamente estraniatosi dalla sua bellezza e restituire quell'incanto primitivo cancellato dal progresso.
Difesa della dignità della fotografia quale “estensione dell'arte moderna” e conservazione dell'ambiente sono le missioni che Adams porta avanti per tutta la vita. La bellezza primordiale ed eterna dell'Ovest offre al fotografo di San Francisco un rifugio sicuro dalle tragedie del Novecento, una costante sorgente di ispirazione e di rinnovamento spirituale, perseguito attraverso un'intensa e intima relazione personale con la natura.

Ansel Adams, Monolith, The Face of Half Dome, Yosemite Valley, California, 1927.

I paesaggisti del secolo precedente, spesso al seguito di spedizioni esplorative e di compagnie ferroviarie, realizzavano fotografie che avevano obiettivi geologici e topografici e, nello stesso tempo, attingevano alle convenzioni pittoriche del sublime e del pittoresco. Quelle immagini esprimevano un mondo naturale solido e immutabile, inteso soprattutto come realtà geologica. Adams, al contrario, è interessato prevalentemente a una natura intesa come evento, come realtà mutevole, espressione dell'azione del tempo atmosferico, che fa dello scenario naturale un'eterna sorgente di stupore. I fenomeni atmosferici rendono il paesaggio un evento unico e dunque un'esperienza emozionale irripetibile, che va colta nel suo momento più elevato, cioè quando le luci si fanno più cariche e quindi i contrasti più forti, per evidenziare i soggetti e le ombre. Ansel Adams è soprattutto un fotografo della luce, che conferisce vitalità e tensione drammatica al paesaggio.
Egli fa propria la posizione di Stieglitz secondo la quale la fotografia artistica esiste in quanto è "affermazione di vita", integrità della visione. Una vitalità e un'integrità che Adams sente, perenni e maestose, nell'innocente bellezza della wilderness, una bellezza la cui austerità e solidità sono pari a quelle del granito delle rocce dello Yosemite National Park, che egli inizia a fotografare fin da ragazzo.

Ansel Adams, The Tetons and the snake river, 1942

Influenzato dalla filosofia della natura di Edward Carpenter e dalla poesia di Walt Whitman, alla fine degli anni Venti Adams era già un profondo conoscitore della Yosemite Valley. Egli teorizzava un rapporto simpatetico con la natura, una comunione di mente e di spirito con l'eternità delle rocce e del cielo, il ritorno ad un'età mitica, lontana dalle tensioni della società moderna. Distante dalla fotografia interessata al paesaggio "sociale" delle campagne e delle città, Adams si elevava, solitario, "come l'incarnazione stessa della wilderness, come l'ultimo dei romantici d'America, per perpetuare un senso di paradiso, un'era di innocenza e di fede che è sempre sul punto di svanire, ma che non è mai interamente perduta", secondo il commento riportato dal Time, che nel 1979 gli dedicava, primo fra i fotografi, la copertina. Il suo bianco e nero scolpisce un'America epica e lirica, permeata dall'estetica del sublime, dove l'uomo non è presente fisicamente come soggetto, ma lo si percepisce armonicamente fuso con il tutto.
Questa tensione idealistica ed emotiva pervade le immagini di Adams degli anni Quaranta, in cui emerge uno stile maturo, grandioso ed epico, di vasti orizzonti e magiche luci. Come Moonrise over Hernandez, considerato forse il suo capolavoro, scattata probabilmente il 31 ottobre o il 1° novembre del 1941 nel New Mexico, durante il ritorno a casa alla fine di una giornata fotograficamente non esaltante lungo la Chama Valley.

Ansel Adams, Moonrise over Hernandez, New Mexico, 1941.

In questa fotografia, più che in altre, Adams rappresenta un paesaggio americano idealizzato, vissuto non come terra di conquista e sopraffazione, ma di unione spirituale fra la natura e l'uomo, espressa suggestivamente in quella luce avvolgente che fonde insieme le due realtà. L'America nature's nation, cantata da Walt Whitman, per la quale la forza della storia e della cultura della nazione discendono dalla grandezza e bellezza naturali del continente, trova qui lirica espressione. La rappresentazione e la salvaguardia della wilderness non mettono realmente in discussione il progresso e la civiltà, ma ne costituiscono le radici epiche, a cui i parchi naturali innalzano grandiosi e solenni monumenti.
Nello stesso viaggio fotografico nel deserto sudoccidentale da cui scaturì Moonrise, Adams ripeté una fotografia scattata da O’Sullivan nel 1873, dal titolo White House Ruins, raffigurante una formazione rocciosa e dei resti archeologici dell'antica tribù degli Anasazi nel Canyon di Chelly, Arizona.

Ansel Adams, White House Ruin, Canyon de Chelly National Monument, Arizona, 1942.

Il fotografo di San Francisco eseguì lo scatto riprendendo la composizione, l'ora del giorno e persino il periodo dell’anno della fotografia di O'Sullivan, nonostante in Examples Adams descriva la riproduzione fedele come frutto del caso, spiegando di essersi imbattuto in “un luogo stranamente familiare” di cui realizzò due fotografie, e sostenendo che solo successivamente si era reso conto che quell’aspetto familiare era da attribuire alla fotografia di O’Sullivan.

Timothy O’Sullivan, Ancient Ruins in the Cañon de Chelle, 1873, (The J.Paul Getty Museum).

Ma Adams non è stato l'unico a ricalcare le orme del fotografo ottocentesco. Nel 1977 Mark Klett (fotografo e geologo) costituì il Rephotographic Survey Project, con Ellen Manchester e Joanne Verberg. Insieme, i tre fotografi si prefissero di rifotografare molte località dei rilevamenti topografici effettuati un secolo prima, materiale che infine pubblicarono nel 1984 come Second View: The Rephotographic Survey Project.
L’RSP era interessato a documentare le variazioni che si erano verificate nei luoghi durante l’intervallo di un secolo, oltre a rendere evidenti alcune scelte soggettive prese all’epoca, come la posizione dell’apparecchio fotografico e l’editing dell’immagine. Molte rifotografie mostrano da una parte i mutamenti occorsi a quelle terre a causa dell’espansione occidentale e, dall’altra, raffigurano al contrario paesaggi all’apparenza inalterati, ancora distanti dall’impatto dell’uomo. Non di rado, le rifotografie documentano la riappropriazione da parte della natura di quei territori in cui erano rimasti incompiuti o avevano fallito i tentativi di insediamento o di industrializzazione, ormai cancellati dal tempo e dalla terra. A questo link, qualche esempio di fotografia originale e rifotografia: http://ccp-emuseum.catnet.arizona.edu/view/people/asitem/items@:586?t%3Astate%3Aflow=b326b300-c46a-4489-8933-8f00c924024e.

A. J. Russell, Hanging Rock, foot of Echo Cañon, 1868 R. Dingus, Hanging Rock, Foot of Echo Canyon, Utah, 1978.

Che cosa distingue, quindi, la ricreazione da parte di Adams di White House Ruins di O’Sullivan dalle rifotografie di altre immagini di O’Sullivan realizzate dall’RSP? Mentre l’RSP cerca di catturare l’impatto del tempo trascorso e dell’intervento umano sul paesaggio, Adams tentava di fissare l’immagine di una natura senza tempo, esterna alla storia dell’uomo, indifferente agli sconvolgimenti dei settant’anni che intercorrevano tra le fotografie di O’Sullivan e le sue. Rephotography, al contrario, riconosce il ruolo mediatore della fotografia come rappresentazione e in quanto soggetta ai pregiudizi e alle condizioni storiche sia di chi la realizza sia del processo stesso della realizzazione.
Il punto di vista di Adams si rifaceva, come quello ottocentesco, al mito della grande natura primigenia, il santuario disabitato mai calpestato da impronta umana prima dell’arrivo degli europei, tempio incontaminato dove l’uomo si reca per purificarsi dalle brutture della civiltà. Ma questa idea della wilderness, intesa come realtà sacrale ed eterna e principio di costruzione dell’identità americana, è una costruzione astratta, mai veramente esistita, prodotto ideologico creato dalla stessa civiltà. Essa si fonda su un dualismo insanabile: quello tra uomo e natura, civiltà e mondo selvaggio. Le fotografie di Adams rifuggono la civiltà per immortalare una natura primigenia e incontaminata. Le critiche che a più riprese gli saranno mosse partono invece dalla constatazione che non esiste un paesaggio anteriore alla civiltà. Ogni paesaggio è sempre una rappresentazione ideale, un punto di vista, un modo di percepire la realtà, l'immaginario costruito per esprimere un senso di identità.
Ansel Adams è stato l'ultimo a guardare il West americano con questo sguardo epico, alla ricerca della wilderness. Dopo di lui un altro Adams, ma di nome Robert, muterà quello sguardo da 'epico' a 'distopico'.


Il tramonto dell'innocenza

Nel libro pionieristico di Robert Adams The New West: Photographs Along the Colorado Front Range, sul desolato paesaggio suburbano del Colorado, il West sembrerà non più la mitica terra dei pionieri ma quasi una Waste Land di eliotiana memoria, dove la wilderness è ormai definitivamente perduta.
Quella di Robert Adams è una fotografia che, nella scelta del soggetto, dell'inquadratura e dell'estetica di stampa, si allontana radicalmente dall'enfasi retorica che aveva caratterizzato le immagini di Ansel Adams, Minor White ed Edward Weston, ultimi cantori della wilderness, cioè del territorio incontaminato delle pianure, dei canyon e delle foreste che aveva suscitato negli artisti e degli scrittori americani il sentimento del sublime. Adams documenta la perdita dell’innocenza di quel paesaggio, diventato immagine di uno squilibrio che non è solo ecologico, ma sociale ed esistenziale.

Robert Adams, Burning Oil Sludge North of Denver, Colorado, 1973.

Il 21 luglio 1973 il newyorkese Stephen Shore, il precursore della fotografia a colori, mentre viaggiava lungo le strade dell’Oregon, riprese questa immagine, che avrebbe poi pubblicato nel suo celebre Uncommon Places (1982).
Si vede inquadrato un grande cartellone pubblicitario, che rappresenta un paesaggio curiosamente molto simile a quello in cui l'immagine è collocata.
L'effetto fotografia-nella-fotografia ricorda un po' quello che caratterizza un'opera del pittore Magritte, La condizione umana, dove il paesaggio che fa da sfondo non è che il prolungamento del paesaggio raffigurato su una tela, poggiata su un cavalletto.

Stephen Shore, US 97, South of Klamath Falls, OR, July 21, 1973.

Si tratta di una fotografia che riassume bene la prospettiva post-romantica che caratterizza la visione del paesaggio americano che Shore condivide con gli altri esponenti del movimento New Topographics. Non più le vedute maestose, selvagge o solenni, che nel tempo avevano proposto i vari Timothy O'Sullivan, Carleton Watkins, Edward Weston, Ansel Adams e Minor White. L'obiettivo di questi era stato quello di documentare e di celebrare la wilderness americana, cioè l’idea della natura selvaggia e primordiale, della terra vergine e incontaminata che i primi pionieri avevano trovato al loro arrivo nel nuovo mondo, un'idea che aveva costituito l'elemento identitario e fondante della cultura americana. Questa fotografia di Shore, al contrario, ci dà un'immagine della natura emarginata ed estromessa dalla sua stessa rappresentazione. Risulta ormai impossibile avere un'esperienza autentica della natura: ogni percezione è inevitabilmente mediata dalle immagini.
Se si osserva bene la fotografia, l'immagine che ci restituisce la natura idealizzata del mito è quella presente nel cartellone pubblicitario, mentre il paesaggio in cui questo è collocato è un territorio contaminato dalla presenza umana, evidente nei recinti e pali della luce.
Questa fotografia fa parte di quello che è forse il lavoro più celebre di Shore, Uncommon Places, risultato di una serie di viaggi per gli Stati Uniti compiuti tra il 1973 e il 1981, all'indomani dell'uscita di American Surfaces.

Stephen Shore, West Ninth Avenue, Amarillo, Texas, October 2, 1974. From the series Uncommon Places.

Con fredda obiettività e un personale uso dei colori e della luce, con uno stile sobrio e privo di enfatizzazione, Shore mostra le trasformazioni che la moderna cultura del consumo e dell'immagine ha causato al paesaggio americano, dove pali e fili elettrici, insegne al neon e cartelli pubblicitari hanno per sempre compromesso il mito tradizionale della wilderness. Le sue fotografie, che ritraggono soggetti all'apparenza banali e scene di vita quotidiana, documentano il paesaggio alterato dall'uomo, eroso dallo sviluppo industriale e dall'espansione delle città.
Le immagini, quasi sempre svuotate della presenza umana, spesso assumono un'aura archetipica: è la costruzione di una nuova visione mitica, di una nuova frontiera, quella del ventre un po' desolato dell'America di periferia, con le sue zone suburbane, le strade, i motel, i grandi parcheggi e le insegne pubblicitarie, le stazioni di servizio e i drugstore, che segnerà in modo indelebile l’evoluzione della fotografia americana.
Alla mitica mostra del 1975, dal titolo emblematico New Topographics: Photographs of a Man-Altered Landscape, a cui prenderanno parte anche Robert Adams e Stephen Shore, per la prima volta verrà trattato il tema dell'impatto dell’uomo sul contesto naturale in cui vive ed emergerà prepotentemente la consapevolezza che il paesaggio americano incontaminato, raccontato dai vedutisti dell’Ottocento, ormai non esisteva più.

Nessun commento:

Posta un commento