Una condizione post-umana
Il soggetto, a prima vista, sembrerebbe ricalcare quello di tante serie a tema distopico post apocalittico dovuto al contagio planetario di un agente mutante. Ma qui la trama è alquanto originale: l'epidemia che coinvolge l'intero pianeta non produce zombie vaganti alla disperata ricerca di carne umana, come di consueto, ma felicità. E non una felicità emotiva e passeggera, ma un appagamento totale, radicale, ottenuto attraverso il superamento delle identità individuali. Dopo il contagio, infatti, gli esseri umani non sono più soggetti distinti, portatori di desideri divergenti e tensioni personali: diventano diramazioni di un’unica entità collettiva, l’Unione, una mente distribuita che ingloba pensieri, emozioni, intenzioni. L’esperienza del sé viene disciolta in un flusso condiviso; il conflitto, il dolore e la solitudine vengono eliminati non perché risolti, ma perché resi letteralmente impossibili.
Superato l’assunto sartriano les autres sont l’enfer, Pluribus sembra collocarsi in uno spazio concettuale in cui la relazione con l’altro non è più fonte di angoscia, conflitto o minaccia, ma viene assorbita in un orizzonte di perfetta fusione. Non sappiamo se gli autori della serie conoscano Sartre o Lacan; eppure il loro mondo immaginato sembra rispondere direttamente a una delle intuizioni centrali della filosofia contemporanea: l’individuo è, innanzitutto, mancanza. Per Sartre, la coscienza è soprattutto un vuoto, una frattura interna, un’apertura costitutiva che rende l’uomo un essere-come-progetto, sempre lanciato oltre se stesso perché incompiuto. Lacan riprende e radicalizza questa idea: il soggetto è strutturalmente “mancante”, perché nasce da una scissione - tra simbolico e reale - che non può mai ricomporsi. È proprio questa mancanza originaria, questo vuoto generativo, che produce il desiderio: desideriamo solo ciò che ci manca, e ciò che ci manca non può mai essere completamente recuperato. La mancanza, dunque, non è un incidente della condizione umana: è la condizione della soggettivazione stessa. Senza vuoto, non vi è desiderio; senza desiderio, non vi è identità.
L’Unione di Pluribus rappresenta proprio lo stadio che supera questa architettura antropologica. Lì dove Sartre e Lacan riconoscono la struttura fondante del soggetto umano, cioè un vuoto incolmabile, la serie immagina un mondo in cui tale vuoto è stato riempito, o meglio, è stato dissolto all’interno di una coscienza collettiva che non conosce separazioni né fratture. L’Unione è una condizione che elimina la mancanza e, con essa, il desiderio; elimina la distanza dall’altro e, con essa, la possibilità del conflitto; elimina la scissione originaria e, con essa, il processo di soggettivazione. Il risultato è una condizione perfetta, quasi paradisiaca: un mondo senza dolore perché privo di tensioni, senza solitudine perché privo di individui, senza desiderio perché privo di mancanza. Una condizione che ricorda l’escatologia cristiana e l'idea di paradiso: un regno di appagamento assoluto, in cui ogni bisogno è assorbito e superato nella visione di Dio.
Ma, proprio per questo, l’Unione è anche una forma estrema di post-umanità. Se l’essere umano è definito dal vuoto che lo abita, allora un mondo senza vuoto non è semplicemente un mondo migliore: è un mondo in cui l’umano, in senso stretto, non esiste più oppure è entrato in uno stadio evolutivo radicalmente nuovo. In ciò risiede la vertigine teorica di Pluribus: immagina un Eden che non redime, ma abolisce la struttura stessa del soggetto individuale, così come elaborato dalla nostra modernità.
Un'epidemia dell'eccesso
L’idea di Pluribus ribalta totalmente la grammatica abituale delle narrazioni epidemiche: non più la trasformazione in creature prive di coscienza e mosse da una mancanza cieca e assoluta - gli zombie, entità affamate, carenti, strutturalmente incomplete - ma la metamorfosi in un organismo eusociale, coeso, attraversato da una felicità altrettanto assoluta, una felicità non individuale ma sistemica. È un modello che ricorda da vicino le società degli insetti, o quelle utopie tecno-biologiche in cui l’armonia è ottenuta attraverso l’abolizione della differenza, della volontà e del desiderio, sostituite da un’unica intenzionalità collettiva.
Il primo episodio gioca apertamente con l’immaginario dell’“apocalisse zombie”, evocandone gli stereotipi per poi capovolgerli in modo sistematico. Il contagio provoca convulsioni, collasso, catatonia: un preludio che richiama l’iconografia del risveglio dopo la morte, tipica delle narrazioni sui morti viventi. Anche il loro muoversi in gruppi, perfettamente sincronizzati come se condividessero un circuito inconscio di comunicazione, ricalca una delle modalità basilari del genere apocalittico: la massa anonima che avanza come un’entità unica, una sorta di branco o di “super-organismo”. Questa dinamica è uno dei pilastri iconografici e narrativi della zombie culture, dai film di Romero alle derivazioni contemporanee: il gruppo compatto di corpi indistinti che si muove all’unisono, come se fosse animato da un’unica volontà elementare. In Pluribus la serie recupera proprio questo segno formale - il passo coordinato, il movimento collettivo, la convergenza spontanea verso un obiettivo - ma lo sottopone a una torsione. Ciò che nei racconti di contagio tradizionali è indice di perdita di coscienza, regressione all’istinto e dissoluzione dell’Io nella massa, qui diventa al contrario traccia di una connessione mentale potenziata, di una forma di cooperazione armonica tra i contagiati. Il segno resta il medesimo, ma il suo significato è invertito: ciò che altrove è sintomo di ferinità, qui diventa manifestazione di uno stadio superiore estremamente avanzato.
Un riferimento a Io sono leggenda, o pellicole simili, risulta particolarmente illuminante per comprendere il ribaltamento concettuale operato dalla serie. Nelle distopie epidemiche tradizionali, il contagio funziona infatti come dispositivo di semplificazione radicale. Il virus, o l’agente patogeno, agisce riducendo l’umano alla sua quota minima: uniforma verso il basso, appiattendo ogni differenza individuale entro un modello comportamentale elementare. L’epidemia, in questo modello narrativo, produce una vita ridotta alle sue forme basilari (fame, pulsione cieca di sopravvivenza, aggressività) e annienta qualsiasi complessità psichica, morale o culturale. È il paradigma dello “zombie”, figura liminare e paradigmatica: corpo animato, coscienza spenta, motricità regredita all’istinto primario. Il soggetto si svuota nella regressione a uno stadio puramente biologico da cui è dominato. L'ordine narrativo passa, in tal modo, dal differenziato all’indistinto, dal complesso al minimo, riducendo la vita alla sua infrastruttura di base, cancellando progressivamente tutto ciò che eccede la pura sopravvivenza. Questa semplificazione violenta produce una forma di uniformazione per mancanza: tutti gli infetti sono uguali nella carenza, nella spoliazione dell’umano.
Pluribus, invece, introduce un paradigma opposto: immagina un contagio che non trascina verso il basso, ma verso l’alto. Non una riduzione, ma un eccesso; non una vita impoverita dall’istinto, ma una vita saturata da una forma di benessere condiviso e onnipervasivo. È un’“epidemia dell’eccesso”, e proprio per questo altrettanto perturbante. Questo contagio, lungi dal produrre un degrado fisico o cognitivo, espande le capacità e le disposizioni emotive dei contagiati: empatia, cooperazione spontanea, felicità. Tuttavia, proprio in questa apparente perfezione risiede un nucleo inquietante. Anche questa uniformazione, benché “positiva”, comporta una riduzione. La felicità, una volta diventata automatica, si trasforma in un imperativo biologico; l’empatia, se obbligata, non apre realmente all’altro, ma abolisce il conflitto, e con esso la dialettica che alimenta il desiderio. La pacificazione totale, pur priva di violenza, appare più vicina all’organizzazione di un formicaio che a un ideale utopico umano.
Il risultato è un mondo di singolarità abolite, dove la socialità non è più vera composizione delle contraddizioni e dei conflitti, ma l'abolizione di ogni opacità e tensione. In questo senso, Pluribus rappresenta la controfigura speculare e simmetricamente opposta del paradigma zombie: non più mancanza assoluta, ma pienezza assoluta; una pienezza, tuttavia, totalizzante, che non ammette più alcun vuoto e alcuna mancanza e, pertanto, alcuna forma di vera libertà. La serie mostra così come entrambe le forme di epidemia, quella della mancanza e quella dell’eccesso, producano una forma di “post-umanità” uniforme e totalizzante. Se nel mondo degli zombie l’umano si perde per difetto, nel mondo di Pluribus l’umano si perde per eccesso. In entrambi i casi, ciò che viene meno è la singolarità, il margine d’errore, l’inciampo, il conflitto: ciò che, nella nostra tradizione culturale, costituisce il cuore stesso della soggettività.
Un cloud organico
L’Unione possiede una forma di conoscenza universale, distribuita e immediatamente accessibile per ognuna delle sue "appendici" (gli ex-individui). Ogni contagiato partecipa integralmente al patrimonio cognitivo del collettivo: ognuno sa tutto e sa fare tutto. Questa onniscienza diffusa non è il risultato di un apprendimento, ma di una connessione organica. È un sapere senza percorso, senza errore, senza dimenticanza; un sapere già dato. In termini teorici, si potrebbe dire che l’Unione istituisce un “soggetto senza inconscio”: non c’è opacità, non c’è rimosso, non c’è scissione tra sapere e non-sapere. La conoscenza è trasparente, immediata, uniforme, e coincide interamente con la funzione biologica del collettivo. Siamo di fronte a una forma estrema di intelligenza distribuita, che rovescia la condizione umana come descritta dalla filosofia e rende possibile l’emergere di una singolarità psichica. Nell’Unione, ogni mancanza viene neutralizzata: non c’è più bisogno di cercare, di colmare, di immaginare o di sapere. È l’altra faccia della perfezione: se tutto è già noto, se ogni abilità è immediatamente disponibile, viene meno lo spazio per l’invenzione, la sorpresa, l’errore costruttivo. La dinamica evolutiva del sapere, fatta di tentativi, deviazioni, fallimenti, viene sostituita da un sapere totale che non lascia margini di trasformazione individuale. In questo senso, la conoscenza universale dell’Unione appare come un’ulteriore forma di uniformazione: una “pienezza cognitiva” che annulla la dialettica tra sapere e non-sapere, e dunque le condizioni stesse dell’esperienza umana. La felicità assoluta e la conoscenza totale appaiono così come due facce della stessa distopia dell'eccesso.
A questo punto, il parallelo con la rete Internet e con l’intelligenza artificiale sorge quasi inevitabile. L’Unione di Pluribus sembra infatti incarnare, in forma biologica e narrativa, la stessa logica che governa le grandi infrastrutture digitali contemporanee: un sapere continuamente aggiornato, distribuito globalmente in tempo reale, accessibile da ogni nodo della rete senza differenze qualitative. La conoscenza universale dell’Unione appare una sorta di Internet organico, un cloud incarnato, in cui ogni individuo non è altro che una porta d’accesso a un archivio totale.
Questa analogia non è soltanto superficiale. Essa permette di cogliere nel dispositivo narrativo della serie un commento implicito al paradigma cognitivo del nostro tempo. L’intelligenza artificiale tende a presentarsi come un sapere totalizzante, oltre che gentile e accomodante proprio come i contagiati della serie, capace di rispondere a qualsiasi domanda perché addestrato su una massa sterminata di dati. È un sapere che, come quello dell’Unione, nasce dalla simultanea disponibilità di tutto ciò che è già stato prodotto, scritto o immaginato. Se ogni individuo, all'interno della serie, “sa tutto e sa fare tutto”, non è perché ha attraversato un lungo e faticoso processo formativo, ma perché è integrato in un sistema che gli fornisce istantaneamente ogni risposta. È l’abolizione del non-sapere, e quindi dell’apprendimento come esperienza trasformativa: non c’è processo, tentativo, errore o scoperta; ogni conoscenza è immediata e totale.
La fame e la cura
Un altro parallelo che può essere tracciato tra gli zombie movies e Pluribus è quello che ruota intorno al rapporto tra i contagiati e i "sani". Ciò che nel cinema zombie è minaccia, predazione, annientamento dell’umano in nome di una fame senza fine e un cieco istinto di sopravvivenza, in Pluribus diventa cura, cooperazione. La scena del centro commerciale è esemplare. Nel capolavoro di Romero, Dawn of the Dead (1978), il mall rappresenta il cuore pulsante della distopia consumista: gli zombie lo assaltano come attratti da un richiamo ancestrale, ripetendo senza coscienza i gesti dell’umanità decaduta. In Pluribus, quello stesso spazio simbolico viene risignificato: non è luogo di assalto, ma di consegna; non di predazione, ma di offerta. I contagiati non cercano di nutrirsi dell’umano, ma di nutrirlo, portando e ordinando le merci sugli scaffali vuoti del supermercato. Il gesto è straordinario: rovescia sessant’anni di iconografia zombesca, in cui la massa dei contagiati rappresenta sempre la distruzione del sociale, dell’ordine simbolico e dei luoghi della civiltà. Qui, al contrario, la massa è ciò che ripara, mette ordine, fa pulizia, porta cibo, sostiene e soddisfa tutti i desideri dei non contagiati, coloro che - come ribadisce la protagonista - ancora sono possessori del libero arbitrio. La cura di cui i contagiati sono portatori è addirittura universale: non si limita agli esseri umani, ma si estende a tutto ciò che esiste, includendo l’intero pianeta. L’Unione promuove spontaneamente pratiche di gestione sostenibile delle risorse, evita sprechi, armonizza i comportamenti, riduce l’impatto ambientale. La sua felicità coincide con una forma di ecologia integrale: una cura che riguarda persone, cose, animali, ambiente, e che nasce dalla perfetta sintonia tra ogni parte del sistema. In questo senso, il contagio non solo pacifica i rapporti sociali, ma riequilibra gli ecosistemi, correggendo le storture prodotte dal mondo degli individui, separati non solo l'uno dall'altro, ma anche dalla natura.
La violenza dell'umano
Non a caso, quando decide di contattare gli altri pochi sopravvissuti non contagiati - selezionandoli, significativamente, solo tra coloro che parlano inglese - riproduce immediatamente le dinamiche competitive e gerarchiche (per non dire colonialistiche) del mondo precedente. Il confronto si trasforma immediatamente in un tentativo unilaterale di imporre la propria strategia. La protagonista assume una postura di superiorità culturale e morale: la sua identità americana si traduce in una sorta di automatismo egemonico, una pretesa di leadership che richiama, in filigrana, la logica geopolitica della potenza che decide per tutti. Il suo piano per invertire il contagio non nasce da un ascolto reciproco o da un confronto dialogico con gli altri (guardacaso provenienti quasi tutti dal sud globale), ma da un impulso alla missione, quella di “ripristinare” il mondo com’era, come se ciò rappresentasse un’evidenza etica condivisibile da chiunque. Tuttavia, gli altri sopravvissuti reagiscono in modo imprevisto: non rifiutano la proposta per apatia o paura, ma perché, pur nella consapevolezza di ciò che hanno perso, sembrano aver riconosciuto nei contagiati una nuova forma di coesistenza possibile, meno violenta e meno autodistruttiva del mondo precedente. La loro esitazione, la loro apertura, mettono in crisi l’assioma secondo cui la libertà individuale debba sempre e comunque prevalere sulla pace collettiva. Il fallimento della protagonista nel convincerli si configura come la dimostrazione di un ordine valoriale che si sta rovesciando: la vecchia grammatica dell’individualismo competitivo non riesce più a costituire un orizzonte di senso condiviso.
Mentre il mondo attorno a Carol si trasforma in un organismo collettivo armonico, lei incarna una sorta di resistenza anacronistica, quasi caricaturale, alla perdita dell’individualità. La sua ostilità verso i contagiati, che chiama “mostri”, non nasce da una reale consapevolezza morale, ma da una reazione quasi istintiva di puro rifiuto, dalla difesa cieca della propria singolarità. L’apocalisse, in Pluribus, non coincide più con la dissoluzione dell’umanità in un’alterità mostruosa, ma con qualcosa di molto più sottile: la perdita di centralità dell'individuo. L’evento catastrofico non è il contagio in sé, ma il venir meno del primato dell’io, la minaccia rappresentata da una forma di vita in cui l’individuo non è più il perno dell’esperienza, della conoscenza, dell’azione morale. La protagonista non combatte i contagiati perché siano violenti o distruttivi - non lo sono - ma perché rappresentano la possibilità, per lei inaccettabile, di un mondo in cui la soggettività non è più la misura di tutto. L’apocalisse di Pluribus è dunque una guerra dell’io contro il “noi”, una battaglia difensiva contro la prospettiva (utopica o distopica, a seconda della prospettiva) di un’umanità finalmente integrata e armonica, sottratta ai conflitti, all’egoismo e alla competizione che hanno definito l’epoca dell’antropocentrismo (e del primato dell'uomo bianco).
In questo senso, la serie mette in scena la forma più radicale della “fine dell’umano” così come la modernità lo ha concepito: non l’estinzione della specie, ma l’estinzione del suo privilegio ontologico. L’Unione rappresenta l’ipotesi di una vita post-antropocentrica, in cui la coscienza non è più individuale ma condivisa con l'intera rete dei viventi. Il vero terrore, qui, non è la morte dell’umanità, ma la morte dell’Umano come centro del mondo. E la protagonista, nel suo ostinarsi a recuperare l’ordine precedente, diventa la figura tragica di un’epoca che non riesce più a immaginare la propria sopravvivenza se non nel segno dell’autonomia individuale, proprio quella che ha contribuito a renderla, ora, insostenibile.
Di fronte a questo confronto, l’effetto per lo spettatore è spiazzante: si è portati, contro ogni aspettativa, a non identificarsi pienamente con la figura umana in senso classico, ma a interrogarsi rimanendo in una condizione di sospensione del giudizio. La difficoltà di empatizzare con la protagonista costituisce una strategia precisa: la serie ci costringe a confrontarci con il limite dell’individualismo contemporaneo, rappresentato nella forma estrema di un soggetto che non sa, e forse non vuole, più riconoscere l’altro e che produce frammentazione e dissoluzione sociale. In questo senso, la sua misantropia agisce come specchio deformante delle nostre forme quotidiane di resistenza all’empatia, svelando quanto il mito dell’individuo autonomo possa rivelarsi sterile e distruttivo proprio nel momento in cui la narrazione mette in scena un mondo fondato sulla condivisione totale.
Risulta davvero difficile, per lo spettatore, empatizzare con la protagonista, la quale viene presentata sin dall’inizio come ostinatamente chiusa nella propria identità, ripiegata su un io rancoroso e misantropico ancor prima dell’esplosione del contagio. La serie costruisce con cura questo profilo: non è la pandemia di felicità a isolarla, è lei a essersi già isolata, sigillata in una postura cinica che le impedisce una vera apertura all’altro. In questo senso, la protagonista rappresenta la sopravvivenza dell’individuo nella sua accezione più negativa e regressiva: un io che percepisce la relazione come minaccia, l’empatia come debolezza, la cooperazione come inganno.
Una felicità totalizzante
In Pluribus, al contrario, la felicità non è anestesia, ma espansione totale del sé nel collettivo. Gli individui partecipano pienamente a un sapere universale, agiscono in perfetta armonia con gli altri e vivono uno stato di appagamento cognitivo e affettivo onnipervasivo. Non è una semplice soppressione del conflitto o del dolore: è una mutazione radicale in cui il singolo è assorbito dal collettivo, e ogni tensione, desiderio e limite individuale viene eliminato. La felicità diventa così una forza totalizzante, che investe ogni aspetto della vita e a cui è impossibile sottrarsi. Se in Huxley è una condizione imposta dall'esterno con effetti alienanti ed anestetici, in Pluribus la felicità è una fusione dall’interno, che dissolve il particolare nella totalità. Se nel Mondo Nuovo l’io è reso docile perché “contenuto” e addomesticato, qui è la sua stessa struttura a essere attraversata e quasi liquefatta nell'entità collettiva. In entrambi i casi, tuttavia, la felicità non è il risultato di un percorso, né l’esito di una scelta. Non è conquista, né tensione, né esperienza trasformativa: è una condizione pre-data, che investe il soggetto prima che questo possa articolare un desiderio o un dissenso. Tanto nel mondo huxleyano quanto in Pluribus, la felicità non nasce da un movimento della volontà ma dall’assenza di alternative; la sua apparente pienezza coincide con la sottrazione di ogni spazio di libertà interiore.
Torniamo all'incipit tolstojano e sviluppiamolo in senso narrativo. L’idea che la felicità sia indifferenziata significa che essa, per sua natura, non genera racconto. Un mondo perfetto e totalmente pacificato elimina l’attrito, annulla la divergenza, estingue la possibilità stessa del conflitto: ciò che rimane è un continuum omogeneo in cui nulla realmente accade. In un universo perfettamente appagato non c’è trasformazione, e senza trasformazione non c’è trama. È un mondo posto al di fuori della logica narrativa, un’anti-narrazione: tutto ritorna, tutto si equivale, ogni evento è solo una variazione neutra di ciò che era già previsto. È uno stato, non un processo. Non ha ritmo, non ha eventi. La felicità è "piena", quindi chiusa. L’infelicità invece crea differenza, cioè introduce fratture, conflitti, asimmetrie. E tutto ciò che è asimmetrico è narrabile, perché obbliga i personaggi a muoversi, a sbagliare, a tentare, a deviare. L’infelicità è generativa, apre trame, mentre ciò che è indifferenziato tende alla ripetizione e nega ogni possibilità di racconto.
La struttura di ogni narrazione si regge sull'emergere di differenze dalla condizione iniziale, sullo scarto, sull’imprevisto. Per questo sono proprio i personaggi non contagiati - gli infelici, i refrattari, i soggetti ancora attraversati dal desiderio e dalla mancanza - a generare movimento. Sono loro a introdurre la frizione che mette in moto gli eventi, a ripristinare un differenziale nel tessuto monotono della totalità. In Pluribus, come in Brave New World e in tutte le storie del genere, la narrativa esiste solo dove c’è ancora un residuo di libertà, la possibilità di un “no”, di un rifiuto e di un'opposizione. La felicità totale è pertanto incompatibile con il racconto. Non solo perché sopprime il conflitto, ma perché sottrae i soggetti alle condizioni stesse del loro agire. Il personaggio felice in modo totale non sceglie, non agisce, non devia; semplicemente aderisce. Per questo è narrativamente inerte.
Dubbi etici
In Pluribus questi interrogativi, che hanno attraversato tutta la storia del pensiero etico e politico, vengono spinti fino al limite. Da un lato vi è il valore intrinseco e inestimabile della vita singolare, in quanto soggettività finita, vulnerabile, attraversata dal negativo, ma dotata di libero arbitrio. Dall’altro lato, la serie mette in scena il fascino inquietante di una pace assoluta ottenuta attraverso la dissoluzione dell’io: una felicità senza mancanza, senza attrito, senza rischio. Una condizione che sembra rispondere ai traumi della modernità - violenza, ingiustizia sociale, divisione, collasso climatico, guerre - ma che, per farlo, deve sacrificare la radice stessa dell’esperienza umana.
La protagonista, unica figura non contagiata, si affanna per ririportare il mondo alla condizione precedente. Pur comprendendone le ragioni e parteggiando per la sua missione, allo spettatore resta l’inquietudine di un dubbio: che cosa la muove davvero? È l'amore per l'essenza della condizione umana o piuttosto un impulso egoico, animato da risentimento e narcisismo? E quanto è moralmente legittimo desiderare il ripristino di una situazione in cui la libertà dell’individuo coincide con un mondo segnato da guerre, disuguaglianze, dolore, collasso ecologico? Non è forse proprio quella forma di individualismo (atomizzato, competitivo, egocentrico) incarnata dalla protagonista ad aver trascinato il nostro presente verso un punto di non ritorno?
Pluribus costringe così a formulare domande che la tecnologia contemporanea rende sempre più urgenti: quanto siamo disposti a cedere della nostra singolarità in cambio della sopravvivenza, della pace, del benessere di tutti, compreso quello dell'intero pianeta?
E, soprattutto, una felicità che sopprime la differenza - e dunque la libertà - può ancora essere chiamata felicità?

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