lunedì 7 dicembre 2015

Animali nell'arte - Le pitture rupestri del Paleolitico superiore




"Da Altamira in poi tutto è decadenza" diceva Pablo Picasso e "nessuno di noi è in grado di dipingere così bene". Parlando di Altamira, l’artista si riferiva alle grotte di Altamira, famose per le pitture rupestri risalenti al Paleolitico superiore. L'arte del Paleolitico europeo è l'arte rupestre per eccellenza, in particolare quella della zona Franco-Cantabrica (Francia Sud-Occidentale e Spagna Settentrionale), con le caverne di Chauvet, Cosquer, Lascaux e Altamira, mentre limitate sono le testimonianze in Italia e nel resto d’Europa.
Gli autori di queste immagini graffite o dipinte erano prevalentemente nomadi, vivevano di caccia, pesca e raccolta. Dipendevano in tutto e per tutto dalla natura e dagli animali. In alcuni casi le incisioni o le pitture sono state eseguite nei pressi dell'ingresso delle caverne, dove la luce riusciva a illuminare l'interno, ma nella maggior parte dei casi, le opere venivano realizzate nel ventre delle caverne , in luoghi bui e di difficile accesso.

L'arte del Paleolitico comprende tre temi: gli animali, i segni e le impronte di mani, le rare figure antropomorfe. Di questi temi però, gli animali sono senza dubbio i soggetti prevalenti, i protagonisti per eccellenza dell’arte preistorica. Quelli ritratti sono spesso erbivori, mentre i carnivori, i pesci e gli uccelli sono abbastanza rari. Ma se grande attenzione veniva concessa al ritratto degli animali, assenti sono invece i riferimenti naturalistici (fiori, alberi, paesaggio...) e anche la figura umana - comunque rarissima - era spesso invece solo abbozzata, priva di anatomia esatta.
Gli animali raffigurati sono perfettamente riconoscibili, trasmettono forza, energia, vitalità; spesso sono state sfruttate le sporgenze delle rocce per renderli tridimensionali, alcune figure sono enormi e spesso sono accompagnate da simboli e pittogrammi, a cui non sappiamo più dare un significato. Non sappiamo esattamente cosa queste immagini volessero comunicare. Le ipotesi interpretative fondamentali sono sostanzialmente due, ma entrambe concordano su un assunto: il fatto che questi dipinti si trovassero spesso in angoli completamente nascosti, oscuri, difficilmente accessibili dimostra che essi non furono eseguiti per la gioia degli occhi, ma perseguivano uno scopo diverso. Non è pertanto possibile parlare di intento decorativo o di esigenza estetica di espressione, qui dove le pitture venivano piuttosto celate che esposte.
1. Il ritualismo magico. Secondo questa ipotesi l’arte rupestre aveva, per l’uomo del paleolitico, un valore utilitario, legato alle necessità della sopravvivenza; la rappresentazione degli animali costituiva un sorta di rito propiziatorio alla caccia. Ma questa magia non aveva nulla in comune con quello che noi intendiamo per religione, nel senso di credenza in potenze ultraterrene. Le immagini facevano parte dell’apparato di questa magia, perché esse erano insieme rappresentazione e cosa rappresentata. Nell’immagine da lui dipinta il cacciatore paleolitico credeva di possedere la cosa stessa, credeva, riproducendolo, di acquistare un potere sull’oggetto. La rappresentazione era l’anticipazione dell’evento. Non si trattava, dunque, di sostituzioni simboliche, ma di vere azioni dirette ad uno scopo, atti reali che ottenevano effetti reali. Una sorta di incantesimo. Quando l’uomo paleolitico dipingeva un animale sulla roccia, si procurava un animale vero. Per lui il mondo delle finzioni e delle immagini, la sfera dell’arte e della pura imitazione, non significavano ancora un campo specifico, distinto e separato dalla realtà empirica; egli non confrontava ancora i due mondi, ma vedeva nell’uno l’immediata, integrale prosecuzione dell’altro. Non c’è nessun confine tra realtà e arte e quest’ultima è ancora tutta al servizio della vita.
L’osservazione degli ultimi riti animistici ancora oggi praticati da popolazioni aborigene australi o africane, ci permette di comprendere alcune dinamiche che probabilmente non erano del tutto estranee alle culture preistoriche. Ogni società che basa la propria sussistenza sulla caccia, e che comunque vive profondamente immersa nella realtà naturale che la circonda, tende a interpretare la raffigurazione pittorica dell’animale come un doppio magico dell’esemplare in carne e ossa, un feticcio capace di imprigionarne lo spirito, rendendolo succube di colui che ha avuto l’abilità di catturarlo con la sua tecnica. Molti esploratori di civiltà primitive hanno fatto la stessa esperienza con il fenomeno della fotografia: in quasi tutte le popolazioni di cultura tribale vige un terrore profondo per la macchina fotografica, per le medesime ragioni sopra indicate; l’uomo animista, infatti, tende a credere che colui che ha il potere di catturare la sua immagine possa anche catturarne lo spirito, rendendolo così schiavo della sua volontà. Questa osservazione trova un’ulteriore conferma in un altro fatto molto significativo: mentre gli animali sono sempre riprodotti con molta cura, le poche figure umane ritrovate sono raffigurate con grande superficialità e rozzezza, evidentemente non per una carenza tecnica ma proprio per la repulsione dell’uomo primitivo a rappresentare la propria immagine, quasi a non volersi consegnare nelle mani di un nemico incantatore.
2. L’ipotesi simbolico-mitologica. Secondo quest'altra ipotesi, con l’arte rupestre paleolitica, noi ci troviamo di fronte alla nascita delle prime raffigurazioni mitologiche dell’universo. Gli animali rappresentati non sostituiscono gli animali veri, ma costituiscono un simbolo, frutto di un processo di astrazione dalla realtà sensibile, proprio come il linguaggio. Gli animali, pur nella loro perfezione e nel loro realismo, sono sempre rappresentati e mai imitati, come anche fanno i bambini quando disegnano; ciò che essi rappresentano non sono delle fotografie della realtà, ma delle idee in qualche modo interiorizzate nell’immaginazione umana, secondo schemi e moduli costanti che devono essere riconoscibili da chiunque. Ciò che queste idee rappresentano non sono solo l’animale in sé, ma qualcosa di cui l’animale è anche simbolo.
La parola non è la cosa, così come la figura non è ciò che essa rappresenta: parola e figura sono le due dimensioni complementari del linguaggio, ed entrambe rispondono al compito di trasferire un’esperienza dal piano concreto a quello astratto, dal piano dei fatti – che sono sempre individuali e irripetibili – a quelli dei concetti, che possono essere comunicati e appresi. Dipingere animali simbolici sulle pareti delle grotte non doveva, presumibilmente, essere diverso dal sedersi, di sera, attorno al fuoco, per raccontare al clan, o ai suoi membri più giovani, le esperienze fatte durante il giorno, o i grandi miti tramandati da generazioni sulla nascita del clan stesso, o sulla prima caccia al grande animale. Immagine e parola assumono un valore rappresentativo quando trascendono la loro dimensione pratica immediata e diventano veicolo di insegnamento, o strumento di comunicazione con le grandi forze che dominano la natura e a cui la vita umana è soggetta: ecco allora che la parola si trasforma in formula e preghiera e l’immagine in icona sacra, in immagine divina.
Le caverne dipinte dall’uomo primitivo sarebbero allora una sorta di tempio in cui venivano rappresentate le prime mitologie che spiegavano l’origine e la natura dell’universo.
Un’ultima considerazione: la nostra cultura ci ha portato a interpretare i ritrovamenti pittorici del Paleolitico come forme di espressione artistica; ma una tale concezione è del tutto inadeguata in quel particolare contesto. La concezione dell’arte come attività specializzata, sganciata da ogni principio di utilità e con fini puramente estetici, è relativamente recente. Essa infatti risale alla civiltà greca classica, e in particolar modo agli ultimi due secoli prima di Cristo. Neppure presso gli antichi Egizi, infatti, vigeva una idea di rappresentazione artistica totalmente libera da scopi, in quanto tutte le tecniche figurative di quella civiltà ricoprivano una funzione religiosa. Ancor più, dunque, questo fatto doveva valere per una cultura pragmatica come quella preistorica. Eppure tutto parte da qui, dalla capacità che l'uomo acquisì allora di prendere le distanze dalla realtà immediata e di porre in relazione «cose» del mondo e segni iconici non in un’associazione diretta, bensì metaforica. Si tratta della competenza simbolica che ci rende unici tra i viventi e che fonda la possibilità stessa dell'arte e di tutti i linguaggi.

Una versione più estesa di questo articolo è leggibile qui: http://www.milanoplatinum.com/arte-parietale-del-paleolitico-superiore.html

A questo link, un suggestivo tour virtuale nella grotta di Lascaux:
http://www.lascaux.culture.fr/#/fr/02_00.xml

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