Rear Window, regia di Alfred Hitchcock, 1954. |
Secondo Alberto Moravia, autore del libro "L'uomo che guarda", "la scopofilia, o, se si preferisce, il voyeurismo sarebbe all’origine di gran parte della narrativa e, ovviamente, del cinema". Perchè ci sia voyeurismo, il comportamento della persona spiata deve essere un comportamento privato, di solito sottratto a sguardi indiscreti, e l'atto di spiarlo deve pertanto essere accompagnato dalla consapevolezza di commettere una trasgressione. Inoltre lo scopofilo spia non soltanto ciò che è proibito, ma anche ciò che è ignoto.
Il legame tra voyeurismo e cinema è stato ampiamente teorizzato. Lo spettatore cinematografico è difatti considerato una sorta di voyeur in quanto la sua relazione con lo schermo corrisponde a quella che si stabilisce tra il "guardone" e l’oggetto spiato. Molto spesso lo schermo cinematografico è stato considerato una finestra (d’altra parte la forma geometrica di entrambi gli oggetti avalla questa analogia) attraverso la quale ci si intrufola nella vita degli altri, ignari della nostra presenza.
Trovandosi in una posizione di immobilità, seduto, inattivo e in silenzio (e al buio), lo spettatore cinematografico concentra tutta la sua attenzione sul vedere e soddisfa la sua pulsione scopica a distanza, grazie alla visione di immagini in movimento.
Il suo piacere è dunque strettamente correlato al senso della vista, poiché l’oggetto del desiderio rimane inattingibile agli altri sensi. Tra l’occhio e lo schermo persiste infatti uno spazio vuoto, un’apertura incolmabile.
Il termine inglese per definire il "guardone" è peeping Tom, che richiama la storia di Lady Godiva. La leggenda vuole che la nobildonna anglosassone – realmente vissuta tra il 990 e il 1067 – osò sfidare l’autorità di suo marito Leofric, conte di Coventry, nel tentativo di convincerlo a ridurre i tributi che opprimevano il popolo. L’uomo, per accontentare la sua richiesta, le propose di percorrere nuda a cavallo le strade della città, e Godiva accettò il patto. Una versione settecentesca della leggenda narra che il giovane Tom, contravvenendo agli ordini dell'autorità, spiò da una finestra Lady Godiva mentre cavalcava nuda per la città e per questo venne punito con l'accecamento e da allora il lemma peeping tom è entrato nell’uso comune (deriva dal verbo inglese to peep, che significa letteralmente ʹsbirciareʹ, ʹguardare furtivamente'.
Quasi a volere enfatizzare tale legame, molti registi hanno fatto di incalliti voyeur i protagonisti delle loro pellicole. È il caso di Alfred Hitchcock e del suo James Stewart, il voyeur di Rear Window (La finestra sul cortile), film del 1954.
Lo sguardo proibito di Jeff, come quello del guardone di Lady Godiva, agisce attraverso una finestra, la finestra su un cortile interno al Greenwich Village di New York, le cui tende di bambù si dischiudono all’inizio del film come un sipario verticale. Immobilizzato su una sedia a rotelle in seguito a un incidente sul lavoro, il fotoreporter Jeff si trova in una situazione simile a quella dello spettatore cinematografico. Il protagonista può solo guardare e interpretare ciò che vede, senza poter intervenire direttamente a influenzare lo svolgersi della vicenda.
Jeff osserva dalla finestra del suo loft una serie di piccole storie che si mostrano nelle finestre degli appartamenti di fronte al suo, sempre aperte a causa di un forte caldo estivo. I personaggi di queste storie, sorpresi nell’intimità della loro vita quotidiana, entrano e escono dalle cornici delle finestre-schermo. Osservare il vicinato inizia per Jeff come un passatempo, ma diventa poi una vera e propria ossessione morbosa, che non lo fa dormire la notte. È proprio questa situazione che gli permette di scoprire un delitto.
Per guardare i suoi vicini, Jeff si serve spesso del binocolo, di una macchina da presa a focale lunga e del teleobiettivo. È proprio questo oggetto inanimato che permette al nostro protagonista di spiare al meglio i comportamenti sospetti del signor Thorwald, il rappresentante di gioielli, e di scoprire che si è reso colpevole dell’omicidio della moglie. Solo il teleobiettivo, infatti, permette a Jeff di vedere dei particolari che sarebbero rimasti inattingibili all’occhio umano.
Tutto il film è articolato intorno a due linee narrative distinte: da un lato la storia thriller che ruota intorno allo smascheramento dell’assassino Thorwald, dall’altro lato assistiamo allo sviluppo della storia sentimentale tra Jeff e Lisa, l’elegante e bellissima Grace Kelly, che tuttavia non riesce a conquistare veramente il cuore del protagonista. Solo quando Lisa oltrepassa il cortile ed entra nella casa di Thorwald comparendo nella sua finestra, esponendosi ad una situazione di pericolo e soprattutto espondendosi allo sguardo voyeuristico di Jeff, diventa un vero oggetto del desiderio dell’uomo.
Fin dalle prime scene, il regista trascina lo spettatore dentro il film, attraverso l’uso del punto di vista soggettivo nelle scene in cui Jeff è occupato a osservare le finestre di fronte. Tutta (o quasi) la vicenda si svolge attraverso lo sguardo di Jeff, nel quale lo spettatore finisce per identificarsi. Per l’intero film (tranne tre scene), inoltre, il sapere dello spettatore coincide con quello del protagonista.
All’uscita del film, per rispondere alle critiche sul comportamento da guardone di Jeff, lo stesso Hitchcock dichiarava:
“Diciamolo, [Jeff] era un voyeur ... ma non siamo tutti dei voyeur? Scommettiamo che nove persone su dieci, se vedono dall’altra parte del cortile una donna che si spoglia prima di andare a letto o semplicemente un uomo che mette in ordine la sua stanza, non riescono a trattenersi dal guardare?”
Spostando la sua macchina da presa di finestra in finestra, Hitchcock dimostra, magistralmente, come il cinema, finestra per eccellenza, sia la più perfetta realizzazione dei desideri legati all’atto del vedere e quanto la pulsione scopica si manifesti nella quotidianità di ognuno di noi.
Il formato rettangolare delle finestre, visibili sulla facciata del palazzo di fronte casa di Jeff, evoca l’inquadratura. Nel caso, ad esempio, dell’appartamento di Thorwald, osservato tramite tre finestre, si può anche parlare dell’evocazione della funzione del montaggio, somma di più inquadrature.
Il regista, secondo quanto leggiamo nell’analisi filmica condotta da Paolo Bertetto, propone una riflessione metacinematografica, che va dalla tecnica alla relazione spettatoriale, senza che sia mai mostrato nulla effettivamente riconducibile all’universo del cinema.
Foto tratta da "Peeping Tom" (L'occhio che uccide), regia di Michael Powell, 1960. |
Il titolo originale del film cult del regista inglese Michael Powell "L'occhio che uccide" del 1960 è proprio "Peeping Tom" che, come abbiamo visto, è l'espressione inglese che indica il "guardone" e che si richiama alla leggenda di Lady Godiva.
Il protagonista, il giovane Mark Lewis, operatore cinematografico e autore di foto osé, soffre di una forma acuta di voyeurismo. Il suo non è un passatempo come per il Jeff di "Rear Window", ma un vero e proprio disturbo psichico, una mania che risale ad un’infanzia traumatica. Egli, infatti, da piccolo ha subito la perdita della madre (sostituita poco dopo da una matrigna) ed è stato la cavia degli strani esperimenti del padre, celebre scienziato studioso della psiche, che per condurre uno studio sulle reazioni del sistema nervoso alla paura, ʹosservava crescereʹ suo figlio, stimolandone incubi e insicurezze e filmandolo con la macchina da presa ogni singolo istante della sua vita, anche il più intimo e imbarazzante. Sottoposto al freddo occhio di un obiettivo giorno e notte, Mark impara a concepire lo svolgimento della propria vita in termini di sequenze che si succedono le une alle altre.
Divenuto adulto, Mark, discreto e timido fotografo\operatore, non esce mai privo della sua cinepresa a mano, ormai diventata un'estensione di sé e senza la quale si sente insicuro e indifeso. La sua vita viene costantemente filtrata, mediata dalle immagini; le emozioni scaturiscono al momento della visione postuma delle sequenze filmate e non nell’istante del loro accadimento. È in questo che sta il tragico sfasamento patito dal giovane: l’idea di poter fermare il tempo, immobilizzarlo, nella speranza che l’essenza delle cose e delle persone possa essere preservata. Ma è solo un’illusione: tutto svanisce irrimediabilmente e lui ne è consapevole.
Il suo scopo è di portare a termine il progetto del padre e lavora per realizzare un cortometraggio sulla paura. Per questo filma il terrore che appare negli occhi delle donne mentre le uccide, lentamente, con l'arma mortale chiusa all'interno della sua cinepresa portatile, una lama che penetra nelle gole delle povere donne (spesso prostitute, o sconosciute attrici). Una lenta agonia, resa ancora più estrema e violenta dallo specchio fissato sull'obiettivo della cinepresa, in modo che la vittima sia costretta a guardare in faccia il riflesso ‘deforme' del proprio terrore in punto di morte.
Tuttavia, le turbe psichiche e la mania omicida del giovane si acquietano dinanzi alla finestra di Helen, l’inquilina del piano inferiore, che egli si sofferma a guardare abitualmente, prima di rientrare nell’appartamento-bunker ereditato da suo padre, con all’interno tutto il suo armamentario tecnico. Mark spia l’intimità della ragazza, avvicinandosi dall’esterno ai vetri della finestra della casa in cui Helen vive con la madre cieca, l'unica a percepire, forse proprio a causa della sua menomazione che le permette di "vedere" al di là del sensibile, il lato oscuro di Mark.
Mark Lewis – killer psicopatico dalla faccia pulita e il carattere fragile, con il quale è difficile non simpatizzare – è un voyeur perverso. Ha due facce, timida e gentile una, sadica e letale l'altra. La sua personalità doppia si rispecchia anche nella sua casa, divisa in due: una parte è modesta ed essenziale; l'altra, dietro un pesante telo, nasconde la camera oscura, dove Mark esegue lo sviluppo delle pellicole.
Nonostante i sentimenti provati per Helen e il ribrezzo per gli esperimenti che suo padre ha compiuto su di lui, il giovane non riesce a guarire: la sua morbosità, sensuale e sessuale, lo condurrà alla morte, autoinflitta per mezzo della stessa arma celata nel cavalletto della macchina da presa. Sarà dunque proprio lui, alla fine, il protagonista del suo film.
Mark appaga la sua pulsione scopica ed erotica (oltre che cinematografica) filmando l'orrore che deforma il viso delle donne mentre le uccide. La struttura del film porta lo spettatore a provare quasi una relazione empatica con il protagonista. Mentre in Psycho, dello stesso anno, il regista pone una certa distanza tra lo spettatore e lo psicopatico assassino, in Peeping Tom quella distanza viene annullata. In tal senso il messaggio del regista è molto forte e scomodo: ci sta dicendo che anche noi spettatori siamo un po' dei morbosi voyeurs proprio come Mark. Infatti, cosa spinge uno spettatore di film horror a guardare la paura nel volto delle altre persone? Quanta è la componente di morbosità, forse anche sessuale o sensuale, in tale processo?
Omicidio a luci rosse, regia di Brian De Palma, 1984. |
Ancora con il tema del voyeurismo e del doppio si confronta un altro thriller famoso, "Body Double" (conosciuto in Italia con il titolo di "Omicidio a luci rosse"), firmato nel 1984 dal regista Brian De Palma.
Jack Scully è un modesto attore di film horror di basso livello, che nello stesso giorno perde il lavoro, la ragazza e la casa. Si ritrova a soggiornare nella villa di un amico, dalla quale, attraverso le ampie vetrate di una casa poco distante e praticamente ad orario fisso ogni sera, assiste tramite un telescopio all’esibizione erotica di una seducente e bellissima donna. Per Jack diventa una sorta di ossessione irresistibile. In seguito si accorge che la donna è minacciata da un altro uomo che la spia e la segue e che, penetrato nella sua casa, la uccide con un trapano. Chiaramente seguirà l'imprevedibile colpo di scena.
Come Peeping Tom, anche Body Double intesse una acuta riflessione metafilmica sullo statuto del cinema e sulla condizione "perversa" e contraddittoria di spettatore. Le citazioni cinematografiche, Hitchcock in testa, si sprecano (soprattutto sono evidenti i richiami a "Rear Window" e a "Vertigo"). Anche qui, come in Rear Window, la finestra è uno schermo in cui si gioca la dialettica primaria del campo-fuori campo, mentre il protagonista si trova nella stessa posizione dello spettatore, distanziato dall'azione, impossibilitato a intervenire e preso esclusivamente dalla "visione". L'azione e lo scopo dello spettatore, proprio come quelli del voyeur, si riducono esclusivamente all'atto del guardare e al piacere di esso. Proprio perché lo spettatore è lontano e non può intervenire, il regista può mettere in atto quel meccanismo controllato che bilancia esibizione e occultamento e che fa ricorso a trucchi illusionistici, che è appunto il dispositivo stesso di un film.
Ricapitolando, nei tre film che abbiamo preso in esame, la finestra è una metafora dello schermo cinematografico. Il suo utilizzo dà modo di elaborare un discorso metafilmico sullo statuto del cinema e sul ruolo dello spettatore.
Ecco ora, sempre sul tema, l'ultimo film di Chloe Okuno, Watcher, sul quale qui di seguito il mio commento:
RispondiEliminahttps://www.mentinfuga.com/watcher-di-chloe-okuno/?fbclid=IwAR2S9hSmSEXrMZOvMQJOMqzxB7qb8NkwT4ivcmyJ1anVV9w--vvoAVKGuxc