All’indomani di quella catastrofe che fu la Seconda Guerra Mondiale, al centro della riflessione torna ad esserci l’uomo. Sono questi gli anni in cui prende vita la fotografia cosiddetta “umanista”- quella di Eugene Smith, Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, Robert Doisneau -, che vuole esplorare l’essere umano nella sua quotidianità, nei suoi modi di stare al mondo, con sguardo obiettivo, senza pose e senza artifici, cercando il comune denominatore dell’umanità.
Il manifesto della fotografia umanista è rappresentato da una mostra epocale, organizzata dal fotografo americano Edward Steichen ed inaugurata al MoMa di New York il 26 gennaio 1955. Si tratta di The Family of Man, un progetto grandioso costato tre anni di dura preparazione: 503 fotografie provenienti da 68 diversi paesi, scelte da un gruppo di collaboratori guidati dallo stesso Steichen tra circa due milioni di immagini inviate o trovate in giro per il mondo.
Lo scopo della mostra è dimostrare, dopo gli orrori del conflitto passato e nel clima di piena guerra fredda, che “c’è un solo uomo al mondo e il suo nome è tutti gli uomini”. Così è scritto su uno dei pannelli, appesi alle pareti e al soffitto, che formano l’esposizione, sui quali sono incollate le stampe, in diversi formati e senza cornice, con inseriti testi ricavati dalla Bibbia, dall’epica orientale e da Omero, da Platone e da Joyce. L’idea, insomma, è quella di un poema collettivo in immagini, per celebrare la pace e riaffermare l’umanità come un’unica grande famiglia.
Il successo sarà travolgente e The Family of Man si rivelerà la più grande manifestazione espositiva nella storia della fotografia. Agli scatti dei grandi professionisti come Robert Capa, Eugene Smith, Dorothea Lange, August Sander, Garry Winogrand, Henri Cartier-Bresson sono affiancate fotografie prodotte da sconosciuti amatori di ogni parte del mondo, che hanno risposto con entusiasmo all’appello di Steichen. Diverse provengono da un’altra celeberrima raccolta, quella realizzata negli U.S.A. a cura della Farm Security Administration negli anni della Grande Depressione.
Il progetto della mostra vuole esprimere le particolarità e, nello stesso tempo, le analogie esistenti tra i diversi popoli della Terra. Le fotografie sono suddivise in capitoli come l’amore, il matrimonio, la nascita, la cura dei figli, il lavoro, la morte e tutti i temi che compongono le fasi della vita, nelle quali l'uomo è presentato in armonia con l'ambiente circostante. Steichen vuole, così, testimoniare visivamente l’universalità dell’esperienza umana e la capacità di coglierla da parte di un linguaggio altrettanto universale come la fotografia, che qui trova una delle massime espressioni della sua vocazione sociale. Tutte le immagini sono asservite alla comunicazione di questo messaggio di fraternità, di speranza, di condivisione di un medesimo destino. L’esposizione, in sostanza, è una creatura del curatore ed appartiene a lui più che a tutti i fotografi che vi hanno preso parte. Scrive Steichen nella sua autobiografia: “La creazione di una mostra di questo tipo somiglia di più alla produzione di un’opera teatrale o di un romanzo, o persino di un saggio filosofico che alla realizzazione di una mostra di singole opere d’arte”.
The Family of Man ha dalla sua parte un’indiscussa coerenza ideologica e un allestimento scenografico di forte impatto emotivo, in grado di favorire un’esperienza sensoriale immersiva, fortemente innovativa per quell’epoca. Il successo è straordinario: l’esposizione diventa itinerante e raggiunge un afflusso di visitatori che arriva a nove milioni. Nel 1964, alla fine del suo tour mondiale, la versione itinerante viene donata dal governo americano al Granducato di Lussemburgo, paese di origine di Steichen, che allestisce la collezione, in modo permanente, nelle sale del castello di Clervaux, dove si trova tuttora. Nel 2004 l’UNESCO l’ha persino inserita nel Registro della Memoria del Mondo.
Questo “album di famiglia a dimensione planetaria” (http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2014/07/18/la-famiglia-delluomo/), questa epopea visiva di una stirpe che è l’umanità intera, questo devoto e appassionato atto di fede nell’uomo costituisce uno dei progetti più ambiziosi mai realizzati con la fotografia. L’esposizione lo rende un santuario eretto alla parte buona, vitale, della comunità umana.
La funzione ideologica della fotografia, in questa esposizione, supera di gran lunga quella documentale e storiografica. Anche la guerra, ad esempio, è un tema trattato nella mostra, ma non è presente neanche una fotografia che testimoni la Shoah. C’è solo un’immagine del ghetto di Varsavia, scattata da un anonimo. Lo scatto che mostra un afroamericano incatenato ad un albero e morto in seguito a un linciaggio, viene ritirata dalla mostra e non compare nel catalogo. La volontà è quella di superare ogni frattura e di voltare la pagina della storia, di osservare il mondo dall’alto, al di là dei confini e delle separazioni, di guardarlo, insomma, con l’occhio di Dio.
Le reazioni critiche di alcuni intellettuali non tardano a farsi sentire. Ando Gilardi definisce la mostra “la più grande mistificazione realizzata per mezzo dell’immagine ottica”, un’operazione prima di tutto politica, favorita dal governo americano a fini propagandistici (Gilardi A., Storia sociale della fotografia, 2000). Roland Barthes, nella sua raccolta Miti d’oggi, inserisce un breve testo dal titolo “La grande famiglia degli uomini”, in cui stigmatizza proprio il carattere ideologico dell’esposizione, fondata su una vecchissima distorsione che consiste “nel collocare la natura al fondo della Storia”. Ciò che emerge, infatti, secondo il grande semiologo, è il rinvio a quel “mito ambiguo della «comunità» umana”, che ripesca una matrice comune in un plafond naturale e che di colpo mette da parte le diversità di ordine culturale. “Tutto – scrive - , contenuto e fotogenia delle immagini, discorso che le giustifica, mira a sopprimere il peso determinante della Storia: siamo trattenuti alla superficie di una identità, impediti dalla stessa sentimentalità a penetrare in quella zona ulteriore dei comportamenti umani dove l’alienazione storica introduce quelle «differenze» che qui chiameremo molto semplicemente «ingiustizie»”.
Per Barthes, la mistificazione umanista pretende che, grattando via la Storia degli uomini, che produce le pluralità culturali, resti la Natura, come sostrato comune a tutti gli abitanti della Terra. Quello che Barthes cerca di salvaguardare è, invece, una posizione progressista, la quale sa benissimo come anche quello di Natura sia un concetto storico. E a questo punto il semiologo francese fa un’osservazione salace sulla missione della fotografia: “La nascita, la morte? Sì, sono fatti di natura, fatti universali. Ma se si toglie loro la Storia, non c’è più niente da dire, un commento diventa puramente tautologico: lo scacco della fotografia mi sembra qui flagrante: ridire la morte o la nascita non insegna letteralmente niente. Perché questi fatti naturali accedano a un linguaggio veritiero occorre inserirli in un ordine del sapere, cioè postulare che si possa trasformarli, sottomettere appunto la loro naturalità alla nostra critica di uomini. Perché, per universali che siano, essi sono i segni di una scrittura storica” (Miti d’oggi, pp. 173-174).
Nelle intenzioni di Steichen, la mostra intendeva dimostrare come la fotografia fosse “a dynamic process of giving form to ideas and of explaining man to man”, ma Barthes mette radicalmente in discussione questo assunto: The Family of Man rappresenta lo scacco della fotografia e della sua capacità di spiegare, perché si ferma alle apparenze. Che utilità ha, ad esempio, impiegare la fotografia per fornire una raffigurazione estetica dell’atto di lavorare, quando il vero oggetto interessante sarebbe semmai indagare il lavoro come fatto storico, “nei suoi modi, moventi, fini e profitti”, senza “confondere in una identità puramente gestuale l’operaio coloniale con l’operaio occidentale”?
In chiusura, Barthes invita a riflettere sui rischi di quello che viene definito “adamismo”, un’astuta maschera ideologica che presenta in una veste lirica una realtà definita universale e immutabile (e che è invece storicamente determinata), che eternizza “i gesti dell’uomo solo per meglio disinnescarli” (ivi, p. 174).
Ancora un’accusa di negazione della Storia è quella rivolta alla mostra dall’americana Susan Sontag, secondo la quale l’esposizione appiattisce le vicende di individui diversi e distanti, mescolandoli tutti insieme, come se si trattasse sempre e solo di una stessa persona, ovunque uguale (Sontag S., Davanti al dolore degli altri, 2003, p. 29).
L’esposizione curata da Steichen propone senza dubbio una visione incredibilmente conciliante e ordinata del mondo, che cerca di comporre, nel nome dell’unità, le complessità e le contraddizioni della realtà umana.
Impossibile negare il ruolo storico avuto da The Family of Man e anche di aver giocato una parte considerevole in quella guerra, forse soprattutto, culturale che fu la contrapposizione tra il blocco sovietico e quello dell’Occidente democratico, della cui ideologia paternalista Steichen forniva un distillato visuale. Ora la mostra è divenuta un oggetto museale, ben lontano dalla sua vocazione originaria, volta alla riconciliazione in nome della fraternità universale di tutti gli uomini della Terra.
The Family of Man andrebbe, oggi, piuttosto avvicinata come oggetto storico da interrogare, per capire cosa ha da dire ai nostri tempi, al di là dei vari pregiudizi ideologici. L’ideologia, d’altra parte, è anch’essa un oggetto storico, destinata dunque a mutare o scomparire, così come storici sono anche tutti i discorsi volti a smascherarla. La sfida potrebbe essere quella di cercare di andare oltre gli implacabili, ma storicamente fondati, giudizi di Gilardi, Barthes e Sontag per rintracciare, se possibile, un messaggio ancora valido per noi uomini del XXI secolo, per noi cittadini che già da decenni viviamo nel ‘grande villaggio comune’ del mondo globalizzato e che tuttavia siamo quotidianamente alle prese con pesanti rigurgiti di nazionalismo e di razzismo, di fronte ai quali l’appello più frequente è proprio quello all’Umanità. In reazione a certe manifestazioni di intolleranza, infatti, la risposta più comune, a livello planetario, è una frase di due parole, che riassume l’imperativo morale dei nostri tempi: “restiamo umani”.
Il mondo che traspare dall’esposizione di Steichen è profondamente marcato dai valori di una comunità ancora di tipo rurale, ben lontano dai problemi generati dalla globalizzazione, dalle società multiculturali e dai conflitti che essere generano. Conflitti che nascono dal confronto con l’altro, il diverso, dove l’altro e il diverso, tuttavia, non sono il popolo che vive a mille miglia dall’Europa, ma dall’altra parte della strada. The Family of Man potrebbe, ancor oggi, offrire un dono prezioso, dall’alto della sua autorevolezza storica: il richiamo alla sacralità del mistero umano che ci accomuna, perché tutti quanti nasciamo, cresciamo, lottiamo per migliorare la nostra vita e infine moriamo. Gli intellettuali come Barthes e Sontag vivevano in un mondo in cui i valori umani basilari, quelli dell’uguale dignità umana di tutti, erano, quanto meno a livello teorico, acquisiti e scontati, riconquistati dopo l’orrore delle persecuzioni razziali e della Shoah. Oggi, invece, sono ridiventati degli assunti da difendere e riconfermare. Perché quel richiamo all’Umanità che ieri era considerato una ‘sentimentale ingenuità’ oggi si è trasformato in utopia che si allontana inesorabilmente dalla Storia.
Questa fotografia venne rimossa dalla mostra originaria al MoMa e non compare nel catalogo. |
A questo link, il catalogo originale della mostra: https://letiziacortini2.files.wordpress.com/2016/12/the-family-of-man-1955.pdf
davvero ben fatto. Chiaro, sintetico , onesto e problematizzante. Grazie, lo utilizzerò come partenza per una lezione a scuola.
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