lunedì 12 marzo 2018

Le impronte del tempo. The Haystack e le ombre di Hiroshima


William Henry Fox Talbot, The Haystack, 1844

Le ombre sono state storicamente considerate per lo più in modo negativo. E, ancor oggi, nel linguaggio comune, permane questo alone fosco: si usano espressioni come “mettere in ombra”, “tramare nell'ombra”, “essere l'ombra di se stessi”, “formare un governo ombra”, “inutile correre dietro alle ombre”.
Le ombre sono figure dell'assenza, nere e prive di luce. Esse sono senza consistenza, essendo nient'altro che delle proiezioni che riproducono il contorno di un corpo, dandone un'immagine opaca e indistinta, priva di quelle caratteristiche che determinano l'unicità del corpo medesimo.
Nell'arabo medievale il termine che indicava l'ombra era “l'inseguitore”, mentre in greco antico il nome dell'ombra era “skia”, che significa anche traccia. Perché è vero che l'ombra è scura e priva di sostanza, ma essa è anche segno che testimonia un esserci reale: c'è ombra solo se un fascio di luce investe un corpo solido, consistente.

L’ombra è la proiezione diretta di un corpo e ne rende visibile e manifesta la presenza. Essa, pertanto, secondo la classificazione di Peirce, non solo ha valore iconico (somiglia al corpo di cui è proiezione), ma anche indicale, perché è legata in modo indissolubile al suo referente in un rapporto di contiguità e di causalità. Il suo statuto semiologico è complesso, proprio come la fotografia: se c’è un’ombra c’è un corpo così come, se c’è una fotografia, ciò che vi vediamo deve essere stato in qualche momento e luogo. “Infatti – scrive Rosalind Krauss -, la traccia fotografica, come l'ombra portata, è prodotta dalla proiezione luminosa di un oggetto su un'altra superficie.” Entrambe sono manifestazioni pure, per quanto fantasmatiche, dell'esserci.
Osserviamo questa fotografia. Si tratta del celebre calotipo di William Henri Fox Talbot The Haystack (Il covone di fieno), tavola X del primo libro fotografico della storia, The Pencil of Nature (1844). L'immagine è molto semplice, quanto intensa. Mostra un covone di fieno contro cui è posata una scala, la cui ombra si proietta netta. Anche la massa dell'enorme covone è percepita essenzialmente grazie al suo lato in ombra. Solo l'ombra è in grado di tracciare le masse e di rendere evidenti forme e volumi. L'alternanza dei valori di luce e ombra è d'altra parte alla base del sistema fotografico, in quanto una fotografia non è altro che un insieme di superfici più o meno ombreggiate.
L'ombra, tuttavia, non è solo un indice, ma anche un marchio temporale. Un'ombra proiettata dai raggi solari (o da qualsiasi sorgente non fissa), infatti, è mobile: muta nel corso del tempo. Se Talbot avesse scattato la fotografia dieci minuti dopo, l'ombra sarebbe stata diversa, pur rimanendo tutto il resto tale e quale. L'ombra, pertanto, è ben più di una semplice proiezione spaziale; essa è anche una proiezione temporale, un fermoimmagine.
Scriveva Tablot nell'opera citata: “Un vantaggio della scoperta dell’Arte Fotografica sarà quello di metterci in grado di introdurre nelle nostre raffigurazioni una moltitudine di minuscoli dettagli che accrescono la verità e realtà della rappresentazione, ma che nessun artista si darebbe la pena di copiare fedelmente dal vero”.
Agli albori della fotografia, Talbot rilevava le potenzialità di questa scrittura eseguita con la luce che, ritagliando un frammento di realtà, costituisce il luogo dove ogni elemento di quel reale posto davanti all'obiettivo, anche quello sfuggito all'occhio umano, si deposita nello spazio fotografico. In quanto pura fotogenia e traccia chimica, la fotografia appare a Talbot la fissazione finalmente realizzata dell'ombra, obiettivo da sempre perseguito dall'uomo, fin dal suo antico passato (come dimostra il mito della figlia del vasaio Butade).
I discorsi che accompagnano gli stati iniziali di questa invenzione tralasciano il ruolo del soggetto operante e “insistono proprio su questa qualità “magica” che colloca la nuova tecnica in una logica dell'apparizione, facendone l'ultima e più moderna discendente delle immagini acheropite (da acheiropoietos, non fatto da mano umana) che da sempre popolano il campo mimetico. E' come se, non appena effettuato lo scatto, l'assenza stessa di intenzionalità – carattere di pura deposizione dell'immagine – garantisse un che di imparziale e al contempo affascinante, come se la fotografia, per la prima volta nella storia, compisse o realizzasse una contemporaneità assoluta: il momento stesso dello scatto è quello del deposito, della deposizione di tutto ciò che si trova di fronte all'obiettivo.” (Jean-Christophe Bailly, L’immagine assoluta. Tempo e fotografia).
La “contemporaneità assoluta” è quella di un'immagine che fissa non un attimo presente, ma la transizione stessa del presente, l'ombra fuggevole che il tempo proietta sulla realtà. Perché per Bailly la fotografia è sì un indice, ma più simile all’eco che alla vera e propria impronta, perché non c'è alcun contatto concreto con il referente, bensì un’azione a distanza tramite la luce, la quale non è propriamente un oggetto che lascia un’orma, ma un’energia diffusa e costante.
Il reale esiste immerso nel flusso luminoso come in quello temporale. L’ombra è l'interruzione del flusso luminoso in cui è immerso il reale; la fotografia è l'interruzione del flusso temporale in cui lo stesso reale è inserito. La fotografia infatti è isolamento e cattura di un momento in cui una realtà, che poi cambia o scompare, lascia un’immagine che, allora, non è tanto la rappresentazione dell’oggetto che vi si mostra quanto “l’ombra portata dell’istante che coglie” (Jean-Christophe Bailly, L’istante e la sua ombra, 2010, p. 44). La fotografia, cioè, non è tanto la registrazione dell’apparente quanto l’eco dell’apparizione, l’affacciarsi dell’oggetto alla “significanza”, il suo venire ed esporsi al senso (pp. 64-68).
Come un'ombra è sempre ed esattamente contemporanea all'oggetto di cui è proiezione, rivelandone l'esserci, così una fotografia è sempre contemporanea a ciò che vede, al punto da conservare nella sua vista qualcosa del tempo che le scorre davanti.
La fotografia non è però una rappresentazione mimetica del reale. Ciò che la fotografia cattura è l’ombra che il tempo proietta nell’immagine, l’istante in cui il reale brilla prima di sparire per sempre. L'ombra mostra la natura del fotografico; l'immagine fotografica di un'ombra è la fotografia di una fotografia:
“L’ombra è letteralmente il fantasma vivente e vibrante dell’oggetto e in quanto tale installa il campo di apparizione che sarà proprio quello del fotografico: fotografare ombre è in qualche modo mostrare la matita della natura al lavoro, è ritrarre, attraverso l’immagine di un’immagine, un’origine del fotografico” (p. 109).


L’ombra di Hiroshima

Nel suo saggio “L'istante e la sua ombra”, Jean-Christophe Bailly collega mentalmente la fotografia “Il covone di fieno” di Talbot a un'altra fotografia, di un secolo successiva, dove vediamo, anche qui, l’ombra di una scala a pioli, proiettata su una parete di legno non dalla luce solare, ma dalle radiazioni di una bomba atomica, quella sganciata a Hiroshima nel 1945, uccidendo 140.000 persone.
Quel giorno di agosto, l’immane lampo del fungo nucleare agì come un gigantesco flash, “fotografando” le sagome di uomini, donne e bambini sui muri o sulle strade presso cui si trovavano. I loro corpi hanno impressionato, con la loro ombra, le superfici che coprivano, come fossero lastre sensibili.

Anonimo (U.S. Air Force), La scala e l’ombra detta di Hiroshima, 1945.

Possiamo vedere ancora oggi alcune di quelle ombre, conservate nei musei o ritratte in fotografie dell’epoca: una donna seduta su una gradinata, un uomo che scende da una scala, una bambina che salta con la corda. Piccoli ritratti di vita quotidiana rimasti impressi sui luoghi della città, come oscure fotografie.
L’immagine che vedete ritrae una di queste: a sinistra si vede l’ombra di una scala, a destra quella di un uomo. Si tratta pertanto della traccia di una traccia, della fotografia di una fotografia, scattata non da mano umana.
Di questa fotografia, di cui non conosciamo l'autore, così come delle altre scattate a Hiroshima e Nagasaki dopo lo scoppio della bomba, venne proibita la pubblicazione in America per sette anni.
Scrive Susan Sontag: “Ogni fotografia è un memento mori. Fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un’altra persona o di un’altra cosa. Ed è proprio isolando un determinato momento e congelandolo che tutte le fotografie attestano l’inesorabile azione dissolvente del tempo”.
Si dice che una fotografia registra non solo la traccia di un oggetto, ma anche la sua morte, in quanto, bloccando il tempo e isolando l’istante, sottrae l’oggetto medesimo al flusso vitale in cui è immerso.
Nell'orrore di queste immagini si realizza, nel senso letterale, la vera, quanto macabra, essenza del fotografico: la sparizione, in questo caso reale e definitiva, dell'oggetto subito dopo aver proiettato la propria immagine sulla superficie del muro, cioè subito dopo aver depositato la propria traccia. Qui ha avuto luogo la più terribile sospensione degli oggetti nel tempo; l’ombra è quella di una presenza, un attimo prima del suo dissolvimento. La bomba “cancella il suo soggetto nel secondo stesso in cui lo inscrive”, è “un assoluto della traccia”, scrive Bailly:
“Quest’uomo scomparso, cancellato e presente, questo ricordo di uomo, polvere d’essere dispersa, questa sentinella veglia infatti al di là del tempo che l’ha spazzato via: di per se stessa e come un assoluto della traccia, non è il tale o talaltro individuo anonimo, è l’intera specie. Ciò che presenta è insieme la possibilità che esistano degli individui e la possibilità che tutti spariscano.” (p. 127).
E in un altro suo saggio, "L'immagine assoluta. Tempo e fotografia", aggiunge:
"E' ovvio che essa non mostra niente, e che questo niente è terribile perché porta con sé il senso della sparizione pura e semplice, ma il nulla, la sparizione, l'evanescenza totale sono segnalati da una traccia, che è forse la più autenticamente acheropita che un'immagine abbia mai trattenuto."



Di questa fotografia scrive anche il filosofo e scrittore Günther Anders nel suo “Diario di Hiroshima e Nagasaki” (2014), per il quale questa immagine conserva immutata la traccia dell’individuo che l’ha generata, ma il cui significato si alimenta proprio della mancanza del proprio referente, ucciso dal lampo nucleare. E diventa per questo metafora della memoria di Hiroshima, che quelle ombre conservano:

“Dapprima solo un nulla. Una reliquia, comunque, non può essere. Perché è solo una foto. Solo un’immagine. Solo l’immagine di un muro. Cosa può significare? Guarda meglio. Forse non sei stato abbastanza attento. Cosa vedi sul muro? È vero. C’è qualcosa. Un profilo, un’ombra. L’ombra di un uomo. Che c’è di strano? Vedi altre ombre sul muro? No. E vedi un uomo che potrebbe gettare quell’ombra? Nemmeno.”

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