Velázquez Diego, La favola di Aracne (Las Hilanderas), c. 1657 |
Tuttavia, uno dei problemi fondamentali che l’estetica della seconda metà del XX secolo ha cercato di risolvere è proprio quello della definizione di arte: esiste un insieme di condizioni necessarie e sufficienti per le quali un dato oggetto può essere considerato un'opera d'arte? Cosa accomuna la Primavera del Botticelli con lo Scolabottiglie di Duchamp? Perché consideriamo entrambi gli 'artefatti' delle opere d’arte? Quali sono le proprietà in comune che permettono di includerli nell’ambito dell’Arte? E, soprattutto, cosa distingue lo Scolabottiglie di Duchamp dall'analogo manufatto ordinario?
A dire il vero, il problema della definizione dell’arte è stato uno dei maggiori argomenti di discussione nell’ambito dell’estetica analitica anglo-americana. Laddove la tradizione dell’estetica continentale, al contrario, non le riserva uno specifico ambito di indagine. Anzi, come scrive P. D’Angelo, “da parecchi decenni l’estetica continentale non ha posto per domande di questo tipo. Si ritiene comunemente, anche da parte degli esperti, che «arte» sia un concetto troppo indefinito, vago e mutevole perché abbia senso cercarne la definizione.” (D’angelo P., Introduzione all’estetica analitica, Laterza 2008). In Italia, l’ultimo libro di estetica che affronta questi temi, è una raccolta di saggi di Umberto Eco, La definizione dell’arte (1968), in cui l'autore polemizza con la posizione, già allora prevalente, secondo la quale «arte» è un concetto aperto, non circoscrivibile, per cui al massimo si può affermare, come di lì a poco scriverà un altro studioso italiano di estetica, Dino Formaggio, che «arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte» (Formaggio D., Arte, Milano 1973, p. 11).
L’estetica analitica anglo-americana, invece, a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso, ha cominciato a trattare questo problema separatamente dagli altri, cercando di capire come si possa distinguere un’opera d’arte da altri oggetti prodotti dall’uomo senza intenzione artistica. Se si scorrono le annate delle due maggiori riviste di estetica analitica, The Journal of Aesthetics and Art Criticism e The British Journal of Aesthetics, in particolare nei decenni Settanta e Ottanta, ci si accorge che i saggi riservati alla definizione dell’arte e ai problemi connessi sono frequentissimi, e sono complessivamente più numerosi di quelli dedicati a qualunque altra tematica generale dell’estetica.
Gli sconvolgimenti di inizio secolo
Fino alla fine dell'Ottocento, l’appartenenza delle opere ad un sottogenere già determinato (pittura, scultura, ecc.), permetteva di avere a disposizione dei criteri oggettivi di demarcazione. Le tematiche più discusse, fino a quel periodo, erano state quelle inerenti il giudizio del gusto, il piacere estetico, la definizione del bello, l'espressione del genio. E, pur attraverso molteplici declinazioni, si può con approssimazione affermare che la teoria estetica di riferimento fino alle soglie del Novecento sia stata quella imitativa, secondo la quale l'arte è mimesi, imitazione della realtà.
Ma, quando la dogana americana, nel 1926, fermò Brancusi per tassare la sua scultura (Uccello nello spazio), che l’artista doveva esporre in una Galleria di New York, la giustificazione fu che quell’oggetto non era un'opera d'arte (per legge esente da dazio dogana), ma un manufatto standard (tassato al 40%). Scoppiava così l’affaire Brancusi, che finirà in tribunale. L’America non riconosceva come arte la scultura di Brancusi, la considerava troppo astratta, troppo fuori dalla norma, da quell’idea di rappresentazione e di mimesi che aveva forgiato per secoli il paradigma delle arti visive.
Questo episodio denota la difficoltà di recepire gli sconvolgimenti che il nuovo secolo aveva apportato al mondo dell’arte. Nel Vecchio Continente, tuttavia, già da tempo l’estetica aveva recepito questi cambiamenti, approntando delle teorie che seguivano la svolta modernista.
Constantin Brâncuși, Uccello nello spazio, 1923 |
La teoria formalista
Ma è senz’altro Clement Greenberg l’imprescindibile punto di riferimento del panorama formalista americano, che incide largamente tanto sulla riflessione relativa alla natura dell’arte, quanto sulla produzione artistica tra gli anni Quaranta e Sessanta del Novecento.
Altri esponenti della teoria formalista dell’arte sono Heinrich Wölfflin (1864 – 1945) ed Henri Focillon (1881 – 1943).
La definizione espressionistica di Collingwood
Robin G. Collingwood, nel suo testo The Principles of Art (1938), elaborò una definizione di arte che cercava di superare le difficoltà contenute nella teoria sviluppata vent’anni prima da Bell.
Collingwood vede infatti, come scopo dell’arte, l’espressione delle emozioni dell’artista attraverso l’opera. L’arte è proprio espressione di emozioni. La contemplazione di un'opera d'arte da parte di un fruitore è anch'essa un gesto artistico, in quanto l'osservatore entra in sintonia e rivive l’atto immaginativo e le emozioni trasmesse nell'opera da chi l'aveva inizialmente creata.
Tale teoria sebbene abbia il merito di prendere in considerazione movimenti artistici come l’espressionismo, che non si lasciano ridurre all’astratta realizzazione e percezione di pure composizioni formali, risulta anch’essa troppo restrittiva dal momento che non tutte le opere d’arte esprimono emozioni, o nascono per questa esigenza. Collingwood, infatti, esclude dal campo dell’arte tutte quelle opere che egli definisce arte magica e arte ricreativa, le quali dovrebbero piuttosto essere considerate due forme di artigianato.
Per arte magica si intende quell'arte che serve ad uno scopo, come un inno nazionale che instilla il senso di patriottismo, o l’arte sacra che, avendo anch’essa scopo divulgativo e di propaganda, apparterrebbe alla categoria artigianale dell'arte magica; mentre per arte ricreativa si intende quella che ha per utilità il procurare un piacere edonistico o di intrattenimento. Per esempio, secondo Warburton, Collingwood catalogherebbe come arte ricreativa Psyco il film di Hitchcock, un'opera fatta per intrattenere il pubblico, non per un’esigenza espressiva delle emozioni proprie del regista. Interessante notare che le opere di Shakespeare, create per intrattenere il pubblico, sono anch'esse ritenute arte ricreativa e quindi non vera e propria arte da parte del filosofo inglese.
La definizione anti-essenzialista di Weitz. Arte come concetto aperto
Le teorie formaliste ed espressioniste davano ragione di un'arte che aveva abdicato alla sua natura imitativa, come l'arte astratta, espressionista, cubista, surrealista e tutte quelle correnti che avevano rinunciato agli strumenti della mimesi: la prospettiva, il chiaro scuro, la resa naturalista sia cromatica che volumetrica. Ma il XX secolo ha segnato anche l’irrompere di oggetti che i contemporanei strumenti teorici non potevano includere nel campo né dell’arte tradizionale né di quella modernista. Il ready-made di Duchamp, in particolare, ha dimostrato qualcosa di impensabile solo fino al giorno prima, e cioè che ogni oggetto poteva diventare un’opera, il che equivale a dire che la definizione dell'opera non può essere basata su un insieme di criteri oggettivi. Cos’era che distingueva Fountain da un comune orinatoio, essendo i due oggetti apparentemente indistinguibili? Da cosa si poteva riconoscere un’opera d’arte? a quali condizioni una specifica “cosa” è un’opera d’arte?
Nel Novecento alcuni artisti - oltre a Duchamp, si pensi anche a Wahrol - hanno cominciato a produrre opere pressoché indistinguibili dagli oggetti ordinari. Si prendeva atto, così, dell'esistenza di oggetti apparentemente indiscernibili che venivano però considerati come profondamente diversi. A quel punto si rendeva urgente mettere in chiaro come ciò potesse avvenire; quali qualità possedesse un oggetto che lo rendevano dissimile da un altro oggetto pressoché visibilmente identico. La filosofia dell'arte tenterà di percorrere diverse strade per risolvere questo paradosso, generando diverse teorie.
Quelle viste finora costituivano delle definizioni essenzialiste dell’arte, in quanto cercavano di definire le caratteristiche necessarie e sufficienti comuni a ogni opera d’arte e che ne costituiscono l’essenza. A partire dagli anni cinquanta del secolo scorso è l’estetica analitica a prendere di petto il problema della definizione dell’arte (o della classe delle opere d’arte). Come scrive Stefano Velotti in La filosofia e le arti (Laterza 2012), niente di simile si è verificato nell’estetica ‘continentale’, le cui speculazioni teoriche non avevano alcuna pretesa definitoria o classificatoria.
Dovendo schematizzare, continua Velotti, il problema della definizione dell’arte, all’interno dell’estetica analitica, ha compiuto un’ampia parabola, o un movimento a spirale, che ha Wittgenstein come punto di partenza e come punto di ritorno. Si parte infatti con un articolo di Morris Weitz, The Role of Theory in Aesthetics, pubblicato nel 1956, che può essere considerato come l’inizio del dibattito analitico sulla definizione dell’arte. Secondo Weitz, è logicamente impossibile definire un concetto, come quello di arte, che non può essere definito; è impossibile affermare le proprietà necessarie e sufficienti di ciò che non ha proprietà necessarie e sufficienti. Definire l’arte è per principio impossibile, poiché implica ridurre e chiudere in uno schema chiuso una dimensione che, per sua intima struttura, è aperta e imprevedibile. Detto in altri termini, l’arte è un concetto aperto, che non può essere costretto entro una definizione, poiché quest’ultima ne soffocherebbe l’intrinseca predisposizione e apertura all’innovazione. La creatività, infatti, secondo Weitz, è il motore pulsante dell’arte, ed è ciò che continua a estenderne i confini, impedendo che possa esserne definita l’essenza in termini stabili e oggettivi.
Per illustrare la sua tesi di concetto "aperto", Weitz si basa su un famoso passaggio di Wittgenstein, dedicato al concetto di gioco. Cos'è un gioco? Tradizionalmente, la risposta si sarebbe orientata a definire un insieme di proprietà comuni a tutti i giochi. Wittgenstein dimostra però che non possiamo in alcun modo isolare un tale insieme di proprietà. Ciò che possiamo fare è piuttosto individuare una complessa rete di somiglianze e analogie tra i diversi tipi di giochi, che Wittgenstein chiama somiglianze di famiglia. Queste danno vita a un modello in cui non è possibile identificare alcun tratto comune a tutti i membri, ma dove una rete di somiglianze incrociate e intricate non cessa mai di connettere ciascuno dei membri tra loro. Weitz applica questo tipo di concetto, definito "aperto", direttamente all'arte. L'arte sarebbe un concetto fondamentalmente "aperto", non basato su un insieme di proprietà comuni e specifiche di tutte le opere d’arte, ma su una complessa rete di somiglianze che le collega tra loro in modo incrociato e discontinuo.
L’influenza di Wittgenstein è alla base degli inizi del dibattito di matrice analitica sulla definizione dell’arte, che proprio sulla scorta del pensiero wittgensteiniano si sviluppa come opposizione alle tendenze essenzialiste, proprie della forma tradizionale dell’estetica, abituata a definire l’arte con la pretesa di poterne dichiarare l’essenza. L’arte, per Weitz, è un’attività creativa, libera da costrizioni, imprevedibile, un complesso di pratiche e di oggetti simili, ma non inscrivibili in uno schema strettamente classificatorio. L’approccio dell’estetica analitica alla definizione dell’arte parte dunque con una posizione scettica. In seguito prosegue con la lunga stagione delle definizioni ancora essenzialiste, cioè in termini di condizioni necessarie e sufficienti (funzionali, estetiche, procedurali, storiche, storico-intenzionali, semantiche, metafisiche, per lo più tendenzialmente classificatorie, ma anche valutative) fino ad arrivare, col nuovo secolo, a tentativi di definizioni prevalentemente “indebolite”, che possono essere fatte risalire ancora una volta a Wittgenstein e che sembrano mettere in secondo piano la questione dell'essenza.
La posizione di Weitz sarà soggetta a critiche, una delle quali sarà quella espressa da Maurice Mandelbaum nel suo Family Resemblances and Generalization Concerning the Arts (1965), in cui viene criticato l’uso del concetto di somiglianze di famiglia. Nello specifico, egli fa notare come non sia sufficiente fare affidamento sugli aspetti visivamente simili per concludere che due esemplari presi in esame appartengano alla medesima categoria. Per esempio, per sapere se delle persone hanno somiglianze di famiglia, dovremmo essere a conoscenza del legame genetico degli individui sotto indagine. In altre parole, per non sbagliare, dovremmo ricorrere a qualcosa che non possiamo vedere. Mandelbaum, attraverso queste critiche a Weitz, vuole contestare la tendenza delle teorie estetiche tradizionali a definire l’arte ricorrendo a una presunta proprietà essenziale visibile a occhio nudo. Al contrario, secondo Mandelbaum, una definizione dell’arte deve passare attraverso proprietà di tipo relazionale, per principio non afferrabili attraverso la semplice osservazione.
Questa obiezione è decisiva per la successiva storia dell’estetica analitica: la possibilità che il concetto di arte possa essere definito in base a proprietà non visibili e manifeste ma di tipo relazionale (di relazioni con un contesto, con la storia di produzione dell’opera, con le intenzioni dell’autore, con la storia dell’arte, con un’istituzione, con un insieme di teorie, con lo spettatore, ecc.) predisporrà il dibattito verso un nuovo orientamento.
Marcel Duchamp, Fountain, 1917 |
Danto e i Mondi dell’arte
Definizioni procedurali. La teoria istituzionale di Dickie
L’espressione “mondo dell’arte”, messa in gioco dall’opera The Artworld di Danto, fu poi ereditata e reinterpretata, nella seconda metà degli anni Sessanta, da un'altra grande voce del dibattito analitico sulla definizione di arte, quella di George Dickie (anche se lo stesso Danto rifiuterà questa filiazione). Egli la fece diventare oggetto della sua teoria istituzionale, la cui formulazione più estesa è contenuta nell’opera del 1974 Art and the Aesthetic: An Institutional Analysis. Il mondo dell’arte di Danto, nella visione filosofica di Dickie si caratterizza, più che altro, come il mero contesto istituzionale. In altre parole, secondo Dickie, a costituire il mondo dell’arte sono gli addetti ai lavori, le istituzioni deputate, le persone, i critici (quello che normalmente identifichiamo con il “sistema dell’arte”), ed è proprio questa dimensione che conferisce all’oggetto lo status di opera d’arte.
In The Art Circle. A Theory of Art (1997), Dickie afferma:
2) un’opera d’arte è un artefatto di un tipo creato per essere presentato a un pubblico di un mondo dell’arte;
3) un pubblico è un insieme di persone preparate in qualche misura a comprendere l’oggetto che è loro presentato;
4) il mondo dell’arte è insieme di tutti i sistemi dei mondi dell’arte;
5) in quanto sistema, il mondo dell’arte è una cornice per la presentazione di un’opera d’arte da parte di un’artista al pubblico di un mondo dell’arte."
Ciò che, quindi, distingue il mondo dell’arte di Dickie da quello di Danto, e che rappresenta un punto di debolezza della teoria istituzionale (oltre alla sua circolarità tautologica: è arte ciò che viene definito come arte), è la sua mancanza di ogni legame con la dimensione del tempo; il riconoscimento di artisticità, infatti, nella visione di Dickie, non sembra subordinato a condizioni variabili nel corso del tempo, a differenza del mondo dell’arte di Danto che, invece, è costituito anche di storia, intesa come storia del pensiero e, soprattutto, storia dell’arte.
La definizione di arte di Dickie, quindi, si pone in una prospettiva di tipo procedurale, poiché l’opera d’arte è identificata per mezzo dei procedimenti attraverso i quali viene riconosciuta come tale (si tratta, come si può notare, di una definizione che fa dell’arte una questione di fatto, e non di valore). Secondo le teorie di tipo procedurale, inoltre, le proprietà estetiche sono determinate dal riconoscimento di artisticità; non rappresentano qualità estetiche preesistenti, intrinseche e oggettivabili, ma dipendono da un mondo dell’arte, pensato nella concretezza e nella contingenza di coloro che lo abitano.Come scrive P. D’Angelo in Introduzione all’estetica analitica, “nonostante gli sforzi, la teoria istituzionale fatica a togliersi di dosso la taccia di esser solo un’ipostatizzazione un po’ cinica di quello che accade nel ristretto circuito delle arti figurative occidentali, dove il parere di pochi influenti galleristi, critici e direttori di museo può fare la fortuna di un artista e conferire un valore venale enorme a oggetti apparentemente insignificanti.”
Ciò che è stato contestato alla teoria istituzionale è di essere del tutto descrittiva e avalutativa. Continua P. D’Angelo: “Ciò che, anche a prima vista, lascia insoddisfatti nella teoria istituzionale è il fatto che essa non dice assolutamente nulla circa il significato e l’importanza dell’arte, mentre tradizionalmente è proprio questo che ci si aspetta da una teoria estetica. Le vecchie teorie dell’arte come imitazione della realtà o come espressione di sentimenti, come forma simbolica o come conoscenza intuitiva non forniscono evidentemente una definizione rigorosa dell’arte (e tanto meno dell’opera d’arte), ma hanno almeno il pregio di giustificarne il valore e la funzione, di dare espressione a ciò che l’arte è per una società. Inevitabilmente, definire l’arte come quel che è considerato tale dal mondo dell’arte sembra invece denunciare che per noi l’arte è solo un’attività autoreferenziale, arbitraria, un passatempo ineffettuale e forse persino stupido.”
Definizioni funzionali
Il valore di un’opera d’arte, quindi, nella teoria funzionalista di Beardsley, è legato all’esperienza estetica che essa produce, ed è imprescindibilmente funzione di essa. Il suo valore, inoltre, è definito dalle sue proprietà estetiche, che, a differenza di come vengono intese da un approccio di tipo procedurale, sono alla base del riconoscimento stesso di artisticità.
Alle opere che non producono affatto un’esperienza estetica, a cominciare dai ready-made di Duchamp, per Beardsley va dunque negato lo status di opere d’arte.
Il fondamento dell’arte rinvenuto nell’esperienza estetica è una cosa abbastanza insolita nel panorama della seconda metà del Novecento. Si ricordi, infatti, che Goodman, Wollheim e Danto – i tre estetologi analitici più influenti degli ultimi decenni – sono accomunati tutti e tre dall’insistenza sul valore cognitivo dell’arte in contrasto con il valore estetico, che sarebbe qualcosa di trascurabile, di isolato o di poco informativo. Il giudizio estetico, valutativo o di merito viene, in Goodman e Wollheim, criticato per la sua relativa mancanza di contenuto; in Danto viene considerato non pertinente o secondario per l’apprezzamento delle opere d’arte in quanto troppo generico, per un verso, e troppo focalizzato sulla bellezza, per un altro.
In aperta opposizione a Dickie, Goodman non attribuisce a un’istituzione il potere di conferire a un oggetto lo status di artisticità, ma rivolge la sua attenzione al funzionamento simbolico peculiare degli oggetti artistici e al loro legame con la dimensione del tempo; è il valore simbolico, infatti, a delineare l’arte, ed esso può essere colto solo nella fluidità temporale e culturale. Questo legame con il tempo mostra come il valore simbolico, inteso come ciò che 'definisce' l’arte, non possa essere chiuso entro un sistema di condizioni universalmente stabili. Al contrario, Goodman preferisce ricercare alcune caratteristiche che fungano da “sintomi” dell’estetico (e anche, più generalmente, dell’artistico), che devono essere letti nell’ottica di indizi, senza alcuna pretesa stabilmente definitiva. In questo senso l’approccio di Goodman nei confronti di una definizione dell’arte è di tipo funzionalista, nella misura in cui sposta la riflessione dal “cosa” al “quando”, riponendo l’attenzione al funzionamento simbolico degli oggetti artistici: qualcosa è arte “quando e solo quando” funziona come tale. Per Goodman le opere d’arte sono simboli, nel senso che svolgono alcune funzioni referenziali (rappresentazione, descrizione, esemplificazione, espressione); e i simboli sono un modo, storicamente determinato, di esplorare, afferrare, manipolare, conoscere il mondo.
Andy Warhol, Brillo Box (Soap Pads), 1964 |
Definizioni storiche e storico-narrative
Tra i tentativi di definizione classificatorio-procedurale si può menzionare ancora quello storico-intenzionale, ben esemplificato da Jerrold Levinson il quale, in un articolo del 1979, esordisce ammettendo che la propria definizione, pur offrendosi come alternativa a quella istituzionale, è chiaramente ispirata a essa. L’artisticità non è una proprietà intrinseca, funzionale, ma dipende piuttosto da un legame correttamente costituito con un’attività umana. La differenza rispetto alla teoria istituzionale sta nel fatto che quella di Levinson fa appello all’intenzione di una o più persone di agire nel quadro non già di una istituzione più o meno strutturata, ma di una tradizione storicamente costituita. La storia giocherà in Levinson il ruolo che il mondo dell’arte svolgeva in Dickie.
Se la condizione necessaria affinché qualcosa sia un’opera d’arte è il riferimento a opere d’arte del passato, ciò innesca una circolarità: è evidente infatti che, seguendo tale processo, si finisce per risalire indietro fino a trovarne l’origine, cioè l’arte originaria, la Ur-art, e la Ur-art è tale grazie alla sua somiglianza con le opere d’arte successive.
Ma non è solo questa la debolezza riscontrata nella teoria di Levinson. La sua parte più problematica sembra il ruolo dato all’intenzione dell’autore. E le intenzioni, per esempio, dei critici o del pubblico non contano? Inoltre, non di rado succede che oggetti non prodotti per scopi artistici possono diventare arte in un periodo successivo: dovremo concluderne che l’intenzione del produttore non era essenziale?
L’idea che il riconoscimento di artisticità sia indissolubilmente legato alla dimensione del tempo è al centro di un’altra teoria, definita come storico-narrativa, avanzata da Noël Carroll alla fine degli anni Ottanta. Nella teoria di Carroll convergono le principali teorie di definizione dell’arte; egli, infatti, oltre a ispirarsi dichiaratamente alla teoria storico-intenzionale, condivide con quella istituzionale l’idea che l’arte sia una pratica sociale, pur non dipingendola nelle caratteristiche della mera istituzione pensata da Dickie. Inoltre, la teoria di Carroll presenta dei punti di contatto con quella di Danto, soprattutto per quanto riguarda l’idea che il riconoscimento di artisticità sia legato alla storia dell’arte e alle teorie che la animano.
Questo brano di P. D’Angelo inquadra bene il pensiero di Carroll:
“Quando si è dovuto decidere se un ready-made di Duchamp, una fotografia di Robert Mapplethorpe, una installazione di Damien Hirst era arte, come si è proceduto? Di solito, scrive Carroll, chi ha proposto di considerare arte le nuove opere «ci ha raccontato una storia»: cioè ha inserito le opere in questione in una narrazione storica, in modo che la nuova opera risultasse procedere in modo intelligibile dalle opere riconosciute come artistiche nell’epoca precedente. Per esempio ci ha spiegato che la deformazione delle pitture espressioniste non era frutto di incapacità ma di una volontaria sfida al realismo imperante nell’arte ottocentesca. La nuova opera, l’opera di rottura, produce uno iato, apre un vuoto: la narrazione storica lo colma, lanciando un ponte tra presente e passato. Si tratta di produrre una narrazione storica credibile su come l’opera su cui si è in dubbio è stata prodotta, su come essa abbia costituito una risposta alla situazione dell’arte in cui ha visto la luce. Quando Warhol ha esposto Brillo Boxes, per esempio, ha preso posizione in un percorso in cui era in questione lo statuto dell’arte stessa, ha fatto un’opera d’arte che riflette sulla propria natura di opera d’arte. Con ciò, egli è entrato in un dialogo con l’arte che lo precedeva. L’arte è una pratica sociale in continua evoluzione, e l’approccio narrativo cerca di dar conto dell’aspetto evolutivo dell’arte trattandola come una conversazione.”
Oltre la definizione
Carroll, pur confrontandosi con le principali definizioni di arte che l’hanno preceduto, non vuole arrivare a una definizione di arte, ma solo fare una descrizione dei modi in cui identifichiamo l’opera d’arte stessa. Lo stesso Carroll, pubblicando nel 2000 il volume collettaneo Theories of Art Today sottolinea che il problema della definizione dell’arte, così dibattuto negli anni Settanta e Ottanta, a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso ha manifestato segni evidenti di stanchezza. I saggi sull’argomento si sono fatti più rari, ed esso non occupa più la posizione dominante tra quelli dibattuti dagli analitici. Ci propone, quindi, di riflettere sul fallimento delle precedenti pretese definitorie, e di orientarci verso un nuovo metodo, non più volto a una definizione restrittiva e dal carattere permanente e necessario. La sua idea che qualcosa sia arte se siamo in grado di legarla in una conversazione coerente con le opere del passato si presenta più come una spiegazione che come una definizione in senso stretto. Con Carroll, quindi, inizia ad affacciarsi, e a emergere sempre di più nel recente dibattito analitico, l’idea che si possa parlare di arte anche se non se si riesce a darne una definizione in termini di condizioni necessarie e sufficienti; la maggior parte delle recenti voci del dibattito analitico abbandonano infatti ogni pretesa definitoria che voglia circoscrivere le caratteristiche dell’opera d’arte a un sistema chiuso di condizioni, dando così al concetto maggiore libertà e movimento. Berys Gaut, per esempio, considera l’arte come un concetto-grappolo, ovvero lo descrive attraverso una serie di caratteristiche non necessarie, ma sufficienti, rivedibili e ampliabili. Ciò che è importante sottolineare è che quella di Gaut non si presenta più come una definizione dell’arte, ma come descrizione, o caratterizzazione aperta.
In altre parole, inizia a farsi avanti l’idea che abbandonare una definizione in senso stretto non implichi consegnare il procedimento di identificazione delle opere d’arte all’arbitrio e alla vacuità. Le nuove posizioni che intervengono nel dibattito si orientano, quindi, verso l’idea che il concetto di arte possa avere dei contorni indeterminati e degli approcci pluralistici, senza che questo impedisca di poterne parlare in senso rigoroso.
Nick Zangwill (in Are there Counterexamples to Aesthetic Theories of Art?, 2002), dal canto suo, ha scritto che, se siamo in cerca di una buona teoria di quel che l’arte è, il problema non riguarda la parola «arte», la categoria o il concetto di arte:
“Quel che vogliamo è acquistare conoscenze su di una gamma di oggetti, non sulle parole o i concetti che usiamo per parlare di questi oggetti. Ci interessano gli oggetti, non i concetti. […] Davvero, l’impresa di definire l’arte, tanto popolare per tanto tempo, è chiaramente un errore categoriale, a meno che ‘definizione’ non sia inteso nel senso di ‘definizione reale’ […]. Quel che vogliamo è comprendere la natura di alcune cose, non continuare a contemplare il nostro ombelico concettuale.”
Anche il filosofo americano Joseph Zalman Margolis è convinto dell’assurdità di ogni pretesa di poter dare una definizione di arte assoluta e stabile, slegata dalla storicità che caratterizza il nostro mondo e il pensiero attraverso cui lo interpretiamo. Tale pretesa, che era stata il nucleo della ricerca dell’estetica analitica, affonda le sue radici in una metafisica della permanenza, ovvero nell’idea che il mondo possegga una struttura immobile e fissa e sia governato da leggi immutabili. Al contrario, il pensiero di Margolis si presenta come fortemente storicizzato, aperto a riconoscere la variabilità e la contingenza che costituisce il mondo culturale e umano.
La sua definizione delle opere d’arte non vuole isolare l’essenza dell’opera d’arte, ma vuole mettere in luce le connessioni che essa intrattiene con la sfera del culturale, con il mondo umano nella sua peculiare complessità. Parlare di oggetto artistico non implica, quindi, categorizzarne gli attributi necessari e sufficienti, ma riconoscere la sua intima appartenenza alle pratiche collettive di una cultura, storicamente determinata, che ne permette l’identificazione.
Margolis assimila le opere d’arte alle persone: entrambe non sono delle nature fisse, ma dei soggetti che lo studioso definisce “entità culturalmente emergenti”, aperte, per loro intima costituzione, a sempre nuove interpretazioni, il cui significato espressivo, rappresentazionale e simbolico cambia con il passare delle epoche.
Nessun commento:
Posta un commento