lunedì 4 maggio 2020

CLAUDE CAHUN. LE METAMORFOSI DELL'ANDROGINO

Claude Cahun, Que me veux-tu?, 1928

CINDY SHERMAN, FRANCESCA WOODMAN E LE ALTRE.
L'AUTORAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA IN FOTOGRAFIA 


E’ stato necessario attendere gli anni ’80, il rinnovato interesse per il Surrealismo e per il ruolo delle donne nelle avanguardie tra le due guerre e il dibattito sui temi del gender, affinché questa artista così poliedrica – scrittrice, fotografa, attrice di teatro e saggista — venisse riscoperta. Claude Cahun, nata Lucy Renée Mathilde Schwob, è nota soprattutto per i suoi autoritratti, che sono veri e propri portraits performés. In essi l’artista mette in scena se stessa, il proprio corpo, che incarna molteplici ruoli ricorrendo a giochi di specchi, metamorfosi e travestimenti. Nei suoi autoritratti, nei suoi fotomontaggi, nei suoi oggetti surrealisti così come nei suoi scritti, l’artista interroga le relazioni tra l’identità e l’immagine di sé, il sesso e il corpo, l’individuo e il suo doppio, esplorando le strategie di autorappresentazione.

Claude Cahun, Head and Pillows (negative), circa 1915, Jersey Heritage Museum;

Tra il 1917 e il 1939, Cahun si reinventa attraverso la fotografia posando per l'obiettivo vestita da donna o da uomo, con i capelli lunghi, corti o rasati. E’ vicina al movimento surrealista, ma a differenza di altri artisti, principalmente uomini, che realizzano ritratti pur esponendo solo raramente la propria persona all'obiettivo (Man Ray, Hans Bellmer, André Kertész), Claude Cahun diviene subito l'oggetto e il soggetto dei suoi esperimenti artistici, evidenziando una spiccata abilità performativa. Ciò è confermato dalla cura con cui l’artista, insieme alla sua compagna di vita Marcel Moore (alias Suzanne Malherbe), sceglie le sue pose ed espressioni, gli sfondi (tessuti, coperte, lenzuola, tendaggi), gli oggetti di scena specifici (maschere, mantelle, indumenti intimi, palle di vetro, ecc.), anche se il vero fuoco dell'immagine resta il volto, il suo sguardo penetrante che sconfina fuori dalla superficie della fotografia.

Claude Cahun, Autoportrait, 1929

L'artista usa la propria immagine per esporre e decostruire, uno ad uno, i cliché dell'identità femminile e maschile. Perché una cosa è evidente dai suoi autoritratti: Cahun non mette in posa la propria femminilità. Non è una rappresentazione di sé come donna, quella che troviamo nelle sue fotografie. Ciò che invece l’artista mette in scena è l’androgino, un personaggio senza genere, o meglio un personaggio che incarna vari stereotipi rappresentativi sia maschili che femminili, ibridandoli e svuotandoli tutti dall’interno. “Maschile? Femminile? Ma tutto dipende dal caso. Il neutro è l'unico genere che mi si adatta sempre”, scrive nel suo lavoro autobiografico Aveux non avenus. Cahun si rappresenta come un essere desessualizzato, che aspira a un genere neutro, perché solo la neutralità è quella condizione di partenza che le garantisce di rigenerarsi, di negarsi e reinventarsi ogni volta in forme molteplici, attraverso una serie infinita di mascheramenti e metamorfosi.

Claude Cahun, Autoportrait, Coll. John Wakeham, 1927

Come donna, intellettuale e lesbica in un mondo patriarcale e come ebrea e socialista radicale in una società capitalista e antisemita, Claude Cahun contraddice radicalmente la nozione ufficiale di femminilità in così tanti modi diversi che il suo lavoro diventa essenzialmente un modo per affermare costantemente la propria identità. Cambiando il suo nome e adottando quello di un prozio, Lucy Schwob diventa Claude, un nome che, in lingua francese, può essere sia maschile che femminile. “Si rasa i capelli - scrive Silvia Mazzucchelli -, si veste in maniera eccentrica e si inventa un nuovo corpo, cancellando tutto ciò che possa renderla facilmente definibile” (S. Mazzucchelli, Oltre lo specchio. Claude Cahun e la pulsione fotografica, pp. 10-11). I suoi autoritratti con la testa rasata, scattati nel 1928, sono dissacranti. Uno di essi, che gli deforma anamorficamente la forma della testa, viene pubblicato nella rivista d'avanguardia "Bifur", con il titolo di Frontière humaine.

Claude Cahun, Autoportrait, 1929-30, pubblicato nella rivista «Bifur», n ° 5, aprile 1930.

Nessun'altra fotografa degli anni '20 riuscirà ad oltrepassare i confini della propria identità con la stessa radicalità di Claude Cahun. Convinta della teatralità della vita e della necessità di dover impersonare costantemente un ruolo, fa del proprio corpo il modello che plasma e mette in scena. "Je est un autre" diceva Rimbaud, e così Cahun ci viene incontro e ci affronta impersonando molteplici identità – il dandy, il marinaio, la Gretchen del Faust di Goethe, la garçonne con occhiali da motociclista, il Buddha, il sollevatore di pesi che indossa la maglietta con la scritta "I am in training don't kiss me", e tanti ruoli diversi da lei interpretati a teatro, tra cui un diable con le ali d’angelo e la moglie di Barbablu.

Claude Cahun, I am in training, 1927

Claude Cahun, Self- portrait (as weight trainer), sul petto si può leggere “I’m in training
don’t kiss me”, 1927

Claude Cahun, Le Diable in Le Mystère d’Adam, 1929

I suoi ritratti sovvertono i codici rappresentativi del maschile e del femminile; la mascherata realizza uno stato di indeterminatezza che apre uno spazio di transizione, in cui un’identità rinvia continuamente a un’altra, senza mai conseguire una condizione stabile. Scrive infatti: « Moments les plus heureux de toute ma vie ? – Le rêve. Imaginer que je suis autre. Me jouer mon rôle préféré. »
Il corpo è travestito, manipolato, anche frammentato, portato oltre i confini della definizione e della coesione del sé, negato nella sua femminilità, reso strumento di un'esplorazione dell'identità posta sotto il segno della modernità e della sovversione. Tutto comincia da una relazione problematica con il corpo, della quale Cahun scrive in Aveux non avenus e nelle sue lettere a Henri Michaux. Lo trucca, lo maschera, lo mette in posa e lo fotografa, ma nello stesso tempo vorrebbe liberarsene, perché lo sente come una prigione, come il vincolo che impedisce all'anima di essere libera. E tuttavia, sebbene disprezzato, è proprio il corpo l'oggetto di tutta l'attenzione dell’artista.


E’ vero che Cahun opera in un’epoca in cui i discorsi sulla transessualità e sul terzo sesso interessano la produzione sia letteraria che scientifica. Del 1922 è La Garçonne di Victor Margueritte, nel 1928 esce Orlando. A Biography di Virginia Woolf  e qualche anno dopo The Psychology of Sex di Havelock Ellis. L’opera di Claude Cahun trova posto in questo contesto culturale, ma non fa di questa artista una propugnatrice ante litteram del femminismo o dell’ideologia gender, con il rischio di decontestualizzare pericolosamente i suoi lavori.  Alla base dei suoi travestimenti e messe in scena c’è prima di tutto una ricerca artistica (che si colloca nel solco delle sperimentazioni e delle tematiche del Surrealismo) e personale-esistenziale: “Sotto questa maschera un’altra maschera. Non finirò mai di sollevare tutti questi volti”, scrive su uno dei suoi collage. E’ la fotografia che le permette di vedersi in terza persona, di oggettivare le sue maschere, di mettere insieme i frammenti della sua personalità come molteplicità fluttuante di identità differenti.

Claude Cahun, Autoportrait, Coll. Galerie Adam Boxer, 1925

L’impiego degli elementi tipici del Surrealismo – lo specchio, il doppio, la scenografia teatrale – inscrivono Cahun nella pratica dell’arte e della fotografia surrealista. Più limitato è, invece, il ricorso alla frammentazione del corpo femminile, tipica di quel movimento. La ritroviamo in alcuni Photomontage, contenuti in Aveux non avenus, e in una piccola serie di autoritratti in cui vediamo la sua testa in una campana di vetro. Ma non si traduce mai in riduzione a oggetto o a smembramento feticistico della figura femminile, che sono tratti caratteristici dell’arte surrealista maschile (qui).
Come già ricordato, è improprio attribuire a Claude Cahun la volontà di dar voce a un’ideologia femminista e a una decostruzione sistematica e organica degli stereotipi riguardanti la rappresentazione della donna propria della cultura patriarcale. Tuttavia si ritrovano nelle sue fotografie alcuni accenni a una tale decostruzione, rinvenibili nel modo in cui, ad esempio, usa gli interni domestici per sovvertire l’iconografia tradizionale che legava la donna ai luoghi ad essa riservati. Lo possiamo notare in una fotografia in cui si ritrae distesa sul ripiano interno di una credenza, una posizione del tutto impropria che rifugge il rapporto funzionale della donna con gli spazi e i mobili della casa. Oppure in un autoritratto davanti allo specchio, in cui l’artista lo rifiuta e non guarda il proprio riflesso, ma rivolge lo sguardo in camera.

Claude Cahun, Self-portrait (reflected image in mirror, checqued jacket), 1928.

Claude Cahun, Autoportrait, Coll. John Wakeham, 1932

Va altresì notato che, negli autoritratti realizzati da Cahun, dietro la macchina c’è sempre la sua compagna Moore, che rappresenta una parte attiva del processo fotografico. Pertanto, queste fotografie, più che rivolte a un pubblico (si tenga conto che il lavoro di Cahun era in gran parte sconosciuto ai suoi contemporanei, eccettuato qualche scritto), potrebbero essere lette anche come interne al loro rapporto, alla loro sessualità, ai loro giochi privati, come prolungamento dei loro dialoghi e delle loro fantasie di coppia. Si può concordare sul fatto che esse giochino con questi temi del sé e nello stesso tempo affrontino, con la fotografia, i tabù dell’epoca, ad esempio quello dell’omosessualità e fluidità di genere, e portino avanti un aspetto del loro attivismo politico.
Malgrado non faccia che raccontare e mettere in scena se stessa, l’opera di Cahun, come la sua identità, sfuggono ad ogni tentativo di definizione. Perché, per questa artista, l’arte coincide con la vita e la maschera – scrive ancora Mazzucchelli – solo in apparenza è un velo; in realtà non è altro che “uno dei molti modi con i quali afferma ed esplora la propria molteplice identità”. Cahun porta l‘atto di travestirsi anche fuori dal teatro, eliminando lo scarto fra rappresentazione e vita e facendo coincidere la finzione scenica con l’esperienza reale. Anche i suoi ritratti, infatti, evidenziano la presenza di cortine, sipari, cornici, tele sullo sfondo, che li trasformano in messe in scena teatrali. Grazie ad esse può crearsi un repertorio pressoché illimitato di identità immaginarie, dislocando il proprio sé nell’alterità di soggetti spesso perturbanti, che si richiamano all’universo delle bambole o dei clown e all’immaginario mitologico o letterario.


Si può constatare, a tal proposito, il definitivo tramonto dell’autorappresentazione di tipo umanista, che considerava il ritratto come immagine realistica dell’individuo, come possibilità di catturarne l’essenza. In opposizione a quella che era stata giudicata la sua funzione primaria, cioè di riprodurre la realtà fissando l'immagine, la fotografia viene ora utilizzata per costruire identità molteplici quanto fittizie. Di fronte a questo insieme di autoritratti femminili, lo spettatore rimane confuso perché non sa più se dietro le immagini permanga un ‘io’ coeso e coerente oppure, al contrario, se si sta avvicinando a un abisso dietro il quale si aprirà il nulla. O forse ancora, si corre il rischio di scoprire che un’identità del tutto coerente, stabile e fissa non è mai possibile, che è sempre nient’altro che una finzione e che un mondo molteplice di identità fluttuanti è ciò che più genuinamente definisce l’individuo.












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