L’immagine è costitutivamente ambigua. A differenza del linguaggio verbale, non trasmette messaggi soggetti a codici rigorosi di significazione: non dice, ma mostra; non spiega, ma suggerisce. La sua forza non sta nella chiarezza enunciativa, bensì nella capacità di aprire lo sguardo a una pluralità di interpretazioni. In ogni immagine convivono più sensi possibili, più verità in tensione. È questa la sua polisemia, la sua natura irriducibile a un’unica lettura.
Ma proprio questa libertà del visivo - la sua resistenza alla definizione - ha generato, nel corso della storia, diffidenze e reazioni violente. Ogni volta che una cultura ha cercato di fondare la verità su un linguaggio stabile e controllabile, l’immagine è diventata sospetta. La sua ambiguità, fonte di emozione e di turbamento, è stata percepita come una minaccia: come la possibilità di deviare il senso, di ingannare lo sguardo, di sovvertire il principio della chiarezza.
Ma proprio questa libertà del visivo - la sua resistenza alla definizione - ha generato, nel corso della storia, diffidenze e reazioni violente. Ogni volta che una cultura ha cercato di fondare la verità su un linguaggio stabile e controllabile, l’immagine è diventata sospetta. La sua ambiguità, fonte di emozione e di turbamento, è stata percepita come una minaccia: come la possibilità di deviare il senso, di ingannare lo sguardo, di sovvertire il principio della chiarezza.
A differenza del linguaggio, l’immagine non obbedisce a un sistema di segni univoco. Essa rimanda a una realtà sensibile che si offre all’occhio, ma non ne garantisce mai una lettura stabile o definitiva. Ogni spettatore vi proietta un proprio orizzonte di senso, rendendo l’immagine un luogo di interpretazione più che di comunicazione. In questo senso, la sua ambiguità non è un difetto, ma una condizione costitutiva: l’immagine vive di polisemia, di echi, di zone d’indecisione tra presenza e rappresentazione.
L’immagine non ha bisogno di parole per agire. Parla direttamente ai sensi, al desiderio, all’immaginazione. È proprio in questa immediatezza che si cela la sua potenza, ma anche il suo pericolo. Mentre la parola si struttura nel tempo - sequenza, ordine, logica - l’immagine si offre tutta in un colpo, in uno spazio simultaneo dove il significato resta aperto.
Da sempre, i poteri religiosi e politici hanno cercato di controllare questa apertura. Dove la parola stabilisce dogmi, l’immagine genera ambiguità. È proprio tale ambiguità a renderla un oggetto problematico per ogni sistema di potere o di pensiero che mira al controllo del significato. Le immagini sfuggono alla sorveglianza semantica; possono suscitare idolatria, emozione, turbamento, senza che ciò sia pienamente prevedibile o regolabile.
Iconoclastia e supremazia della scrittura
La storia delle iconoclastie è anche la storia di questo sospetto, di questa diffidenza verso la potenza indisciplinata dell’immagine. Nell’Impero bizantino, tra VIII e IX secolo, la lotta contro le icone fu in parte una lotta contro la loro ambiguità ontologica: che cosa sono le immagini sacre? Mere rappresentazioni o presenze reali del divino? L’iconoclastia risponde con la distruzione, temendo che il fedele confonda il segno con il referente, l’immagine con Dio stesso. In questa prospettiva, l’immagine appare come un rischio teologico: il rischio di confondere il visibile con l’invisibile. Per evitarlo, si riafferma la centralità della scrittura - parola ispirata, controllata, “trasparente” - contro la seduzione visiva. La parola è garantita dal logos; l’immagine, invece, è sospetta perché non dice chiaramente, ma mostra in modo sensuale, coinvolgente, e dunque potenzialmente ingannevole. Distruggere le immagini significava riaffermare che solo la Parola - il Verbo, il testo sacro - poteva trasmettere la verità di Dio senza ambiguità.
Questa stessa logica riemerse nel XVI secolo con la Riforma protestante. Lutero e soprattutto Calvino considerano le immagini religiose una fonte di deviazione idolatrica: oggetti che distolgono il fedele dal Verbo. La fede deve fondarsi sull’ascolto e sulla lettura della Scrittura, non sulla visione. Il fedele, sostenevano, doveva tornare alla purezza della Scrittura, alla trasparenza del testo, alla certezza della parola. L’immagine, invece, restava troppo umana, troppo corporea, troppo incline al fraintendimento. L’iconoclastia protestante, di conseguenza, rinnova il primato del testo sulla figura, della parola sullo sguardo.
In entrambi i casi - bizantino e riformato - l’immagine viene messa sotto accusa non solo per motivi teologici legati al rischio di idolatria, ma anche per motivi epistemologici: perché non dice chiaramente ciò che mostra. La scrittura, attraverso la linearità e la codificazione sintattica, è considerata il mezzo più affidabile della verità. L’immagine, invece, è vista come spazio di ambiguità, di possibile errore, di libertà incontrollata del senso.
I movimenti iconoclasti hanno dunque in comune una volontà di subordinare il visivo al verbale, di ridurre la polisemia dell’immagine alla monosemia del testo. La scrittura - lineare, codificata, controllabile - appare come lo strumento della verità; l’immagine, come luogo del desiderio, dell'ambiguità e dell’errore.
Questa gerarchia tra parola e immagine non appartiene solo al passato. Ancora oggi, di fronte all’inflazione visiva del mondo digitale, riemerge il timore antico: quello di essere ingannati dalle immagini. Dalle fake news visive ai deepfake, dalle manipolazioni mediatiche alla spettacolarizzazione del dolore, la diffidenza contemporanea riprende le forme di una nuova iconoclastia: una paura del potere seduttivo e deformante del visibile.
In entrambi i casi - bizantino e riformato - l’immagine viene messa sotto accusa non solo per motivi teologici legati al rischio di idolatria, ma anche per motivi epistemologici: perché non dice chiaramente ciò che mostra. La scrittura, attraverso la linearità e la codificazione sintattica, è considerata il mezzo più affidabile della verità. L’immagine, invece, è vista come spazio di ambiguità, di possibile errore, di libertà incontrollata del senso.
I movimenti iconoclasti hanno dunque in comune una volontà di subordinare il visivo al verbale, di ridurre la polisemia dell’immagine alla monosemia del testo. La scrittura - lineare, codificata, controllabile - appare come lo strumento della verità; l’immagine, come luogo del desiderio, dell'ambiguità e dell’errore.
Questa gerarchia tra parola e immagine non appartiene solo al passato. Ancora oggi, di fronte all’inflazione visiva del mondo digitale, riemerge il timore antico: quello di essere ingannati dalle immagini. Dalle fake news visive ai deepfake, dalle manipolazioni mediatiche alla spettacolarizzazione del dolore, la diffidenza contemporanea riprende le forme di una nuova iconoclastia: una paura del potere seduttivo e deformante del visibile.
Dall'immagine come rappresentazione a immagine come campo di esperienza ed evento di senso.
Anche oggi, nell’epoca delle immagini digitali e sintetiche, l’iconoclastia assume nuove forme. Il sospetto verso la manipolabilità dell’immagine, la sua capacità di simulare e falsificare riattualizza la paura antica: l’immagine come inganno, come minaccia alla verità. Di fronte all'odierna inflazione visiva, l’antico gesto iconoclasta - distruggere, censurare, negare - riappare sotto nuove forme: algoritmi che oscurano, piattaforme che filtrano contenuti in base a criteri poco trasparenti, appelli apocalittici. Si teme ancora una volta l’ambiguità dell’immagine, la sua resistenza alla verifica linguistica, la sua seduzione e potenza emotiva che precede la riflessione razionale.
Dietro ogni distruzione d’immagini si nasconde dunque la medesima preoccupazione: l’immagine sfugge al controllo, non obbedisce ai codici del linguaggio verbale, apre spazi di senso che non possono essere pienamente governati. Comprendere la storia dell’iconoclastia significa riconoscere che ogni civiltà, a suo modo, ha tentato di disciplinare il potere delle immagini. L’iconoclastia bizantina, come quella protestante, non fu solo una guerra contro gli idoli, ma un tentativo di regolare l’eccesso semantico delle figure, di contenerne la forza emotiva e ambigua entro l’ordine della parola e del dogma.
A differenza dei linguaggi verbali, le immagini non dispongono di un codice rigido: sono sistemi flessibili, retorici, connotativi, la cui interpretazione varia secondo i contesti, le culture, i corpi che le guardano. Non si tratta solo di polisemia nel senso linguistico, ma di una variabilità antropologica: il senso di un’immagine non è mai universale, ma nasce nell’incontro tra medium, sguardo e contesto. Un’icona bizantina, un affresco rinascimentale, una fotografia di guerra o un post sui social media non “significano” nello stesso modo, perché si iscrivono in regimi di visibilità diversi - cultuali, artistici, mediatici - che ne ridefiniscono costantemente la funzione e la ricezione. In questo senso, la polisemia dell’immagine è storica e incarnata: le immagini non significano, agiscono. Esse non comunicano semplicemente un messaggio, ma producono effetti, mobilitano emozioni, orientano desideri, plasmano comportamenti. Le immagini sono entità relazionali: generano senso nel dialogo con i testi, gli spazi, i dispositivi tecnologici che le ospitano. Non sono mai neutre, né passive; al contrario, partecipano attivamente alla costruzione del visibile e dell’invisibile nella società.
Forse il problema non è l’ambiguità delle immagini, ma la nostra incapacità di abitarla. Continuiamo a chiedere all’immagine ciò che essa non può darci: la certezza, la trasparenza, l’univocità. E così, come nei secoli passati, di fronte all’eccesso visivo contemporaneo - la sovrabbondanza di immagini generate, diffuse, manipolate - riaffiorano nuove forme di iconoclastia: non più distruzioni materiali, ma filtri algoritmici, censure automatiche, rimozioni preventive. Anche qui si tenta di disciplinare la potenza del visibile, riducendo la sua ambiguità entro categorie binarie di “consentito” e “proibito”, “vero” e “falso”, “sicuro” e “nocivo”.
Accettare la polisemia dell’immagine significa invece riconoscere che il suo senso non è mai chiuso. Ogni visione è un atto interpretativo, una negoziazione di significati. L’immagine non è un enunciato da decifrare, ma un campo di forze da attraversare. L’unica forma di iconofilia critica possibile oggi consiste forse nel non temere questa ambiguità, ma nel farne spazio di consapevolezza. Imparare a guardare senza pretendere di possedere ciò che si vede. Perché l’immagine non è mai “una cosa sola”: è spazio di conflitto, di tensione tra opposti: apparire e scomparire, mostrare e nascondere, presenza e assenza. Essa è polisemica non perché confusa, ma perché viva, inquieta, attraversata da ciò che eccede il suo stesso apparire.
Non si tratta dunque di riproporre nuovi atti iconoclastici per reagire all’inflazione visiva odierna, ma di ripensare il nostro modo di stare davanti alle immagini: passare da una concezione dell’immagine come mezzo di rappresentazione - che dovrebbe essere chiaro, controllabile - a una visione dell’immagine come campo di esperienza, evento di senso; riconoscere che le immagini non comunicano messaggi univoci, ma configurano spazi di percezione, aprono possibilità multiple di interpretazione. Guardare, allora, non significa decifrare, ma abitare un dissenso: lasciarsi attraversare da ciò che l’immagine porta e che non si lascia mai del tutto possedere.
Forse il problema non è l’ambiguità delle immagini, ma la nostra incapacità di abitarla. Continuiamo a chiedere all’immagine ciò che essa non può darci: la certezza, la trasparenza, l’univocità. E così, come nei secoli passati, di fronte all’eccesso visivo contemporaneo - la sovrabbondanza di immagini generate, diffuse, manipolate - riaffiorano nuove forme di iconoclastia: non più distruzioni materiali, ma filtri algoritmici, censure automatiche, rimozioni preventive. Anche qui si tenta di disciplinare la potenza del visibile, riducendo la sua ambiguità entro categorie binarie di “consentito” e “proibito”, “vero” e “falso”, “sicuro” e “nocivo”.
Accettare la polisemia dell’immagine significa invece riconoscere che il suo senso non è mai chiuso. Ogni visione è un atto interpretativo, una negoziazione di significati. L’immagine non è un enunciato da decifrare, ma un campo di forze da attraversare. L’unica forma di iconofilia critica possibile oggi consiste forse nel non temere questa ambiguità, ma nel farne spazio di consapevolezza. Imparare a guardare senza pretendere di possedere ciò che si vede. Perché l’immagine non è mai “una cosa sola”: è spazio di conflitto, di tensione tra opposti: apparire e scomparire, mostrare e nascondere, presenza e assenza. Essa è polisemica non perché confusa, ma perché viva, inquieta, attraversata da ciò che eccede il suo stesso apparire.
Non si tratta dunque di riproporre nuovi atti iconoclastici per reagire all’inflazione visiva odierna, ma di ripensare il nostro modo di stare davanti alle immagini: passare da una concezione dell’immagine come mezzo di rappresentazione - che dovrebbe essere chiaro, controllabile - a una visione dell’immagine come campo di esperienza, evento di senso; riconoscere che le immagini non comunicano messaggi univoci, ma configurano spazi di percezione, aprono possibilità multiple di interpretazione. Guardare, allora, non significa decifrare, ma abitare un dissenso: lasciarsi attraversare da ciò che l’immagine porta e che non si lascia mai del tutto possedere.

Nessun commento:
Posta un commento