sabato 22 aprile 2017

Specchi - La dilatazione dello spazio in fotografia

Brassaï, Chez Suzy, Rue Gregoire-De-Tours Dans Le Quartier Saint Germain

Gyula Halász (pseudonimo Brassaï, 1899 – 1984) è stato un fotografo, scrittore e regista francese di origine ungherese. Dal 1924 risiede a Parigi e nei suoi vagabondaggi notturni, spesso in compagnia dello scrittore e amico Henry Miller, egli scopre e fotografa una città affollata di nottambuli: amanti, prostitute, lavoratori, clochards, malavitosi, nella penombra dei vicoli illuminati da un lampione, all’interno dei bistrot o delle case d’oppio, fin dentro alla vita segreta delle case di tolleranza. Nel 1932 pubblica la raccolta intitolata Paris de nuit che riscuote grande successo e gli vale l’appellativo di “l’oeil de Paris”.
L’aspetto più singolare delle foto di interni di Brassaï è l’uso molto frequente di specchi per espandere la scena descritta. Usando gli specchi inoltre, egli offre una diversa percezione della scena stessa.



Brassaï, Armoire à glace dans un hôtel de passe (L’armadio a specchi), rue Quincampoix, ca 1932.

Nella fotografia L’armadio a specchi sono rappresentate due figure, entrambe di spalle, in una camera di hotel: una prostituta e il suo cliente. In realtà l’unico personaggio inquadrato dall’obiettivo è l’uomo, la donna è “fuori campo” e compare solo come riflesso nell’anta di sinistra dell’armadio a specchio, cornice nella cornice. Entrambi si stanno vestendo: il loro è stato un incontro fugace ed effimero, senza vera conoscenza e infatti i loro volti rimangono nascosti e i loro corpi anonimi; nella realtà sono distanti e si danno le spalle con indifferenza, ma nella foto, grazie all’azione riflettente dello specchio, si crea un’illusione di unificazione tra i due personaggi e si accentua la complessità e ambiguità dell’immagine. Presente solo come immagine virtuale, “la donna è strappata alla sua posizione nello spazio «reale» e trapiantata in un rapporto di contiguità spaziale diretta con il suo cliente. In questa riunione, effettuata solo sul piano dell’immagine, la coppia produce un segno transitorio, fuggitivo, del significato del suo incontro: il rapporto sessuale anonimo è rappresentato dalla giustapposizione dei due corpi senza volto negli specchi” (Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia).

Ancora una volta, continua Rosalind Krauss, Brassaï ribadisce il suo distacco dai surrealisti, in quanto nelle suo foto non c’è nulla di così surreale, come forme liquide o immagini scioccanti, ma immagini della realtà mescolate alla riflessione dello specchio, che può mostrare ciò che è visibile e ciò che non è visibile nel campo fotografico, che consente visioni del reale nel reale, come degli spazi rubati, dei riflessi, delle duplicazioni.

La locuzione francese mise en abyme (scritto anche mise en abîme) significa letteralmente “collocato nell’infinito” o “collocato nell’abisso” e indica una tecnica nella quale un’immagine contiene una piccola copia di se stessa, ripetendo la sequenza apparentemente all’infinito. Risale ad Andrè Gide che la usò per la prima volta nel suo “Diari” nel 1893. In senso meno stretto, secondo la definizione di Dallenbach, la “mise en abyme” è costituita da «ogni inserto che intrattiene una relazione di somiglianza con l’opera che lo contiene».

Brassaï, Group in a Dance Hall (1932).

Brassaï ha messo in opera questa tecnica in più di una fotografia. Questa qui riportata è una delle più famose e rappresenta delle coppie sedute ai due lati di un tavolo, in un caffè di Montmartre, colte in un momento tra la noia e il divertimento. In questa immagine la situazione che esiste nello spazio ‘reale’ è raddoppiata dal suo riflesso nello spazio virtuale dello specchio, situato all’interno del campo fotografico. Lo specchio riflette non solo i personaggi che vediamo in primo piano, ma anche degli altri non direttamente inquadrati, ampliando lo spazio della visione.
La messa en abyme mostra inoltre che le fotografie stesse sono immagini virtuali che non fanno che duplicare il mondo del reale. Anche i personaggi “reali” che vediamo nella foto, pertanto, sono né più né meno virtuali di quelli nello specchio, perché anche loro “riflessi” dallo “specchio” della macchina fotografica. In questo modo la superficie della fotografia, ponendo allo stesso livello i due gradi di realtà, “mostra” l’essenza stessa della rappresentazione fotografica, come Gumpp e Rockwell mostravano nelle loro rappresentazioni il procedimento stesso della rappresentazione pittorica.
Nel momento in cui produciamo una foto, abbiamo messo nella realtà una piccola copia di essa: la fotografia stessa è per Brassaï una mise en abyme.
Egli infatti amava ripetere: “Il surrealismo delle mie immagini non è altro che il reale reso fantastico dalla visione”. Cercavo solo di esprimere la realtà, in quanto niente è più surreale.” (Da una intervista pubblicata su Photo–Revue nel 1974).

Brassaï, Couple d’amoureux dans un café (Coppia di innamorati in un caffé), Quartier Italie, 1932.

Brassaï era un nottambulo, amava i luoghi in cui “la frontiera tra ambito pubblico e privato sfuma, dove l’intimità si mostra agli occhi di tutti”. Nella fotografia Coppia di innamorati in un piccolo caffè parigino del 1932, i protagonisti sono una donna e un uomo che si stringono in un abbraccio, in un caffè della Place d’Italie. I due specchi sono alle spalle dei due protagonisti e ne riflettono i volti in maniera disgiunta. Uno rivela il volto dell’uomo (che non si vede nella realtà perché è di spalle), l’altro quello della donna. L’immagine del bacio della coppia risulta così diviso in due immagini in un’apertura quasi simmetrica. Mentre nella foto L’armoire à glace gli specchi dell’armadio univano, collocando in spazi contigui, i due corpi lontani nella realtà, in questo caso invece, il processo di duplicazione operato dagli specchi scompone e separa ciò che nella realtà è unito.
Rosalind Krauss attribuisce a questa scomposizione dell’immagine dei significati simbolici, intendendo l’utilizzo dello specchio come mezzo per svelare i reali sentimenti nascosti nell’intimità dei personaggi ritratti, quali egoismo, narcisismo e seduzione.
Le foto di interni notturni di Brassaï sono immagini che emergono dal buio, ritagli di una realtà che nella penombra non si svela mai del tutto, ma si lascia spesso solo intuire.
Per ovviare all’esigua luminosità notturna, Brassaï fece ricorso agli specchi, che riflettono e incrementano la luce del locale, oltre a proporre una diversa percezione dell’ambiente. Inoltre consentono all’osservatore di cogliere più dimensioni di un’unica realtà, come in un quadro cubista.

Gérard Uféras, Gilles Deleuze, 1986.

Un esempio classico di mise en abyme. Si tratta della foto del filosofo parigino Gilles Deleuze scattata da un altro parigino, il fotografo Gérard Uféras.
Noto soprattutto come fotografo di moda, Uféras spazia dai reportages per il giornale Libération, a quelli all’interno dei teatri d’Opera d’Europa, fino a quello per le strade di Parigi del 2008, sui temi dell’amore e del matrimonio.
Veniamo alla foto che ritrae Deleuze.
Questo effetto di mise en abyme in senso stretto, con ripetizione della stessa immagine all’infinito, si ottiene collocando un oggetto tra due specchi posti uno di fronte all’altro.
Il filosofo francese affermava che i temi che hanno segnato il suo pensiero avevano radice nella lettura di Nietzsche. Una delle sue opere più note è infatti Nietzsche e la filosofia (1962), dove si sofferma in particolare sul concetto di infinito come eterno ritorno dell’uguale. Secondo il Zarathustra di Nietzsche, l’eternità, e quindi l’infinito, implicano la ripetizione. E cos’è la mise en abyme se non una infinita ripetizione dell’uguale?

Semplificando molto, diciamo che il fotografo, nell’atto di inquadrare, ritaglia in un istante un frammento di un infinito spazio-temporale che lo avvolge tutt’intorno. Procede quindi per esclusione, nel momento stesso in cui include nell’inquadratura, e cioè nello spazio fotografico, il suo soggetto. Il “ritaglio” nello spazio operato da una foto separa due realtà: un “campo” (ciò che sta dentro) e un “fuori campo” (ciò che rimane fuori). Attraverso le foto di Brassaï abbiamo visto che questo non è sempre vero. Ad esempio basta utilizzare uno specchio perché quel confine si faccia alquanto ambiguo, in quanto lo specchio può includere nello spazio fotografico (ma anche in quello pittorico) elementi fuori campo. Anche attraverso il processo di mise en abyme il confine tra campo e fuori campo si fa problematico. Prendiamo la foto fatta a Deleuze da Uféras: nell’immagine ci sono molti “ritagli” uno dentro l’altro (molte cornici). Al di fuori di ogni cornice (che delimita un “taglio”) non c’è un fuori campo, ma il campo stesso, e così all’infinito.

Michael Snow, Authorization, 1969, five instant silver prints (Polaroid 55), adhesive tape, mirror in metal frame.

Ora prendiamo in considerazione la foto qui in alto. L’autore è Michael Snow, un artista canadese poliedrico, regista sperimentale, musicista, artista visivo, compositore, scrittore e scultore. Quest’opera di cui vediamo la foto si intitola “Authorization”, è del 1969 ed è allestita nella sala della Galleria Nazionale del Canada, a Ottawa.
Si tratta di una sorta di autoritratto fotografico, ma non è solo questo. Innanzitutto non è una fotografia, ma un’installazione, formata da uno specchio, su cui sono incollate delle foto a sviluppo istantaneo. Snow ha sistemato la macchina fotografica davanti ad uno specchio, al centro del quale ha costruito una specie di cornice con del nastro adesivo. Ha fotografato questa parte centrale incorniciata compreso se stesso. Poi ha preso la foto e l’ha attaccata nel quadrante superiore sinistro della cornice. Ha fotografato ancora il tutto ottenendo lo specchio con la foto aggiunta. Ha continuato così fino a riempire la cornice interna. Ha rifotografato poi la cornice ormai piena e l’ha incollata sull’angolo superiore sinistro dello specchio. Si noti che la messa a fuoco delle foto non è sulla superficie dello specchio, ma sul fotografo. Il nastro adesivo e le foto già incollate sullo specchio sono sfocate. Cosa è “campo” in questo caso? Cosa è “fuori campo”? I confini tra spazio fotografico e spazio esterno sono ambigui. Si potrebbe dire, considerando le foto istantanee incollate nella cornice interna, che il fuori campo per ognuna non è qualcosa che ha un’estensione spaziale, bensì temporale, visto che tali foto sono in sequenza logica e cronologica; se poi consideriamo la cornice interna, il suo fuori campo coincide con lo stesso fuori campo dell’osservatore che in quel momento sta guardando l’opera, anche se la presenza dell’ultima foto in alto a sinistra rende ancora ambigua questa affermazione. Si potrebbe parlare di una mise en abyme a sviluppo progressivo, che coinvolge non solo lo spazio, ma anche il tempo: nell’opera sono contenute più immagini parziali di essa, che appartengono a momenti temporali diversi.
Qui come in altre opere l’autore pone l’interrogativo sul rapporto tra rappresentare e vedere. In “Authorization” il processo rappresentativo racconta se stesso, rivela puntualmente tutte le fasi in ordine cronologico della sua produzione. Inoltre quel processo ha avuto luogo non altrove, ma nel medesimo luogo che è il punto di riferimento dello spettatore stesso. E’ come se l’autore “autorizzasse” lo spettatore a entrare dentro quel processo creativo, a ricostruirlo, a vederlo dal di dentro.

Gianni Berengo Gardin, Venezia In vaporetto, 1960.

Ancora un’altra foto in cui lo specchio dilata lo spazio fotografico e la percezione, mostrando ciò che è invisibile, “fuori campo”. In questo caso non è presente uno specchio vero e proprio, ma l’effetto specchio è dato dall’oscuramento di un lato del vetro del finestrino provocato dal vestito nero dell’uomo che si vede di spalle. Sulla sua schiena si proietta nitida e perfetta l’immagine di un uomo che legge il giornale visto di fronte. Un piccolo tocco surrealista in una foto di stampo realista.
Si tratta di una delle più belle foto di Gianni Berengo Gardin, Vaporetto (o Venezia in vaporetto), tra le preferite di Henri Cartier-Bresson, che la incluse nella mostra delle duecentocinquanta fotografie più belle del Novecento. Il fotografo ha raccontato la genesi al Guardian. «Avevo trent’anni, abitavo al Lido di Venezia, e ogni mattina prendevo il vaporetto per andare a lavorare a San Marco. Portavo sempre la Leica con me, scattavo foto per mio piacere. Adoro Venezia in inverno – la nebbia e la pioggia. Questa è stata scattata una mattina d’inverno, quando tutti erano fuori per lavoro. E’ stata una pura fortuna, davvero. Stavo facendo un sacco di fotografia di architettura, e questo è stato uno scatto spontaneo: ho scattato solo una foto. Al centro c’è un riflesso nella porta a vetri del vaporetto, e dietro c’è un uomo tutto vestito di nero. Se avesse indossato il bianco la foto non avrebbe funzionato. L’uomo che guarda la fotocamera è un marinaio. Non si oppose; in quel periodo non c’era niente di simile alla privacy. Di tutti i libri di fotografia che ho pubblicato su Venezia, questa è l’immagine migliore. Segna il passaggio dal dilettante al professionista. (…) Henri Cartier- Bresson incluse questa immagine nella sua lista delle cento fotografie più importanti di tutti i tempi. Per me Cartier-Bresson era un dio. Una volta ha dedicato un libro a me con affetto e ammirazione. Il dono più grande che abbia mai ricevuto».

Alex Webb, Haiti, 1987.

Questa foto di Alex Webb non opera soltanto una dilatazione dello spazio, ma va oltre. Se le foto di Brassaï o quella di Berengo Gardin integravano “campo” e “fuori campo”, permettendo anche in alcuni casi la visione dei soggetti inquadrati da un’angolazione diversa, questa foto di Webb si gioca tutta sul “fuori campo”. Ma non un fuori campo unitario, bensì frammentato in scampoli di spazio mutilato. Più cornici per più soggetti. Il “fuori campo” di ognuna di esse costituisce il “campo” della cornice vicina, ma questa consapevolezza è il risultato di un processo razionale compiuto dalla mente dell’osservatore, che cerca di ricostruire un’unità spaziale e temporale ideale. La visione però resta frantumata, discontinua, e l’immagine appare piuttosto come un album che contiene più foto diverse. Pur essendo frammenti che la nostra mente razionalmente riconosce come parti di un’unica realtà spazio-temporale, i luoghi e i personaggi di ogni cornice restano chiusi, isolati, “intrappolati” nelle loro porzioni di spazio, come se fossero agganciati a istanti temporali diversi e indipendenti..

Pink Floyd, Ummagumma, 1969, foto della copertina.

Questa foto è per chi, come me, ha amato e continua ad amare questo gruppo che ha segnato la storia della musica del Novecento, i Pink Floyd. Questa è la copertina del loro quarto album, uno dei più sperimentali del gruppo, Ummagumma, del 1969.
Non è il mio disco preferito, lontano dai vertici di The dark side of the moon o Wish you were here, e gli stessi Pink Floyd lo giudicavano il loro album meno riuscito, ma l’accoglienza all’uscita fu molto buona, soprattutto negli Stati Uniti.
Inserisco qui la copertina perché anch’essa contiene l’effetto di mise en abyme di cui si è parlato. In realtà non è proprio la stessa foto che si ripete, in quanto in ognuna di esse le posizioni dei vari membri del gruppo sono diverse.



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