domenica 17 dicembre 2017

LO SPECCHIO NELL’ARTE – TRA VANITAS E PRUDENTIA


Pochi oggetti racchiudono una così grande moltitudine di significati simbolici come lo specchio. Nel corso della storia esso è stato rappresentato come allegoria della vanità e della superbia; come simbolo di prudenza e di conoscenza oppure di inganno; come il luogo in cui si forma l’io e la coscienza di sé e contemporaneamente avviene lo sdoppiamento tra il soggetto reale e la sua immagine ideale o il suo doppio diabolico; come una porta di passaggio tra il mondo della realtà e un mondo immaginario.
L’utilizzo dello specchio nelle arti visive ha permesso la contrapposizione tra l’occhio e lo sguardo, tra il vedere e il comprendere, tra l’esteriorità e l’interiorità. Esso inoltre ha consentito di dilatare lo spazio svelando ciò che non si vede e non è presente nel campo figurativo rappresentato, ma diventa visibile allo spettatore solo tramite il riflesso dello specchio.


Vedremo adesso come nel corso della storia dell’arte, dal XV al XVII secolo, lo specchio ha trovato posto nelle rappresentazioni allegoriche della vanitas e della prudentia.

LO SPECCHIO E LA VANITAS
Hieronymus Bosch fu un pittore olandese del XV secolo il quale, mentre in Italia trionfava l’Umanesimo che celebrava il primato dell’intelletto, poneva piuttosto l’accento sugli aspetti trascendenti e irrazionali della vita. Egli seppe mettere in scena con una grande forza visionaria i conflitti dell’uomo rispetto alle regole imposte dalla morale e dalla religione, e quindi la follia, i vizi, i peccati e le punizioni infernali.

La sua opera più ambiziosa rimane il trittico de Il giardino delle delizie, databile 1480-1490 circa e conservato nel Museo del Prado di Madrid. È un’opera di grande visionarietà e densa di rimandi simbolici, a tal punto complessa che storici e critici non concordano nel darne una lettura interpretativa.

Hieronymus Bosch, Il Giardino delle delizie, 1480-1490 - [Public domain], via Wikimedia Commons

Lo sportello di sinistra raffigura Il paradiso terrestre, con la creazione di Adamo ed Eva, lo scomparto di centro è Il giardino delle delizie mentre lo sportello di destra è conosciuto come L’Inferno musicale. Quest’ultimo rappresenta con grande ricchezza e complessità di immaginazione i tormenti della dannazione ed è chiamato così a causa dei numerosi strumenti musicali raffigurati, che nel dipinto diventano strumenti di tortura, inflitta agli uomini da curiosi demoni, i grilli (i grùlloi dell’antichità classica, senza più la connotazione giocosa e scherzosa che avevano nella tradizione). In basso a destra di questo pannello raffigurante l’Inferno c’è una donna seduta, anzi abbandonata e priva di coscienza, con un rospo sul petto e ghermita da un demone con le zampe da salamandra che le è accanto. Essa si riflette (col demone) in uno specchio nero, fortemente convesso, legato sulle terga di un altro demone i cui piedi sono rami secchi (forse di nocciolo, albero legato nelle leggende tradizionali al demonio). Probabilmente questa collocazione dello specchio ricalca una tradizione popolare che in Francia recitava: Le miroir est le vray cul du Diable. Lo specchio è dunque un oggetto demoniaco.

Hieronymus Bosch, Il Giardino delle delizie, particolare, 1480-1490 – [Public domain], via Wikimedia Commons

Durante il ‘500 si discute molto sui poteri soprannaturali e malefici degli specchi magici, in grado di rivelare il futuro, di evocare i defunti o anche solo di porre in contatto delle persone lontane. Le credenze popolari attribuiscono allo specchio e alle superfici riflettenti in generale (come ad esempio l’acqua ferma), il potere di materializzare il passato e il futuro, eventi presenti ma lontani dal luogo in cui ci si trova, oggetti o esseri nascosti; lo specchio sarebbe insomma un occhio magico in grado di vedere ciò che è invisibile all’occhio umano.
Qualche elemento di queste credenze è sopravvissuto ai secoli, se molti anni dopo ritroviamo nelle fiabe popolari uno specchio magico parlante interrogato da regine vanitose e sanguinarie e per giunta streghe.

Per Bosch lo specchio è associato ai peccati di superbia o di vanità (che per il pittore sono la stessa cosa) e questi peccati sono altresì associati alla donna, che soccombe alla tentazione del maligno (alcuni hanno fatto notare in questo dipinto la somiglianza della donna peccatrice di superbia di fronte allo specchio nero con Eva, presente nel primo pannello del trittico, colei che con il suo peccato ha causato la collera di Dio e la cacciata dal paradiso terrestre).

Il tema della Vanitas, già presente nell’Antico Testamento (vanitas vantitatum, “vanità di vanità”), è rappresentato di frequente da donne colte nell’atto di guardarsi allo specchio per pura vanità.

Le stesse sirene, che incarnano una bellezza in grado di ammaliare e di portare alla morte, sono raffigurate con pettine e specchio, sebbene solo a partire dal II secolo quando, cioè, le loro sembianze divengono quelle di mostri metà donne e metà pesci invece che metà donne e metà uccelli.

L’interpretazione demoniaca dello specchio da parte di Bosch si riscontra in altre sue opere e in particolare ne I sette peccati capitali. Si tratta di una tavola costituita da sette riquadri che compongono il cerchio centrale (che altro non è che un occhio nella cui pupilla c’è l’immagine del Cristo) e da quattro tondi (i Novissimi), posizionati ai quattro angoli.


Hieronymus Bosch, I sette peccati capitali, 1500-1525 – [Public domain], via Wikimedia Commons


Lo specchio compare nel riquadro che raffigura il peccato di Superbia. È sostenuto da un demone filiforme e in esso si specchia compiaciuta una donna, peccatrice di vanità. Si noti che il demone indossa una cuffietta simile a quella della donna, con un effetto burlesco.

Hieronymus Bosch, I sette peccati capitali, particolare, 1500-1525 - [Public domain], via Wikimedia Commons


La Superbia (dal latino superbus= che sta sopra) è il primo dei vizi capitali, principio e radice di ogni vizio.
È un amore eccessivo di sé, un autocompiacimento malato che sfocia in una forma di idolatria del proprio io; come tale è rifiuto di Dio, in quanto nega il limite che caratterizza l’uomo. La superbia è la ribellione a questi limiti e la volontà di farsi Dio. Per Superbia, infatti, fu condannato il diavolo.

In uno dei quattro tondi posizionati agli angoli, l’Inferno, troviamo un altro demone che brandisce uno specchio di fronte a un’altra peccatrice, anch’essa con un rospo sul corpo e con accanto un peccatore seduto e perplesso, dannati entrambi per superbia.


Hieronymus Bosch, I sette peccati capitali, particolare 2, 1500-1525 - [Public domain], via Wikimedia Commons


La connotazione diabolica dello specchio non appartiene solo al mondo fiammingo. Ad esempio, i seguaci di Girolamo Savonarola, tra gli altri oggetti, infierirono anche contro gli specchi durante un rogo pubblico a Firenze (il Falò delle vanità), nella festa di martedì grasso del 7 febbraio 1497. Gli specchi erano ritenuti dai Piagnoni un oggetto maligno, simbolo della Superbia, assieme al pavone e al pipistrello.
In molte rappresentazioni, all’immagine dello specchio, simbolo di vanità, viene associata quella di una clessidra (tempus fugit), di un teschio (memento mori), di fiori ed altre cose effimere, come moniti che ricordano che la vita si conclude per tutti con la morte e la bellezza passa con il passare del tempo.

In quest’opera del pittore tedesco Hans Baldung Grien vediamo rappresentate tre donne, una anziana, una giovane e una bambina.


Hans Baldung, detto Grien, Le tre età della donna e la morte (1510) – [Public domain], via Wikimedia Commons


La seconda si sta rimirando in uno specchio convesso. A destra un cadavere in putrefazione tiene sospesa una clessidra, simbolo del tempo che scorre, sulla testa della giovane donna: metà della sabbia è già passata nell’ampolla inferiore, l’altra metà è in quella superiore in attesa di passare dall’altra parte. La bimba è avvolta dal velo trasparente che copre il pube della giovane, mentre la vecchia, dalla pelle grinzosa e dello stesso colore di quella del cadavere, irrompe nella scena poggiando la mano destra sul retro dello specchio, mentre con la sinistra tenta di allontanare il braccio della Morte che tiene sollevata la clessidra. La giovane invece, dalla pelle luminosa, sembra del tutto ignara di quanto le accade intorno e continua a rimirarsi nello specchio, legata al suo presente, alla sua gioia del momento. La morte vorrebbe insegnarle la sapienza del tempo, il tormento della sua inesorabilità, ma colpisce il gesto della vecchia che tenta di scostarla, quasi per salvare quel momento di letizia e di spensieratezza, per quanto effimera, della giovane donna, forse perché nella sua lunga vita ha imparato quanto grande è il rimpianto delle cose perdute e che quegli istanti di felicità non torneranno mai più. Il “duello” tra la morte e la vecchia appare come lo scontro tra due sapienze diverse, che fanno perno su due modi diversi di concepire il tempo: quello che nella morte vede una fine della vita terrena che rende vano e inconsistente ogni atto o momento che non sia teso a guadagnarsi la vita eterna, e quello che proprio nella fine terrena vede l’esortazione a vivere tutte le fasi della vita, per quanto effimere, ognuna nel suo momento appropriato.
Al pittore fiammingo Jan Van der Straet (detto Giovanni Stradano o Stradanus) appartiene invece questa opera dal titolo La Vanità, la Modestia, la Morte:



Jan Van der Straet (Stradano), La Vanità, la Modestia, la Morte, 1569 – [Public domain], via Wikimedia Commons


Nel Seicento, l’ascesa dei ceti medi e mercantili comportò l’emergere di un nuovo tipo di committenza artistica, non più appartenente esclusivamente agli ambienti della Corte o della Chiesa. Questo processo determinò lo sviluppo di generi pittorici da sempre stimati minori, quali il ritratto, la scena di genere e soprattutto la natura morta, che testimoniavano il rinnovato interesse scientifico per la realtà e per la sua minuziosa indagine descrittiva, seppure ancora sottomesso all’espressione di valori e messaggi morali e religiosi.
Il genere della natura morta prediligeva il tema iconografico della vanitas, soggetto che vide il suo apogeo proprio in questo secolo. La sua affermazione principalmente nei paesi dell’Europa centro-settentrionale (Olanda soprattutto) è da ricollegarsi al senso di precarietà che si diffuse in seguito alla guerra dei trent’anni e al dilagare delle epidemie di peste. Gli elementi caratteristici di tali composizioni sono l’immancabile teschio memento mori, la candela spenta e il silenzio degli strumenti musicali, come simboli di morte; la clessidra o l’orologio, moniti dell’inesorabile trascorrere del tempo; le bolle di sapone, simbolo della precarietà della vita e dei beni terreni; un fiore spezzato o un frutto bacato, emblemi della brevità della vita e del suo rapido sfiorire. Non è raro trovare tra queste composizioni anche uno specchio o una sfera riflettente, come nei due dipinti seguenti, appartenenti a pittori olandesi:

Pieter Claesz, Vanitas Still Life with Self-Portrait, 1628 - [Public domain], via Wikimedia Commons

Simon Luttichuys - Vanità con teschio (n°2) - 1645 - [Public domain], via Wikimedia Commons


Olandese è anche Jan Miense Molenaer, autore di questa Allegoria della vanità, in cui la presenza del teschio, degli strumenti musicali e del mappamondo ricollegano l’opera all’apparato iconografico della vanitas tipica seicentesca.


Jan Miense Molenaer, Allegoria della vanità, 1633 - [Public domain], via Wikimedia Commons



Al tema della vanitas si ricollega un’iconografia molto diffusa nella storia della pittura: quella della Maddalena. Esistono almeno tre interpretazioni di essa in cui compare lo specchio come spunto di meditazione sulla caducità delle cose terrene: la Conversione della Maddalena (o Marta e Maria Maddalena) di Caravaggio (1598), La Conversione della Maddalena di Artemisia Gentileschi (1615-16) e la Maddalena penitente (o Maddalena allo specchio) di Georges de La Tour (1639-43).


 Caravaggio, Conversione della Maddalena, (c.1599) – [Public domain], via Wikimedia Commons


Soffermiamoci su quest’ultima.
Georges de La Tour è stato un pittore francese, esponente del barocco e interprete in modo personale della scuola caravaggista. Qui ritrae Maria Maddalena in una stanza in penombra. La donna è seduta presso un basso mobiletto su cui è posato uno specchio, il suo volto è visibile solo per un quarto; ha le lunghe chiome sciolte e le mani serenamente intrecciate sopra un teschio appoggiato sulle gambe, in un atteggiamento di quieta familiarità. Il suo sguardo è volto verso lo specchio, che riflette su di lei la luce della candela che si sta consumando (simbolo della vita e della sua brevità) e che raddoppia la fiamma alta e intensa (la fiamma e il suo riflesso, la vera luce e quella falsa, la verità e l’illusione).

Georges de La Tour, Maddalena penitente (o Maddalena allo specchio), tra 1639 e 1643 - [Public domain], via Wikimedia Commons


Dietro lo specchio, l’ombra densa della notte, che conferisce alla scena un’atmosfera di misteriosa solennità. A rammentare l’ormai disprezzata vita passata, precedente alla conversione, sparsi sul piano del tavolo e sul suolo, giacciono dimenticati alcuni gioielli.
La candela è l’unica fonte luminosa del quadro, la cui fiamma pare ondeggiare leggermente al respiro della donna; la posizione della Maddalena, raccolta e schiva – che sembra chiusa in se stessa e quasi rifiutare l’incontro con l’osservatore – conferisce alla scena un significato di serena pace interiore e di intima meditazione. La luce sommessa e vibrante della stanza crea un clima di commossa partecipazione emotiva; un grande senso di pace si irradia dalla placida compostezza di quelle mani intrecciate, che hanno affrontato e superato l’abisso del tormento interiore.

L’attenzione di chi guarda è catturata dal teschio e dalla fiamma che si consuma, simboli entrambi del tempo che passa. Ma la candela è anche simbolo della luce della fede, che brucia e consuma l’anima di chi a lei si abbandona. Qui lo specchio non riflette un volto, ma una luce.

Attraverso l’ambientazione notturna e l’illuminazione artificiale, l’autore riesce a concentrare la rappresentazione sull’essenziale, isolandolo dalle tenebre e raggiungendo livelli tali di astrazione da fare di questo dipinto un’opera senza tempo. Quella che racconta è una storia di redenzione e di raggiunta pace interiore.

Georges de La Tour ha dipinto altre Maddalene penitenti, condizionato forse da un tema, quello della riflessione sulla morte, che ben si adattava al suo stato psicologico e al clima dei tempi, quando la Lorena era devastata dalla peste e dalla guerra.

Georges de La Tour, Maria Maddalena penitente, 1635 - [Public domain], via Wikimedia Commons


Alla prima metà del Seicento risale anche quest’opera, eseguita da un altro pittore del barocco francese, Trophime Bigot, dove sono presenti tutti gli elementi appartenenti al tema della vanitas e del memento mori.


Trophime Bigot, Allegoria della vanitcà, Galleria di Palazzo Barberini a Roma - [Public domain], via Wikimedia Commons


Del Seicento italiano segnaliamo un’opera, alquanto macabra, del veronese Jacopo Ligozzi e una del pittore di origini genovesi Bernardo Strozzi.


Jacopo Ligozzi, Memento Mori. Natura Morta Macabra, 1604 - pinterest


Nel dipinto seguente, Bernardo Strozzi dà una interpretazione originale della vanitas, con umorismo mordace delle umane debolezze. Egli non rappresenta una donna bella e nel rigoglio della sua età giovanile, ma una vecchia che, ignara della sua fisica decadenza e accecata dalla vanità, si mira allo specchio, che mostra invece impietosamente la realtà che ella si rifiuta di vedere. L’espressione dell’ancella, che cerca di abbellire l’acconciatura con una piuma, è beffarda e ironica e fa da contrappunto all’espressione di compatimento dell’altra. Al tema della vanità rimandano alcuni oggetti sulla toeletta, un prezioso vaso d’argento con manico a forma di arpia, un ventaglio, una boccetta di profumo, dei monili, e soprattutto i fiori: la rosa che si riflette nello specchio indica la caducità della vita, l’avvizzire della carne e della bellezza fisica e i fiori d’arancio, attributo consueto delle spose, indicano probabilmente che la donna è ancora in cerca di marito.

Bernardo Strozzi, Vanitas (La vecchia civetta), 1635 - [Public domain], via Wikimedia Commons


Questo tema non si esaurirà nel Seicento, se ancora alla fine del XIX secolo troviamo questa immagine del pittore e illustratore statunitense Charles Allan Gilbert, conosciuto essenzialmente per questa litografia, dal titolo All is vanity, che si riallaccia alla lunga tradizione dei Memento mori o Vanitas.
Il disegno è un’illusione ottica, una delle più celebri, e rappresenta la scena di una donna che si ammira in uno specchio e che, vista da lontano, assume la forma di un teschio umano. E vanity è in inglese anche il termine che indica quel mobile, la toilette, di fronte a cui le donne usavano un tempo specchiarsi e profumarsi.

Quest’immagine è stata rifatta e reinterpretata tantissime volte e nei contesti più vari, dalla pubblicità alle copertine di dischi. Il motivo della vanitas vanitatum torna nella comunicazione di massa moderna a rammentare la fugacità della bellezza e delle cose mondane, ma soprattutto la loro, seppur macabra, seduzione.

Charles Allen Gillbert, All is vanity - [Public domain], via Wikimedia Commons


LO SPECCHIO E LA PRUDENTIA
Dai sette peccati capitali alle quattro virtù Cardinali. Lo specchio non ha avuto esclusivamente una connotazione negativa come simbolo dell’inganno, della vanità e della fugacità del tempo.

L’allegoria della Prudenza (una delle quattro virtù cardinali, emanazione della Sapienza divina e primo dono dello Spirito Santo), variamente rappresentata nel corso del Medioevo e del Rinascimento, raffigura infatti una giovane donna accompagnata generalmente da due elementi: un serpente e uno specchio. Il serpente richiama il versetto del Vangelo “Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe” (Matteo, 10, 16); esso è simbolo dell’intelligenza usata contro le avversità e parallelamente, essendo un antico simbolo del tempo, il serpente sta anche a ricordare che la Prudenza è figlia del tempo, cioè dell’esperienza.

L’immagine della giovane donna che guarda il proprio volto riflesso nello specchio compare nella iconografia del tardo Medioevo e viene utilizzata frequentemente nella pittura e nella scultura dell’arte rinascimentale italiana. Lo specchio è attributo della virtù che impone la conoscenza di se stessi in quanto condizione preliminare per regolare le proprie azioni, e per agire dunque in modo virtuoso. La conoscenza di sé implica infatti quella delle proprie possibilità e dei propri limiti.

Questa di Piero del Pollaiolo (fratello del più noto Antonio) è una delle raffigurazioni della Prudenza.

Piero Del Pollaiolo, Prudenza, 1470 - [Public domain], via Wikimedia Commons


Il Tribunale della Mercanzia di Firenze aveva commissionato a questo pittore un intero ciclo di sette virtù (le 3 teologali più le 4 cardinali). Tuttavia, forse per la lentezza con cui i lavori precedevano, anche Sandro Botticelli riuscì ad inserirsi nella commissione ed ebbe l’incarico di dipingere la Fortezza. E così oggi le sei virtù di Piero e la Fortezza di Botticelli sono tutte esposte agli Uffizi.
Le Quattro allegorie sono una serie di quattro tavolette dipinte a olio di Giovanni Bellini, databili 1490 circa e conservate nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Rappresentano la Perseveranza, la Menzogna, la Fortuna e la Prudenza.

In questo caso la donna raffigurata nella tavola della Prudenza non viene ritratta nell’atto di specchiarsi, ma mentre addita lo specchio, invitando lo spettatore a guardare in esso la verità delle cose. Nello specchio compare il riflesso di un volto, probabilmente quello dello stesso committente.

Le quattro tavolette decoravano anticamente un mobiletto da toeletta di noce (detto restello), dotato anche di specchiera e rastrelliera appendi-abiti. Non era raro che la loro decorazione comprendesse raffigurazioni simboliche a carattere moraleggiante.

Facciamo attenzione alla particolare forma convessa di questo specchio. Nel passato questo tipo veniva chiamato Oeil de sorcière (occhio di strega) o specchio dei banchieri. Usato nelle case come portafortuna, contro il malocchio e per cacciare le streghe, nelle botteghe di orafi e banchieri era un efficace strumento per tenere sotto controllo il negozio. L’ardito gioco prospettico offerto dalla curvatura della lastra specchiante si prestava a raffinati esercizi di stile, permettendo inoltre di includere nel quadro particolari e personaggi esterni alla rappresentazione.


Giovanni Bellini, La prudenza, 1490 - [Public domain], via Wikimedia Commons


A Pietro Vannucci, detto il Perugino, è attribuito l’affresco Prudenza e Giustizia con sei savi antichi, appartenente al ciclo della “Ornamentazione del Cambio”. La Sala delle Udienze del Collegio del Cambio a Perugia era il salone principale della sede dell’Arte del Cambio locale. Si tratta di un salone monumentale dove il Perugino eseguì su commissione un ciclo di affreschi il cui tema è la concordanza fra sapienza pagana e sapienza cristiana, elaborato dall’umanista Francesco Maturanzio.


Pietro Vannucci, detto il Perugino, Prudenza e Giustizia con sei savi antichi, 1497 - [Public domain], via Wikimedia Commons


Lo specchio e il serpente compaiono anche in quest’altra Allegoria della Prudenza, del pittore fiorentino del Cinquecento Girolamo Macchietti. Particolare degno di nota di questo dipinto è la presenza del doppio volto: davanti quello di una giovane donna, dietro quello di un vecchio saggio, ad indicare che la prudenza non può essere separata dall’esperienza.


Girolamo Macchietti, Allegoria della Prudenza (1535-1592) - [Public domain], via Wikimedia Commons


Al pittore francese Simon Vouet appartiene l’opera seguente. Stabilito in Italia per quasi vent’anni fu uno dei maggiori esponenti del caravaggismo prima di ritornare in Francia nel 1627, dove contribuì all’introduzione del barocco italiano in Francia.


Simon Vouet, Allegory of Prudence, 1645 - [Public domain], via Wikimedia Commons


I monumenti funebri ospitano spesso sculture raffiguranti la Prudenza.
La tomba di Francesco II di Bretagna e di sua moglie Margherita di Foix si trova a Nantes, all’interno della cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, e fu realizzata in marmo di Carrara all’inizio del XVI secolo da Michel Colombe (scultore) e Jehan Perréal (architetto).

Ai quattro angoli del sarcofago ci sono quattro statue, ciascuna delle quali rappresenta una delle virtù cardinali: la giustizia, la fortezza, la temperanza e la prudenza.

La prudenza ha in una mano un compasso, simbolo della misura di ogni azione, e nell’altra uno specchio, verso cui è indirizzato lo sguardo della statua. Nella allegoria della Prudenza lo specchio è simbolo di Verità: esso riflette le cose passate e future e pertanto dona a chi lo guarda saggezza e conoscenza.

Anche la testa di questa statua possiede due volti, quello della giovane donna e quello del vecchio saggio, motivo che ricorre spesso nelle raffigurazioni di questa virtù. Ai suoi piedi troviamo il serpente, come si è visto altro simbolo di prudenza.

Tomba di Francesco II di Bretagna, Michel Colombe e Jehan Perréal, 1502-1507 - Pinterest


Nella Basilica di San Pietro ci sono ben due monumenti funebri nei quali è presente la statua della Prudenza. In fondo alla navata centrale della Basilica, nella nicchia di sinistra dell’abside, c’è il monumento funebre di Paolo III Farnese, il papa della Controriforma, eseguito da Guglielmo della Porta, sotto la supervisione di Michelangelo. Sul sarcofago di marmo bianco, s’innalza la figura in bronzo di Paolo III, seduto sul trono. Sotto di essa, raffigurate sdraiate ai suoi piedi, il Della Porta ha scolpito nel marmo due figure allegoriche: la Giustizia e la Prudenza. La Prudenza ritrae le fattezze della madre del Papa, Giovannella Caetani, e regge nella mano destra proprio uno specchio. La Giustizia è il ritratto della bellissima Giulia Farnese, la sorella del Papa e amante preferita di Alessandro VI Borgia. Il corpo stupendo di Giulia, scolpita completamente nuda dal Della Porta, mise subito in imbarazzo il personale del Vaticano, alle prese con un crescendo giornaliero di visitatori, più interessati alle grazie di Giulia che allo stesso Pontefice. Ritenendo non più sopportabile questo stato di cose, nel 1595 Clemente VIII fece ricoprire le nudità dell’affascinante Giulia con un manto di metallo verniciato di bianco, come se fosse stato fatto in origine dallo stesso Della Porta (dell’episodio ne parlerà anche il poeta satirico Gioacchino Belli).

Ma la statua continuò ad attirare la curiosità dei visitatori, soprattutto nel Settecento, quando si scoprì che la veste si poteva rimuovere per fare ammirare le nudità sottostanti. A lungo si disse che i guardiani della Basilica (San Pietrini) dietro compenso di uno zecchino erano disposti a sollevare per qualche istante il lenzuolo di metallo per far ammirare le sottostanti beltà.

Il monumento, iniziato nel 1549, fu completato solo nel 1574.

Guglielmo della Porta, Tomba di Paolo III, La Giustizia e la Prudenza - www.atlantedellarteitaliana.it


San Pietro ospita anche il monumento funebre del papa Alessandro VIII, ricordato per aver elargito su larga scala sia la carità ai bisognosi che le nomine ai propri famigliari, facendo esaurire le casse del Regno. La tomba fu progettata da Arrigo di San Martino e realizzata da Angelo de’ Rossi e Giuseppe Bertosi e tra le statue presenti troviamo anche un’allegoria della Prudenza:

Angelo De' Rossi - Allegory of Prudence by on the monument of Pope Alexander VIII (1689-1691) - Flickr.com Creative Commons


Ancora uno splendido esempio di scultura Barocca fiorentina, opera dell’artista Giovanni Baratta.

Pochi anni fa questa statua ha fatto notizia. Una coppia di sculture in marmo di Carrara a grandezza naturale raffiguranti le allegorie della «Ricchezza» e della «Prudenza», che dal 1905 si trovavano nelle collezioni del magnate statunitense del tabacco James Buchanan Duke senza attribuzione, sono state identificate come opera del celebre artista carrarese e sono state messe all’asta presso la galleria londinese Trinity Fine Art nel giugno 2010.

Le statue erano state commissionate a Baratta dal nobiluomo fiorentino Niccolò Maria Giugni per il suo palazzo in via degli Alfani a Firenze.

La Prudenza è raffigurata nell’atto di riflettersi e di guardarsi alle spalle con l’aiuto di uno specchio. Secondo alcune interpretazioni, lo specchio tenuto in quel modo in posizione verticale (presente in altre raffigurazioni di questa virtù), serve non solo per specchiarsi e conoscere se stessi, ma anche per poter scorgere gli eventuali pericoli che arrivano da dietro.


Giovanni Baratta (1670-1747), La Prudenza - Flickr.com Creative Commons

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