martedì 1 dicembre 2015

Il miliziano morente di Robert Capa

Robert Capa, The falling soldier (Morte di un miliziano lealista), Cordoba, Settembre 1936.

Questa foto è stata per lungo tempo l'icona della guerra civile spagnola e, in seguito, l'icona mondiale della morte in guerra, del sacrificio dell’uomo nella lotta per la libertà contro ogni forma di dittatura. Fiumi di inchiostro (reale ed elettronico) sono stati versati su di essa, per difenderne l'autenticità o per demolirla, per ricostruire attori e contesto e per mettere in dubbio quelle ricostruzioni. Sintetizzo in breve le due posizioni contrapposte:
la prima, quella tradizionale, che si è sempre basata sull'autenticità della foto, trova nella biografia di Capa scritta da Richard Whelan il suo punto di forza, sposato e difeso da molti autorevoli fotografi e giornalisti ( in rete potete trovare, ad esempio, gli articoli di Mario Dondero e Ferdinando Scianna, http://www.doppiozero.com/materiali/clic/robert-capa-e-il-miliziano). Whelan è anche riuscito a dare un nome e un cognome al soldato caduto, Federico Borrell Garcia, detto Taino, di 24 anni, operaio tessile, della columna anarquica di Alcoy (Alicante), ucciso sulla collina de Las Malaguenas, a Cerro Muriano, vicino a Cordoba, il 5 settembre 1936, che aveva lasciato a casa una ragazza, una novia, che avrebbe sposato al ritorno dalla guerra.

L'altro elemento notevole è l’incredibile ritrovamento di una lunga, ignota fino al 2013, intervista radiofonica fatta da Capa nell’ottobre del 1947. Il suo ritrovamento e diffusione da parte del Center of Photography (Icp) di New York, hanno coinciso con l'anno in cui si celebravano i cento anni dalla nascita (avvenuta a Budapest, il 22 ottobre 1913). Nell’intervista, rilasciata a una radio locale del gruppo Nbc, Capa racconta la genesi della foto: "E io mi trovavo là, in trincea, con circa 20 milicianos e quei 20 milicianos avevano 20 vecchi fucili e dall’altra parte della collina, di fronte a noi, c’era la mitragliatrice di Franco", “e morivano a ogni istante”. Capa racconta di aver messo la macchina fotografica sopra la sua testa e di aver scattato una foto, “senza nemmeno guardare”, a quel soldato che aveva lasciato la trincea, “proprio nel momento in cui veniva colpito”.
Nel 1974 Phillip Knightley, nel suo “The First Casualty”, pose per primo dei dubbi sull’autenticità della foto. L’autore aveva intervistato un corrispondente di guerra dell’epoca, nonché conoscente di Capa, il quale dichiarava che fosse stata scattata in un momento di tregua, inscenando una finta battaglia per fornire immagini ai rotocalchi. Questa ricostruzione è stata da allora arricchita da una serie di dubbi e testimonianze indirette e controverse. Sono state avanzate altre possibili ricostruzioni, che vanno dall'affermazione che la foto in realtà non fu scattata dalla Leica di Capa, ma da una Rollei (forse quella della sua compagna Gerda Taro) alla messa in dubbio sia dell'identità del soldato che della sua morte, tirando ancora in campo l'ipotesi di fotografie posate, ipotesi avallata dal fatto che in scatti successivi il miliziano caduto è invece ritratto vivo e vegeto insieme ai suoi compagni (ma mi chiedo: mancando i rullini, come si fa a ricostruire con certezza la sequenza delle foto?). Altre ricostruzioni successive, e fra queste quella del fotografo Luca Pagni, hanno accertato che Robert Capa avesse veramente chiesto, in un momento tranquillo, ai Miliziani della Colonna Alcoyana di posare per lui e di inscenare scene di combattimenti. Pare che i Miliziani avessero anche sparato colpi verso le trincee nazionaliste, attirando forse l'attenzione dei franchisti, che avrebbero risposto al fuoco, colpendo con un sol colpo Taino, mentre Capa era pronto a scattare.
In rete è presente il mare magnum di tutte queste ricostruzioni, ipotesi, deduzioni e controdeduzioni, tanto che alla fine ci si rende conto che la verità ultima su questa fotografia è semplicemente impossibile, perché, per quanto si voglia propendere per una versione o per l'altra, non ci sono sufficienti elementi per pronunciare l'ultima parola, quella definitiva. Mancano i negativi, le testimonianze sono quasi del tutto inverificabili e controverse, non ci sono sufficienti documenti. Dopo una lettura estenuante delle varie posizioni e dimostrazioni, quella del dubbio è un'ombra da cui non si scappa (come non si scappa dal sospetto che dietro alcune demolizioni soggiacciano sentimenti poco edificanti come quello di una certa antipatia per l'aura troppo grande di un fotografo così famoso) e sembra che alla fine ci si ritrovi sbalzati in un altro terreno, diverso da quello della storia e della fotografia, l'unico che sembri offrire un appiglio cui aggrapparsi per poterne uscire: il terreno ambiguo e accidentato della professione di fede. Il "voler credere".
E allora? Cosa fare? Assistere impotenti alla demolizione del mito o imbracciare il proprio fucile (metaforico, questa volta) per difenderlo a tutti i costi?
Ci sarà pur qualcosa da cui partire. Partiamo dall'ovvio, dall'oggetto che abbiamo di fronte. E' una fotografia. Che cos'é una fotografia? Innanzitutto non è la realtà. Ogni immagine ripresa, sganciata da una narrazione più ampia, racchiude in sé una sorta di peccato originale, un'ambiguità di fondo, con cui fare i conti: una fotografia ritaglia una piccola parte di un tutto più vasto, filtra, seleziona, con i limiti che questo comporta in termini di verità, come quando si prelevano due frasi da un discorso. Cosa significa, questo? Che una foto è sempre falsa? Assolutamente no. Cosa sarebbe la storia dell'ultimo secolo senza la fotografia? Voglio solo dire che un'immagine è, per sua natura, limitata e parziale. E' un documento che, per essere tale, ha bisogno della pluralità, del racconto, del reportage. I bravi fotografi lo sanno e per questo, quando devono documentare un evento, sanno come muoversi e da quali e quanti punti di vista riprendere la scena, per farne un documento quanto più possibile inattaccabile. Naturalmente, se se ne hanno le possibilità. Quindi, prima di farci prendere dallo sconforto e farci venire il sospetto di essere stati ingannati, partiamo dall'assunto che una foto, singola, estratta dal suo contesto e posta su un piedistallo, ha insito in sé, nel suo dna, un qualcosa di ingannevole, un'ambiguità di fondo.
Cosa è successo a questa foto? Innanzitutto è stata pubblicata, pochi giorni dopo, il 23 settembre, dal settimanale francese “Vu”, anche se la vera consacrazione internazionale la ebbe il 12 luglio dell’anno successivo, quando fu pubblicata all’interno di un più vasto servizio sulla guerra spagnola dal settimanale americano “Life”. Quello era il periodo in cui i rotocalchi illustrati documentavano largamente la guerra civile, perché c'era una grande attenzione dell'opinione pubblica nei confronti di ciò che accadeva in Spagna. Questa è una guerra documentata in modo diverso rispetto al passato. Per la prima volta i media possono utilizzare le foto da loro stessi commissionate a fotografi indipendenti, non solo quelle fornite dagli Stati maggiori. Con la pubblicazione su “Life”, la foto conquistò una vastissima notorietà e fu utilizzata dallo stesso Capa per la copertina del suo libro “Death in the making” del 1938 (una raccolta di foto sue, di Gerda Taro e di Chim - nome d’arte di David Seymour) sulla Guerra di Spagna. In poche parole questa foto subì il destino di molte altre foto celebri, venute alla luce in certi contesti: è stata fatto oggetto di propaganda ideologica. Quindi ha subito nel tempo la sovrapposizione di stratificazioni semantiche che hanno portato questa fotografia a dover essere e a dover dire sempre molto di più di quello che poteva e doveva. E poi c'è un altro elemento, un altro sospetto che cozza contro il primo: circolano ultimamente troppe ricostruzioni revisioniste, che tendono a insinuare il dubbio, a generare diffidenza, a dimostrare che gli "eroi" e le "vittime" non sono tali, che bene e male non esistono, che tutte le posizioni sono ugualmente legittime. Lo si fa con i patrioti risorgimentali, con i partigiani della Resistenza, per non parlare dei campi di sterminio nazisti. In alcuni casi si perseguono obiettivi legittimi, dettati dal desiderio di verità storica, ma altre volte ci si rende conto che c'è sotto ben altro.
Ancora. Chi ha scattato la foto? Un giovane fotografo di 23 anni. Tutti i dubbi e le illazioni di questo mondo non possono far dimenticare che Robert Capa è stato il professionista che ha portato sempre il suo corpo molto vicino a ciò che voleva riprendere, anche quando questo significava esporsi al pericolo. E' stato l'unico a riportare delle foto, le "magnifiche undici", dello sbarco delle truppe alleate sulla spiaggia insanguinata di Omaha Beach il 6 giugno del 1944 (anche se si sono sollevati dubbi anche a proposito di quel servizio. Potete leggerne qui http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2015/09/30/la-fifa-di-capa-e-la-verita-sulle-magnifiche-undici/). Come poter dubitare del coraggio e della lealtà di un uomo che ha dato la vita per la sua professione? Ho la sua vita come testimonianza. E le sue parole: “Essendo ovviamente assai difficile scrivere la verità, nell’interesse della verità stessa mi sono permesso ogni tanto di andare appena oltre, altre volte di fermarmi appena al di qua di essa. Ogni riferimento a fatti e persone reali è puramente casuale, pur avendo qualcosa a che fare con la verità.”
Ecco, adesso mi sento di aver ritrovato un terreno solido sotto i piedi. E finalmente posso guardare questa foto con occhi nuovi, liberati dai fumi dei veleni e dei sospetti. Non mi interessano più. So benissimo che quella benedetta ultima parola non potrà mai essere detta, che questa foto non può darmi una Verità assoluta, ma mi fermo lì e in questo modo ho pagato il mio debito con il legittimo sospetto. Adesso, dopo aver letto tante parole, posso far lavorare i miei occhi e cercare di capire perché questa foto è entrata così prepotentemente nell'immaginario collettivo.
Innanzitutto cosa vediamo? Un uomo, un soldato, che cade, stringendo un fucile in una mano. Il nome della foto mi dice anche che non si tratta solo di una caduta: quel soldato è stato colpito a morte. Nessuna foto scattata in precedenza aveva portato nelle case un'immagine "reale" della morte. In questa, abbiamo un uomo isolato, che si staglia su uno sfondo neutro e spoglio, che protende in avanti il petto e apre le braccia come l'uomo fucilato del Goya, dalla stessa camicia candida; l'ombra si allunga dietro di lui, formando con il fucile, il corpo e il braccio del soldato un quadrilatero che bilancia il movimento all'indietro del corpo. La pendenza del terreno e il controluce enfatizzano la tensione drammatica della scena. La piccola macchia nera accanto al volto del caduto (in realtà la nappa del suo berretto) è stata interpretata talvolta come un fiotto di sangue, o di materia cerebrale, che esce dalla testa colpita. Ma la potenza della foto è data anche dalla sua capacità di inserirsi perfettamente nella concezione della morte dell'eroe rivoluzionario, che va incontro solitario al suo tragico destino, mettendo in pratica il proprio motto: “Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio". Sono questi sentimenti che danno vita ai miti e rivestono un'immagine di un'aura fuori dal tempo. Ma qui mi fermo.
Cosa vedono i vostri occhi?

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