domenica 30 novembre 2025

La fotografia come luogo di confine tra la vita e la morte



 “Nell’epoca dei computer e degli smartphone, le lanterne girevoli si costruiscono ancora a mano... Chi l’avrebbe mai detto?”

Così pensa tra sé Hatsue, uno dei personaggi del romanzo di Sanaka Hiiragi, Il magico studio fotografico di Hirasaka, pubblicato da Feltrinelli nel 2023. Il libro è composto da tre racconti autonomi, tutti ambientati nel misterioso studio fotografico di Hirasaka, un luogo sospeso fra vita e morte. Chi entra nello studio è qualcuno che sta per morire (anche se spesso non lo sa): Hirasaka li accoglie, offre loro il tè e mostra loro un mucchio di fotografie, una per ogni giorno della loro vita. Da questo immenso archivio i personaggi devono scegliere una sola immagine per ogni anno, che andrà poi a comporre una lanterna girevole. Dopo la scelta, ognuno rivive per un breve momento i ricordi più intensi, poi “prosegue oltre”.
Il primo personaggio è una donna di novantadue anni di nome Hatsue, un’ex insegnante che entra in questo luogo di passaggio prima della morte, anche se non ne è consapevole. È attraverso la sua storia che si delinea per la prima volta la natura ambigua dello studio fotografico: un luogo quieto, accogliente, quasi familiare, ma al tempo stesso attraversato da una corrente sottile di attesa, come se ogni oggetto fosse in bilico tra la presenza e il ricordo. Hatsue, inizialmente confusa, si trova davanti a un’enorme montagna di immagini: una fotografia per ogni giorno di ogni anno della sua vita. La scelta che Hirasaka le propone – selezionare un’unica immagine per ciascun anno – è un gesto che la costringe a misurarsi con ciò che resta, con ciò che sopravvive. È un’operazione di montaggio, fragile e faticosa, attraverso cui la sua esistenza viene distillata nei suoi momenti più significativi.
Nel momento in cui Hirasaka le porge la prima fotografia, presa a caso dal mucchio, Hatsue viene immediatamente avvolta da un ricordo che la attraversa come un’ondata. 

“Facciamo una prova usando questa fotografia che ha a che fare con lei, signora Hatsue. Si ricorda dove è stata scattata?”
Gliela passò. Raffigurava una strada in discesa.
“Ah...” Se lo ricordava.
Si vedeva, a perdita d’occhio, un campo attraversato da quella strada in discesa. Un vento sibilante increspava un mare di spighe...
Corse fino in fondo alla strada e sentì il sudore sulle tempie. L’odore secco del vento, sapore di sale sulle labbra. Davanti a sé, in lontananza, vide levarsi in volo, forse sorpreso, un airone. Si allontanò nel cielo azzurro fino a diventare un puntino bianco. Lo guardò finché non lo vide più, il vento le sollevò un lembo del kimono e il sibilo si trasformò in fragore.
Se lo ricordava. Era ancora bambina, e l’estate sembrava destinata a durare per sempre. Il suo corpo era ancora forte, avrebbe potuto correre all’infinito su e giù per quella strada.
“Si è ricordata?”
“Sì, è la strada che passava tra i campi, la facevamo per andare nella città vicino alla nostra. Mi piaceva moltissimo.”
Nel momento stesso in cui si trovò la fotografia tra le mani fu assalita dai ricordi e dalle emozioni.

Non un semplice frammento mnestico, ma un’esperienza sensoriale completa. La fotografia non restituisce soltanto un’immagine, ma riapre un varco nel tempo vissuto. È una soglia, una fenditura che permette al passato di rifluire nel presente con una potenza quasi fisica. “E se la ricordava anche prima?”, le chiede Hirasaka, a proposito della strada della fotografia. “No, l’avevo completamente dimenticata. Rimossa. Laggiù ormai hanno costruito dappertutto, è diventata una zona residenziale.”, risponde Hatsue. È la fotografia a ripescare il ricordo dall'oblio, dispiegandolo con un’intensità vertiginosa. È un paesaggio che “non esiste più da nessuna parte”; eppure, nella fotografia, quel frammento di mondo continua a vivere, intatto, fuori dal tempo. È forse il momento in cui Hatsue comprende con maggiore chiarezza ciò che lo studio realmente custodisce: non le fotografie, ma la possibilità stessa di ricordare ciò che è stato dimenticato.
La fotografia, in questo racconto, si configura come un dispositivo di riattivazione memoriale di straordinaria potenza. La scena in cui Hatsue prende tra le mani l’immagine della “strada in discesa” è costruita proprio come un innesco: il contatto con l’immagine non genera un semplice ricordo, ma una vera e propria ri-immersione sensoriale nell’esperienza originaria. Il testo suggerisce che la fotografia non si limita a rappresentare ciò che è stato; essa riapre il tempo passato, lo restituisce nella sua densità fenomenologica.
Dopo la “visione” dell’immagine, infatti, il romanzo lascia immediatamente spazio alla descrizione del vissuto: la corsa, il vento, il sudore sulle tempie, l’odore secco che sa di sale, il volo improvviso dell’airone. Il ricordo è una vera e propria costellazione di sensazioni: suoni, odori, colori, sapori, sensazioni sulla pelle. Ciò che la memoria spontanea aveva “completamente dimenticato”, come dice Hatsue, la fotografia lo riattiva con una vividezza quasi sinestetica. Il dialogo con Hirasaka insiste proprio su questo paradosso: la strada in discesa non esiste più; è stata “rimossa”, sia dalla memoria che dal paesaggio. Eppure, basta un’immagine per restituirne il vissuto. La fotografia diventa così una sorta di soglia tra passato e presente, capace di superare persino l’oblio. È come se l’immagine custodisse una parte della vita che il soggetto non è più in grado di convocare da solo.
Ancora più significativo è il fatto che il paesaggio rappresentato “non esiste più da nessuna parte”. La fotografia assume allora un ulteriore valore: non solo ricostruisce il passato personale, ma testimonia un mondo perduto, cancellato dalle trasformazioni che avvengono nel tempo. Qui l’immagine diventa un archivio dell’irripetibile, un frammento di realtà che sopravvive alla realtà stessa. In questo senso, Hiiragi mobilita uno dei temi fondamentali della teoria fotografica: l’idea che la fotografia non solo fissi il tempo, ma salvi ciò che il tempo distrugge, restituendo un accesso al passato che non è più garantito dal mondo, ma soltanto dall’immagine.
Il romanzo, attraverso il dispositivo narrativo della “lanterna magica” composta da fotografie selezionate, radicalizza questa funzione: la fotografia non è solo memoria individuale, ma diventa parte di un rituale di passaggio, una soglia tra la vita e la morte. L’ultimo atto dei personaggi è scegliere quali immagini lasceranno di sé: quali frammenti di esperienza continueranno a brillare nella lanterna, nel momento in cui tutto il resto svanisce.
Il rapporto della fotografia con la morte è un tema che la letteratura e il cinema hanno spesso coltivato, quasi a riconoscere nella natura stessa dell’immagine fotografica una tensione intrinseca verso l’assenza e la sopravvivenza. Fin dal suo apparire nel XIX secolo, la fotografia si è imposta come un dispositivo ambiguo: da un lato strumento di registrazione del reale, dall’altro indizio di una perdita irrimediabile. Ogni fotografia, come scriveva Roland Barthes, è la certificazione di ciò che “è stato” e che non potrà più essere; contiene dunque una promessa di immortalità, ma allo stesso tempo porta con sé il marchio del tempo finito. Non stupisce che molte narrazioni, sia letterarie che cinematografiche, abbiano trovato nella fotografia un mezzo privilegiato per interrogare il confine tra vita e morte, tra tempo e memoria.
Per constatare la profondità del legame che unisce fotografia e morte non bisogna guardare lontano: basta entrare in un qualsiasi cimitero. Le tombe sono tappezzate di immagini dei defunti, piccoli ritratti in bianco e nero o a colori, spesso ritoccati per restituire un volto sereno, fissato in un’età ideale, sottratto alla caducità del corpo. Queste fotografie garantiscono la persistenza della memoria, ancorano i morti al mondo dei vivi e offrono ai visitatori un volto da riconoscere e ricordare. La fotografia funge così da garante identitario, un fragile ma tenace ponte tra i due mondi.
Questo ruolo emerge con forza anche nelle rappresentazioni cinematografiche. In Coco (2017), la trama si svolge nella ricorrenza del Día de Muertos messicano, dove la sopravvivenza dei defunti nell’aldilà dipende direttamente dalla presenza della loro fotografia sull’ofrenda, l’altare domestico colmo di candele, cibi e oggetti cari agli antenati. La fotografia, nel film, possiede una funzione rituale, quasi sacrale, che la rende centro nevralgico della corrispondenza tra il mondo dei vivi e quello dei morti (vedi https://www.fatamorganaweb.it/lo-spettacolo-della-morte-coco/). Solo attraverso le fotografie esposte sulle ofrendas, il ricordo può essere attivato, rinnovato, mantenuto. Restare “in vita” nell’aldilà dipende dunque dalla "cura iconica" dei vivi nell'aldiqua. Se l’immagine scompare, se viene dimenticata, rimossa, distrutta, la presenza dei defunti si dissolve per sempre: la morte biologica viene seguita da una seconda morte, quella della memoria, di cui l’immagine è l’estremo baluardo. La sorte di Chicharrón, in una delle scene più drammatiche del film, lo dimostra con crudezza: dimenticato da tutti, privo di una fotografia che ancorerebbe la sua identità al mondo dei vivi, il suo scheletro si sgretola e scompare nel nulla. La stessa minaccia incombe su Héctor, l'altro personaggio principale del film, la cui esistenza nell’aldilà sopravvive solo grazie alla possibilità che qualcuno, nel mondo terreno, continui a ricordarlo anche attraverso un’immagine fotografica. Senza un volto visibile, la memoria collettiva evapora; e con essa, l’essere stesso.
In questo modo, Coco mette a nudo l’essenza della fotografia nella sua forma più pura e inquietante. L’immagine fotografica si rivela connessa a ciò che Roland Barthes definiva Spectrum: il soggetto fotografato, un’entità sospesa, che rimanda etimologicamente tanto allo “spettacolo” quanto allo “spettro”. La fotografia, scrive Barthes, contiene sempre «quella cosa vagamente spaventosa: il ritorno del morto» (La camera chiara). Nel film, tale dimensione viene messa in scena in senso letterale. Ogni fotografia è un punto di contatto con un essere che non c’è più e che, attraverso l’immagine, continua a esistere. Nel mondo vibrantemente colorato ideato da Pixar, l’immagine diventa la forma minima ma indispensabile della sopravvivenza, il residuo tangibile che impedisce al morto di svanire definitivamente. Un “segno” che, come nello studio fotografico di Hirasaka, mantiene aperto il varco tra i mondi.
Una relazione più inquietante emerge invece in The Others (2001) di Alejandro Amenábar, dove le post-mortem photographs vittoriane diventano indizi perturbanti del confine tra vita e morte. Queste fotografie dei defunti, una pratica realmente diffusa nel XIX secolo, venivano spesso realizzate mettendo in posa i corpi come se fossero ancora vivi, seduti accanto ai familiari, sorretti da supporti nascosti, con gli occhi dipinti sulle palpebre chiuse o tenuti artificialmente aperti, fissandoli in un’apparenza di serenità domestica. L’immagine fotografica acquisiva così un potere ambiguo: era al tempo stesso certificazione della morte e tentativo di sospenderla, di negarla attraverso un simulacro di vitalità. Nel film, la visione di questi ritratti offre allo spettatore un primo colpo di scena prima di quello finale, il primo passo verso la consapevolezza del fatto che l'universo del film si compone di fantasmi e che l’intera casa è un limbo, uno spazio sospeso, in cui la frontiera tra i due mondi si fa drammatica e permeabile. 
Fotografia, morte e tempo è il trinomio di un film come La Jetée di Chris Marker, in cui l’intera trama gira intorno all'immagine di un "accaduto" - la morte di qualcuno - che si trova contemporaneamente nel passato e nel futuro. Il protagonista è ossessionato da un ricordo infantile: il volto di una donna sulla terrazza dell’aeroporto e la morte di un uomo davanti ai suoi occhi. Questa immagine iniziale è un punctum barthesiano: una ferita che ritorna, una scheggia del tempo che continua a trafiggere il presente. Nel momento decisivo, La Jetée ribalta l’ordine della percezione: il protagonista scopre che l’uomo di cui aveva visto la morte da bambino è lui stesso. La fotografia mentale che aveva sorretto tutta la sua vita è una visione dell’attimo in cui morirà. L’immagine come memoria è anche l’immagine come destino. E quell’unico istante di “cinema vero” - l’aprirsi e richiudersi degli occhi della donna - mostra quanto la vita sia fragile rispetto alla fissità fotografica: un breve tremito di tempo che resiste all’immobilità assoluta.
Il magico studio fotografico di Hirasaka radicalizza questo legame, collocando la fotografia in un limbo narrativo tra la vita e la morte, configurandola come un archivio terminale, un punto di transito destinato ai personaggi che stanno per abbandonare il mondo dei vivi. Nel romanzo di Hiiragi, lo studio fotografico è un luogo sospeso fra i piani dell’esistenza: non è ancora l’aldilà, ma non appartiene più del tutto alla vita. Chi vi entra è qualcuno che sta per morire; e la selezione delle fotografie diviene una sorta di rito di passaggio, un montaggio di ciò che merita di essere portato oltre. La lanterna girevole che raccoglie queste immagini sembra evocare un cinema primitivo, un flusso di visioni destinato a illuminare il cammino dei defunti. Ogni fotografia è il monumento di un istante perduto, un piccolo fantasma visibile. In questa prospettiva, il mondo di Hirasaka è la radicalizzazione narrativa di ciò che Barthes aveva intuito: l’immagine non è solo un ricordo, ma un punto di contatto con ciò che non c’è più, con ciò che sopravvive solo in forma di luce impressa.
L’idea che le immagini possano mediare il passaggio fra vita e morte non è nuova. In After Life (1998), Hirokazu Kore-eda immagina un luogo di smistamento dell’aldilà in cui i defunti sono invitati a scegliere un solo ricordo, che verrà ricostruito cinematograficamente prima che possano “proseguire oltre”. Il ricordo scelto è filmato da un’équipe di tecnici: la memoria diventa letteralmente un’immagine che traghetta l’anima. Il dispositivo fotografico-cinematografico assume qui la stessa funzione che nello studio di Hirasaka ha la lanterna girevole: selezionare, distillare, preservare.
Roland Barthes ha formulato una delle teorie più potenti della fotografia come soglia mortuaria. L’immagine fotografica non è solo la testimonianza di qualcosa che “è stato” e che non sarà più: essa contiene in sé l’anticipazione della propria morte ("c'è sempre questo segno imperioso della mia morte futura"). Un esempio emblematico di questo rapporto tra fotografia e morte si trova nell’episodio “Tithonus” della sesta stagione di The X-Files. Il protagonista, Alfred Fellig, è un fotografo maledetto dalla propria condizione: non può morire. È condannato a una sorta di immortalità involontaria e possiede un talento macabro: fotografa la morte delle persone prima che essa avvenga. Per liberarsi dalla maledizione che gli impedisce di morire, Fellig cerca disperatamente di fotografare l'istante "decisivo", l’esatto punto di passaggio tra la vita e la morte. Ma in un rovesciamento perturbante della logica indicale, le fotografie che produce non mostrano ciò che l’occhio umano vede nel momento dello scatto: mostrano la persona già morta. La fotografia, in questo caso, non registra il passato ma anticipa il futuro, rivelando la dimensione profetica (e al tempo stesso tanatografica e spettrale) dell’immagine tecnica. È un rovesciamento radicale della grammatica fotografica: la camera non dice più “questo è stato”, ma “questo sarà”. L’immagine smette di essere traccia di un evento accaduto e diventa memento mori proiettato in avanti, un gesto che condanna il fotografato alla consapevolezza del proprio destino.
Un’ulteriore declinazione del rapporto tra fotografia, memoria e morte, emerge nell’episodio della serie Roar (2022) intitolato “The Woman Who Ate Photographs”, interpretato da Nicole Kidman. La protagonista, di fronte al declino cognitivo della madre affetta da demenza e ai cambiamenti irreversibili della propria vita familiare (la partenza del figlio), compie un gesto surreale: mangia le fotografie. 
L’atto di ingerire le immagini è un tentativo disperato di incorporare un passato che sta svanendo, il proprio e quello materno. Ogni fotografia, una volta mangiata, permette alla donna di rivivere visceralmente un ricordo: non una semplice reminiscenza mentale, ma un’esperienza sensoriale totale, come i personaggi nel romanzo di Hiiragi. È come se l’immagine digerita sprigionasse la vita che contiene, riportando in superficie un mondo ormai perduto. In questo senso, l'episodio di Roar ribalta la funzione tradizionale della fotografia come semplice traccia indicale. L’immagine non è più soltanto un segno, ma un residuo organico del vissuto, una reliquia che conserva la presenza degli assenti. Le fotografie diventano carne della memoria, tessuto vivente che si può assumere per evitare il dissolvimento del sé e del legame familiare. Questo processo si colloca ancora una volta in quella dimensione liminale tra vita e morte: la madre è presente ma già in via di cancellazione, e la fotografia è l’unico mezzo che trattiene ciò che di lei sopravvive; il figlio è vivo ma sta scomparendo dall’orizzonte domestico, e l’immagine diventa un modo per trattenerlo mentre si allontana. Mangiando le fotografie, la protagonista tenta di colmare lo spazio vuoto lasciato dalle perdite. 
Come accade in Coco, dove l’immagine fotografica garantisce la sopravvivenza dei defunti nell’aldilà, anche in Roar la fotografia assume la forma di un talismano: un oggetto che trattiene vita, che permette di tenere insieme i due mondi, quello dei vivi e quello dei morti. Ma qui l’intuizione è portata all’estremo: non si tratta più solo di esporre e guardare un’immagine, bensì di ingerirla, digerirla, incorporarla. L’immagine si fa cibo della memoria, ultimo tentativo di mantenere un contatto con ciò che sta scomparendo, attraverso un gesto che è insieme affettivo, magico e inevitabilmente doloroso.
Nel romanzo di Hiiragi, come in Coco e in Roar, le fotografie sono autentici luoghi di sopravvivenza. Conservano ciò che la vita lascia indietro, risvegliano ciò che la memoria ha smarrito, restituiscono per un istante una forma visibile a ciò che è già scomparso. Funzionano come un talismano contro la dissoluzione: permettono ai morti di continuare a esistere, ai ricordi di farsi carne per non svanire, alle tappe della vita ormai trascorsa di comporsi in una lanterna che illumina l’ultimo passaggio. Ogni immagine è un residuo sensibile, una particella di presenza che si conserva proprio mentre testimonia un’assenza. È uno spazio di sospensione, un luogo in cui la vita non è più vissuta, ma ricordata; un medium che accompagna la morte e ne mitiga il passaggio. La fotografia registra ciò che sta per perdersi e lo consegna al tempo che verrà, offrendo ai vivi un frammento di continuità con ciò che non può più ritornare.

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