sabato 14 settembre 2019

Jackson Pollock. Il quadro come traccia del corpo in azione.

Jackson Pollock al lavoro nel suo studio, 1950. Foto: Hans Namuth

Nell’opera di Jackson Pollock, rappresentante più insigne dell’Espressionismo astratto, il corpo non è oggetto di rappresentazione ma è ‘corpo in atto’. L’opera pittorica finale non reca altro che la ‘traccia’ di quell’azione eseguita dal corpo. Per riprendere la tripartizione peirciana del segno, si potrebbe dire che le tele di Pollock non appartengono all’ambito dell’icona, ma a quello dell’indice. Non contengono, infatti, le immagini riconoscibili di oggetti o individui, ma le tracce lasciate dai gesti dell'artista in movimento intorno alla superficie del quadro.
Si parla, a questo proposito, di action painting, per significare l'arte come dimensione processuale e non come opera finita. Si tratta di una pittura che rifiuta la verticalità e la stabilità del cavalletto per affidare piuttosto l’esecuzione all'ampia gestualità del braccio ed al movimento dell'artista attorno alla tela stesa sul pavimento. Pollock compie un passo decisivo in direzione dell’abbandono della funzione narrativa del segno: il dipinto non viene alla luce come rappresentazione, ma soprattutto come “evento”, attraverso la liberazione di energie interiori e irrazionali che fanno irrompere sulla superficie pittorica l'interiorità e la volontà di esistere dell'artista. L’autore prende possesso della tela con una sequenza di gesti che superano la mediazione del pennello per preservare l’immediatezza dell’impulso creativo: pennellate energiche, spazzolate di vernice, spruzzi o gocciolature del colore direttamente sulla superficie del quadro (dripping), in un movimento ondulato e ritmico, che è stato paragonato alle antiche danze tribali dei nativi americani.

Jackson Pollock, Blue poles (1952)

Non c’è alcun disegno preventivo, alcuna idea prefissata alla base dell’opera. Il segno aggrovigliato e ondeggiante viene fuori nel corso di una sorta di danza ‘sciamanica’, di una gestualità coreografica e liberatoria intorno allo spazio ‘sacro’ della tela. La tela è il ‘territorio del pittore’ e il dipinto finale non è altro che la manifestazione del campo di battaglia in cui l’artista ha ingaggiato la propria personale lotta con la materia e con se stesso. La pittura riveste una dimensione processuale: non è più semplice produzione di immagini, ma diviene testimonianza di un’azione performativa, di un evento che è un corpo a corpo tra l’artista e la matericità del colore e tra l’artista e se stesso, la propria corporeità, la propria interiorità e l’energia viscerale che preme per fuoriuscire. L’opera viene percepita non come produzione dell’atto creativo del pensiero e dell’ispirazione soggettiva, ma come il luogo in cui la corporeità dell’opera e quella dell’autore si fondono insieme.
La produzione di Pollock soddisfa la definizione di pittura all over, in cui lo spazio pittorico è privo di ogni gerarchia; gli strati di colore ricoprono la superficie della tela nella sua totalità, formando un disegno labirintico in cui è impossibile focalizzare un centro, un inizio o una fine, un sopra o un sotto o una qualsivoglia unità di concezione dell’immagine. Si tratta di pittura né figurativa, né propriamente astratta (nel senso di un sistema ragionato di figure geometriche), né del dominio del disordine puro, giacché la percezione è comunque in grado di cogliervi delle forme organiche, sebbene aggrovigliate ed instabili.

Jackson Pollock, “Convergence”, 1952, Albright-Knox Art Gallery.

La pittura è la traccia che trattiene al suo interno il processo creativo, nella forma di impronta di un atto motorio, una sorta di sigillo autoriale. Il critico statunitense Harold Rosenberg riconosce al gesto del pittore d’azione la volontà di negare la realtà che lo circonda per sostituire, attraverso una battaglia personale, il mondo esterno con il proprio mondo, un mondo nuovo, inedito, che pertanto anticipa possibilità future. Un mondo creato dal movimento del corpo dell’artista che esprime se stesso, che si oggettiva nella pittura tramite il gesto. Quest’ultimo non trova impedimento nella materia, né nel dovere di produrre forme riconoscibili, ma può estrinsecarsi liberamente senza altri limiti che non siano la forza di gravità che attira il colore al suolo e il limite spaziale della tela (anche se quest’ultimo viene di fatto oltrepassato). Il dipinto è, perciò, una manifestazione di energia e di libertà. Il paradosso, semmai – e questa è una mia osservazione personale – è che quello lasciato sulla tela da questo gesto libero è un segno costretto, aggrovigliato, labirintico, il quale, per quanto non trovi ostacolo in alcuna cornice, impedisce tuttavia alla percezione dell’osservatore di trovare una via di uscita. Un segno che si avvolge su se stesso e che estrinseca una drammatica incongruenza: il gesto di libertà che l’ha prodotto proviene da un’interiorità magmatica, intricata, soggetta al dominio delle pulsioni e delle forze irrazionali dell’inconscio. La linea è stata finalmente esonerata dalla costrizione di descrivere i contorni e delimitare le forme, ma questa linea liberata può solo tornare al caos primigenio, in cui l’uomo forse non ha più un posto.


Jackson Pollock al lavoro nel suo studio, 1950. Foto: Hans Namuth

E tuttavia l’arte di Pollock, alla fine, quella figura scacciata per sempre dalla porta la fa ritornare in qualche modo dalla finestra. Di quale artista, infatti – provate a fare una ricerca in rete oppure a sfogliare dei manuali di storia dell’arte – è così insistente e diffusa l’esibizione di fotografie o video in cui è ripreso all’opera? In cui soprattutto il suo corpo si muove e si protende sulla tela, fino ad entrarci dentro, nell’atto di far gocciolare o lanciare il colore? E’ il corpo in azione di Pollock la figura assente e tuttavia immancabile nelle sue tele, la forma che il segno astratto ripudia e la fruizione mediatica reintegra, il fantasma che non possiamo far finta di non vedere.

Questo articolo è corredato da alcune delle bellissime fotografie che Hans Namuth scattò a Pollock nel 1950, diventate un documento decisivo, una dimostrazione dell’Action Painting.

Jackson Pollock al lavoro nel suo studio, 1950. Foto: Hans Namuth


A questo link, invece, il video realizzato da Namuth dal titolo Jackson Pollock 51 (il 51 è l'abbreviazione di 1951. Pare che questo video esponesse l'artista a una tale pressione emotiva da indurlo a riprendere a bere, senza purtroppo riuscire più a smettere, fino al tragico epilogo):




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