Nella foto: Internati di Buchenwald |
L'immagine della tragedia limita l'immaginazione e il pensiero simbolico oppure li stimola?
L'immagine depotenzia e addolcisce l'orrore della storia o è capace di mostrarlo mantenendone intatta la straziante potenza?
La Shoah, la catastrofe che, per Richard Rubenstein, costituisce la prova della non esistenza di Dio, è uno spartiacque nella storia del Novecento. Niente, dopo, è stato più come prima.
«Morirono come bestiame, come materia, come cose che non avevano più né corpo né anima, nemmeno un volto su cui la morte potesse apporre il suo sigillo», scriveva Hannah Arendt.
L'annientamento su base scientifica e industriale di milioni di persone aveva significato l'irruzione di immagini totalmente inedite, tanto da portare il filosofo Adorno a chiedersi come sarebbe stata ancora possibile un’arte dopo la Shoah.
Come si poteva poter continuare a rappresentare l’uomo, il suo corpo, dopo che l’uomo era stato ridotto a mero corpo, prosciugato, straziato, accatastato, ridotto in carcassa o in cenere? Come si poteva rappresentare l’uomo, che era stato al centro dell’arte per cinque secoli in quanto immagine di Dio, dopo che anche Dio era morto nei campi di sterminio?
Un orrore insopportabile aveva preso forma nel cuore del Novecento, un orrore che si manifestava soprattutto come strazio del corpo.
Come scrive Amery (“Intellettuale a Auschwitz”), nei lager l’individuo, per poter essere annientato completamente, era stato ridotto alla sua nuda corporeità. Per questo il corpo diventerà un motivo centrale nelle testimonianze della Shoah. L’esperienza del lager, infatti, attraverso il numero tatuato sul braccio, è profondamente incisa nel corpo del superstite, trasformandolo in luogo che custodisce e trasmette la memoria, la quale si riattualizza ogni volta in cui quel numero viene visto e mostrato. Il corpo dei detenuti, quando i campi verranno liberati, sarà, con la sua magrezza e i segni lasciati nella carne, il testimone principale dell’orrore che lì era stato consumato. La disumanizzazione che era avvenuta nel lager verrà visualizzata attraverso il corpo. E le immagini che arriveranno dai campi liberati mostreranno qualcosa di totalmente inedito: dei corpi come non erano mai stati rappresentati, neanche dalla guerra e dalle pestilenze.
Delle fotografie che documentano la Shoah, la maggior parte fu realizzata al momento della liberazione dei campi. Alcune scattate da famosi fotoreporter, come Lee Miller, Margaret Bourke-White, George Rodger, Eric Schwab, Germaine Krull, ecc., al seguito delle forze alleate, altre da soldati degli eserciti francese, inglese, americano, sovietico giunti nei lager. Se pensiamo ad esse, probabilmente le immagini che per prime si fanno strada nella nostra memoria sono quelle delle cataste di corpi nudi e scheletriti, quelle di corpi che si sono ristretti all’interno delle misere divise a righe, i volti emaciati che si sollevano dai tavolacci dei letti a castello, i grandi occhi che ci guardano da dietro un filo spinato. Forse dopo ricorderemo i forni, le scritte all’ingresso. Ma il primo ricordo riguarderà dei corpi. Perché troppo violati, troppo negati, troppo ridotti a non-corpi.
Questa è l’iconografia dell’infamia che si è sedimentata nella nostra memoria. Talvolta talmente insostenibile da spingere molti a interrogarsi e a dubitare della loro "mostrabilità", perché l’orrore della Shoah davvero sembra incarnare il concetto di ciò che è “indicibile”, “irrappresentabile”.
Emblematiche sono le riflessioni di Georges Didi-Huberman sulla rappresentazione fotografica dell’orrore nelle immagini dei campi di sterminio nazisti (contenute in “Immagini malgrado tutto”). La domanda di partenza è la seguente: è lecito offrire una rappresentazione della Shoah, o si tratta di un limite, di qualcosa di non raffigurabile? In occasione della mostra fotografica “Mémoire des camps, photographies des camps de concentration et d’extermination nazis (1933-1999)”, tenutasi a Parigi nel 2001, organizzata tra gli altri da Didi-Huberman e dallo storico della fotografia Clément Cheroux, si sviluppò un acceso dibattito tra due fronti: quello degli “iconoclasti”, che ruotavano intorno alla storica rivista «Les Temps Modernes», sostenitori della irrappresentabilità dell’orrore più grande del Novecento, e quello degli “iconofili”, sostenuto in particolare dallo stesso Didi-Huberman, le cui considerazioni convoglieranno nel libro citato.
Prigionieri detenuti nel lagher di Ebensee in Austria |
La mostra raccoglieva alcuni scatti realizzati dagli alleati nella fase di liberazione dei campi e quattro fotografie, scattate di nascosto nel 1944 da due ebrei, membri del Sonderkommando, all’interno di Auschwitz, poi fatte giungere alla resistenza polacca. L'operazione era un atto di resistenza per antonomasia, perché finalizzata a impedire la realizzazione dello scopo ultimo dell'ingranaggio nazista: l'eliminazione di ogni traccia della stessa operazione di eliminazione di un popolo. E’ proprio su queste quattro immagini che il filosofo si sofferma, sottolineando come quegli uomini che le realizzarono, rischiando la vita e consapevoli che comunque in quel campo sarebbero morti di lì a poco, avevano avuto come fine quello di consegnare al mondo una testimonianza dell’orrore, perché coscienti che i nazisti avrebbero eliminato tutte le prove e il mondo non avrebbe mai potuto credere al racconto orale di quell’abominio. La fotografia rappresentava l’unica speranza di produrre una traccia oggettiva, visiva, quella prova che nessun racconto avrebbe potuto dare. Auschwitz e lo sterminio, dunque, conclude Didi-Huberman, devono essere raffigurati e devono essere visti nel presente: per quanto ripugnante possa apparire, è un compito da affrontare e di cui prendersi carico, anche per rispetto agli autori di quegli scatti.
Il flosofo considera ancora l’immagine uno strumento di conoscenza, un documento; i suoi avversari, invece, interpretano quelle fotografie come una limitazione all’immaginazione, che costringono il fruitore a ridurre la sua percezione di Auschwitz a quanto mostrato da quelle immagini, alla loro superficiale esteriorità, impedendogli di mettere in atto la capacità simbolica del pensiero e di ricostruire dentro di sé, attraverso la produzione di immagini interiori, il vero orrore dei lager nazisti, che travalica di gran lunga i limiti di ogni possibile raffigurazione.
Ciò che è in gioco sono il senso e l’autorevolezza dell’immagine. Nel 1998 Gérard Wajcman, appartenente alla schiera degli “iconoclasti”, aveva affermato che l’oggetto del Novecento era stato l’assenza, incarnata nella Ruota di bicicletta di Duchamp e nel Quadrato nero su fondo bianco di Malevich, opere che non rappresentano nulla, ma presentano solo se stesse. Questo concetto, per l’autore, trova la massima incarnazione proprio in Auschwitz, inteso come micidiale produttore di assenza. E il bellissimo film-documentario “Shoah” (1985) di Claude Lanzmann, regista e direttore di «Les Temps Modernes», riesce a raccontare la Shoah facendo emergere come protagonista assoluta proprio questa assenza. Il film non documenta o commemora un evento passato, non è cioè un film-monumento, ma un film-evento, che si svolge sotto il nostro sguardo, ora, adesso. E’ l’atto che prende il posto della contemplazione. Il film esprime con forza l’idea che, nel secolo dell’immagine, l’evento più traumatico rimane al di fuori di ogni possibile figurazione.
L’immagine non esaurisce la Shoah; è impossibilitata a farlo. Il documento non fa che irrigidire la multiformità dello sterminio in figure delimitate, che passivamente traiamo dalle fotografie che ci sono pervenute. Il male ritratto in immagine si addolcisce, diventa meno cruento, diventa un doppio, un riflesso allo specchio ben più debole del male originale, perché l’immagine è come lo scudo di Perseo, che attenua il potere pietrificante dello sguardo di Medusa.
Per raccontare Auschwitz, invece, secondo Wajcman, ci si deve distaccare dal vincolo dell’immagine, cioè della rappresentazione. La fotografia, che costringe i corpi in una figura sclerotizzata, non fa altro che perpetuare il delitto commesso dai nazisti contro l’immagine umana.
Di fronte a Claude Lanzmann, che continua ad affermare che nessuna immagine è in grado di raccontare la storia della barbarie dei campi di sterminio nazisti, Didi-Huberman conclude il suo testo di “autodifesa”, “Immagini malgrado tutto”, con una dichiarazione di ostinata credenza nel potere rivelatorio dell’immagine: «L’immagine, non più della storia, non resuscita nulla. Ma essa “redime”: essa salva un sapere, essa racconta malgrado tutto, malgrado il poco che può, la memoria dei tempi».
(di Didi-Huberman, nel 2014 è uscito “Scorze”, di cui potete leggere la presentazione qui, che mette in atto un rapporto evocativo tra la fotografia e la Shoah, per riattualizzarne la memoria attraverso nuove forme di rappresentazione:
Per approfondire si consiglia questo saggio di I. Perniola: https://books.openedition.org/edizionikaplan/195?lang=it
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