martedì 30 luglio 2019

L’immagine dell'osceno. Risveglio etico o anestetizzazione delle coscienze?

James Nachtwey, Genocidio in Ruanda, 1994.

All’interno della tragedia attica, gli episodi cruenti come l'omicidio e la morte del personaggio non venivano mai messi in scena. Essi venivano raccontati, ma non mostrati, perché lo sprofondamento nell’orrore avrebbe determinato un fallimento del dispositivo catartico della rappresentazione. Carmelo Bene inventerà, a questo proposito, la falsa etimologia del termine “osceno” come “ciò che deve rimanere fuori dalla scena”, che è proibito da vedere, che deve sottrarsi alla rappresentabilità.
Nel 1979, al Salone Internazionale Cine Foto Ottica e Audiovisivi (Sicof) di Milano, venne diffuso da Foto/gram un bollettino che riportava le parole di Ando Gilardi e che, in certo qual modo, dettava dei criteri deontologici su ciò che doveva “rimanere fuori dalla scena”, su ciò che doveva essere preservato dalla visibilità:
«Non fotografare gli straccioni, i senza lavoro, gli affamati. Non fotografare le prostitute, i mendicanti sui gradini delle chiese, i pensionati sulle panchine solitarie che aspettano la morte come un treno nella notte. Non fotografare i negri umiliati, i giovani vittime della droga, gli alcolizzati che dormono i loro orribili sogni. La società gli ha già preso tutto, non prendergli anche la fotografia. Non fotografare chi ha le manette ai polsi, quelli messi con le spalle al muro, quelli con le braccia alzate, perché non possono respingerti. Non fotografare il suicida, l'omicida e la sua vittima. Non fotografare l'imputato dietro le sbarre, chi entra o esce di prigione, il condannato che va verso il patibolo. Hanno già sopportato la condanna, non aggiungere la tua. Non fotografare il malato di mente, il paralitico, i gobbi e gli storpi. Lascia in pace chi arranca con le stampelle e chi si ostina a salutare militarmente con l'eroico moncherino. Non ritrarre un uomo, solo perché la sua testa è troppo grossa, o troppo piccola, o in qualche modo deforme. Non perseguitare con il flash la ragazza sfigurata dall'incidente, la vecchia mascherata dalle rughe, l'attrice imbruttita dal tempo. Per loro gli specchi sono un incubo, non aggiungervi le tue fotografie. Non fotografare gli annegati, i corpi carbonizzati, gli schiantati dai sismi, i dilaniati dalle esplosioni: non renderti responsabile della loro ultima immagine che li farebbe inorridire se ancora potessero vederla. […]».
Come si può dedurre dalle raccomandazioni qui esposte, l’aura dell’irrappresentabilità, del tabù visivo, è costruita, in ultima analisi, intorno al corpo del soggetto che si trova in una condizione di sofferenza o di grave disagio, la cui esposizione allo sguardo altrui sarebbe lesiva della sua dignità. E’ il corpo l’oggetto che concentra l’esperienza dell’osceno, vale a dire di ciò che deve rimanere fuori dalla scena e che, riprodotto in immagine e offerto ad un pubblico, significherebbe la violazione e il degrado della persona. L’osceno è qualcosa che pertiene alla sfera del visibile e si manifesta quando qualcuno si esibisce o viene esibito allo sguardo altrui. Esso è deprecabile non perché impedisce l’esperienza catartica, ma perché offende la dignità della persona in quanto la sprofonda temporaneamente nel regno “inferiore” del biologico, riducendola al solo elemento corporeo e anatomico. Il soggetto viene reificato, esibito come se fosse soltanto un corpo, un oggetto usabile, senza alcun rispetto per la sua singolarità e complessità.
La fotografia dovrebbe arretrare di fronte al paralitico, allo storpio, al deforme, allo sfigurato, alla vecchia con le rughe, a colui che ha subito un incidente o è stato vittima di una qualche violenza, e si potrebbero aggiungere tutti i tipi di tragedie e di violenze in cui sono coinvolte delle persone caratterizzate dalla condizione “extra-ordinaria” del loro corpo, per proteggerle dallo sguardo di uno spettatore che si suppone non tanto capace di empatia e di partecipazione quanto piuttosto di curiosità voyeuristica o superficiale sentimentalismo. E per evitare alla fotografia l’onta di voler speculare sulle disgrazie altrui e di ridurre la sofferenza a spettacolo e a oggetto estetico.
L’interrogativo che da decenni anima il dibattito su questo tipo di fotografie è il seguente: la diffusione di immagini relative a eventi tragici produce una presa di coscienza individuale e collettiva o piuttosto un’anestetizzazione della percezione e un annichilimento morale?
Secondo alcuni, come Baudrillard, la moderna società dello spettacolo, con la sua smania di rendere, attraverso i media, tutto “trasparente” e accessibile alla vista, mette in scena l’osceno, trasformando la morte, la sofferenza, la tragicità dell’esistenza umana in dei prodotti estetici, privati di ogni valore morale e simbolico, confinati a una fruizione superficiale e perciò incapaci di aprire uno spazio di pensiero critico o di suscitare un reale senso di indignazione e di riflessione collettiva. Le scene che sui media ritraggono eventi drammatici sollecitano una fruizione prevalentemente estetica ed emotiva, che inibisce la modalità etica; esse sono costruite come dei prodotti di consumo mediale, finalizzati a incentivare gli spettatori a guardare, stimolando un pubblico anonimo a una sorta di voyeurismo fine a se stesso, come se gli eventi rappresentati non lo riguardassero, non lo chiamassero mai davvero in causa.
L’ossessione di rendere tutto visibile e fruibile provoca soprattutto un progressivo impoverimento simbolico dello sguardo dei soggetti. Se la realtà si riduce a ciò che visibile, cioè a ciò che è dato nell’immagine, gradatamente si diventa incapaci di concepire altri scenari possibili, cioè di andare oltre la mera datità fattuale dell’immagine. “Nell’immaginario mediatico dominante tutto è quello che è, non ha un altrove, esiste solo per essere divorato, consumato, offeso, svilito. Le immagini divengono spettacolari contenitori senza contenuto, involucri vuoti, simulacri, ricettacoli di sensazioni. L’indifferenza al dolore reale sottesa a questa modalità di fruizione è il sintomo più evidente di una crisi del senso, del mistero, della percezione di un destino condiviso.” (A. Ferrante, http://www.metisjournal.it/metis/anno-v-numero-2-122015-la-spettacolarizzazione-del-tragico/154-saggi/774-loscenita-dellimmaginario-mediatico-riflessioni-critiche-e-contromisure-pedagogiche.html).

Anche Barthes, in “Miti d’oggi”, metteva in dubbio l’efficacia delle foto-shock; esse perdono il valore di scandalo, in quanto rappresentano il passato, cioè qualcosa che è già accaduto e che è mediato dal racconto del fotografo-testimone, e ci spingono, pertanto, all’acquiescenza e all’accettazione. Ugualmente scettico si mostra John Berger che, nel suo “Fotografie d’agonia” (in Sul guardare, 2009) rileva come allo shock iniziale subentri ben presto un senso di inadeguatezza morale, che potrà essere superato dalla rimozione o da un qualche gesto di penitenza o beneficenza. La foto perde così ogni valenza politica per trasformarsi in esempio della condizione umana in generale, in un’accusa contro tutti e contro nessuno.
Nel suo “Sulla fotografia”, Susan Sontag ci ha lasciato delle pagine memorabili su questo tema, ricordando lo sconvolgimento che da piccola le avevano procurato le immagini dei lager nazisti di Bergen-Belsen e di Dachau. Un orrore che, tuttavia, segna un limite:

“Vale per il male la stessa legge che si applica alla pornografia. Il trauma delle atrocità fotografate svanisce vedendole ripetutamente, come la sorpresa e lo sconcerto che proviamo assistendo per la prima volta a un film pornografico si attenuano fino a sparire se se ne vanno a vedere altri. [...] L'enorme catalogo fotografico della miseria e dell'ingiustizia nel mondo ha dato a tutti una certa consuetudine con l'atrocità, facendo apparire più normale l'orribile, rendendolo familiare, remoto («è soltanto una fotografia»), inevitabile. Ai tempi delle prime fotografie dei Lager nazisti, in quelle immagini non c'era niente di banale. Ma dopo trent'anni si è forse arrivati a un punto di saturazione. In questi ultimi decenni, la fotografia «impegnata» ha contribuito ad addormentare le coscienze almeno quanto a destarle. Il contenuto etico delle fotografie è fragile.»
E ancora poco prima:
“Una cosa è soffrire, un’altra vivere con le emozioni fotografate della sofferenza, che non rafforzano necessariamente la coscienza o la capacità di avere compassione”. Anzi “le immagini paralizzano, le immagini anestetizzano”, producono assuefazione alla violenza. La sovraesposizione dell’immagine finisce col renderla meno reale, col trasformarla in oggetto di consumo. Nella pagina precedente, Sontag chiarisce brevemente un concetto quanto mai attuale:
“Ciò che determina la possibilità di un effetto morale delle fotografie è l’esistenza di una pertinente coscienza politica. Mancando questa, le fotografie del banco da macellaio della storia potranno essere viste come immagini irreali o come un deprimente colpo basso”.
La valenza etica delle immagini, pertanto, non nasce dalla loro capacità di scuotere le coscienze, ma dalla predisposizione del pubblico cui sono offerte di lasciarsi scuotere da esse. Il senso morale precede la loro fruizione, non sgorga da esse. Solo uno sguardo già politico è in grado di guardare veramente ciò che vede.
Eppure la stessa Sontag ha di recente (Davanti al dolore degli altri) riconosciuto, nella visione di fotografie di atrocità, l’emergenza di una valenza etica, assumendo una posizione ben lontana da quel richiamo all’ecologia delle immagini avanzato trent’anni prima. In questo testo la studiosa conclude che non è la quantità delle immagini che conduce lo sguardo ad assuefarsi a ciò che viene mostrato, ma “è la passività che ottunde i sentimenti”.  Le immagini che rappresentano le atrocità, «il dolore degli altri», possono anestetizzarci, certo, ma possono anche fare qualcos’altro: ossessionarci, spingerci a leggere dentro per capire il senso di quel testo, stimolare il pensiero.
La fotografia serve non se ci fa commuovere e nemmeno se suscita compassione, ma se fornisce “una scintilla iniziale”, se interroga la nostra coscienza su ciò che accade, sul perché e su chi lo mette in essere, se apre uno spazio laico di riflessione e di pensiero critico. Soffermandosi sulle immagini che hanno segnato il XX secolo, dalla guerra civile spagnola fino all’11 settembre 2001, Sontag rileva come esse abbiano influenzato la nostra percezione di quanto accade, formano le opinioni comuni, inducendo a contrastare i conflitti bellici o a sostenerli.
La fotografia in apertura è di James Nachtwey, scattata nel 1994 in Ruanda, teatro di uno dei più sanguinosi genocidi della storia. Ritrae il volto di un ragazzo di etnia hutu martoriato da colpi di machete, che diventa un atto di accusa verso l’Occidente, colpevole di aver chiuso gli occhi di fronte a quella catastrofe umanitaria.
“Ciò che mi consente di superare l’ostacolo emotivo insito nel mio lavoro, è pensare che quando qualcuno si confronterà con immagini come queste, parteciperà in qualche modo a un dialogo, non importa se nato dalla rabbia o dalla frustrazione per ciò che osserva”, dichiara Nachtwey.  “Quest’uomo era stato appena liberato da un campo di sterminio Hutu, dove i prigionieri erano per la maggior parte Tutsi, ridotti alla fame, picchiati, violentati e uccisi sistematicamente. Vorrei che chi guardasse quest’immagine si sentisse responsabile, non chiudesse gli occhi, non si voltasse dall’altra parte, ma capisse che la sua opinione conta qualcosa. Chi guarda fa parte di un elettorato”.
Come si vede, le considerazioni della Sontag, gli appelli di Nachtwey si collocano all’interno di una concezione del testo (anche l’immagine lo è) tipicamente moderna e illuministica, in quanto lo considera in grado di coinvolgere il pensiero critico, di risvegliare le coscienze, di provocare una reazione etica e politica chiamando in causa la responsabilità del lettore. Ma i “testi” che circolano negli odierni canali di trasmissione, in primo luogo il web, hanno ancora questo potere o hanno subito radicali trasformazioni?
A questo proposito, provo a evidenziare un aspetto della condizione attuale di circolazione delle immagini di informazione.
Nel flusso telematico giornaliero, in cui contenuti di varia natura scorrono in un flusso senza soluzione di continuità, come può l’immagine continuare a mantenere la sua valenza prima di tutto semantica? Un testo, infatti, non è costituito solo di contenuto, ma presuppone anche un contesto di presentazione, che ne individua immediatamente la natura. Sfogliando un quotidiano tradizionale, ad esempio, la collocazione di un articolo e delle relative immagini all’interno della rubrica corrispondente, ci indirizza e ci orienta nella lettura di quel testo, offrendoci dei prerequisiti di fruizione (mettendoci al corrente, ad esempio, se siamo alle prese con un articolo di cronaca, una dichiarazione politica, con la recensione di un film o una lettera al giornale) e offrendoci un minimo di garanzia di attendibilità. Non è così, ad esempio, nel flusso di una bacheca social come Facebook, che è lo strumento di informazione più utilizzato oggigiorno, dove si accavallano svariati contenuti (notizie, pubblicità, amenità, dichiarazioni pubbliche e opinioni private, condivisioni di fake e propaganda politica, circolazione di articoli provenienti da testate giornalistiche di diverso orientamento politico e ideologico), spesso di dubbia provenienza.
A differenza di un testo scritto, inoltre, l’immagine è più debole e maggiormente suscettibile di decontestualizzazione. Per John Berger, la fotografia perde la sua valenza politica a causa della distanza temporale, culturale e geografica tra l’immagine traumatica e l’osservatore. E’ quella distanza che decontestualizza l’evento. Oggi, a quella distanza, si aggiunge la collocazione precaria dell’immagine stessa, la sua condizione fluttuante, priva di un solido ancoraggio a una cornice semantica di presentazione, diluita in un flusso con un ingestibile rumore di fondo.
In queste condizioni, può conservare una valenza etica e politica, di tipo illuministico, un testo che si presenta in una condizione poco adeguata ad essere perfino compreso?


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