mercoledì 19 novembre 2025

Il sintomo come categoria critica dell’immagine

Maestro delle Storie di Elena, L'imbarco di Elena per Citera, particolare, 1445 ca. - 1450 ca.


Il termine sintomo, applicato ai discorsi sulle immagini, apre un campo teorico denso e interdisciplinare. Implica una concezione dell’immagine non come superficie compiuta e autosufficiente, ma come manifestazione di forze, tensioni e sopravvivenze che la attraversano; l’affiorare di strutture culturali profonde che la precedono e la eccedono. Pensare l’immagine come sintomo significa leggerla come traccia vivente, come l’emergere inatteso di ciò che insiste sotto la sua forma apparente. In questa prospettiva, la sintomatologia dell’immagine diventa una via privilegiata per cogliere la natura stratificata dei fenomeni visivi, là dove storia, psiche, memoria e cultura si intrecciano in configurazioni spesso opache e irregolari.


Warburg: il sintomo come sopravvivenza in atto

Aby Warburg non usa il termine sintomo come strumento teorico, ma tutto il suo progetto intellettuale può essere definito sintomatologico. Nell’articolo Dialektik des Monstrums: Aby Warburg and the Symptom Paradigm, Georges Didi-Huberman propone che la nozione di sintomo freudiano costituisca un paradigma interpretativo fondamentale per comprendere il pensiero warburghiano dell’immagine. Secondo Didi-Huberman, Warburg non è solo uno storico dell’arte in quanto egli sviluppa una “psicopatologia delle immagini”, in cui nozioni come Nachleben (sopravvivenza) e Pathosformel (formula del pathos) devono essere intesi come manifestazioni sintomatiche, analoghe ai meccanismi freudiani di rimozione, ritorno del rimosso o spostamento (displacement). 
Le Pathosformel - pose gestuali ricorrenti, silhouette drammatiche, posture tese - sono veri e propri “corpi sintomatici”: queste eccedenze energetiche non esprimono una semplice emozione estetica, ma condensano una memoria patologica, una carica affettiva che sopravvive nel tempo come un residuo psichico collettivo. Esse sono, di fatto, dei sintomi culturali che resistono alla linearità storica: condensazioni stilistiche in cui riaffiorano energie psichiche antiche, riattivate in contesti storici differenti. Warburg analizza l’immagine come superficie di crisi: ogni figura, ogni gesto, ogni formula patetica rappresenta lo sbocco visibile di un conflitto tra tendenze opposte, l’impulso dionisiaco e la misura apollinea, il tumulto delle passioni e la razionalizzazione formale. L’immagine, dunque, non nasconde ma rivela la tensione che l’ha generata. La nozione warburghiana di Nachleben der Antike (sopravvivenza dell’antico) può essere considerato un paradigma sintomatologico: ciò che sopravvive lo fa per sintomo, non per continuità lineare. Il passato ritorna come una forza perturbante, come un residuo non pacificato. Lo spettro dell’antico agisce nel presente comparendo sotto forma di gesti ricorrenti, pose convulse, drappeggi agitati: piccole “scariche” attraverso cui la memoria culturale si manifesta.
Didi-Huberman analizza la struttura formale, visiva e temporale del sintomo warburghiano, evidenziando come Warburg si ispiri, consapevolmente o meno, a modelli psicologici propri del XIX secolo (come quelli di Charcot) che precedono e influenzano il modello freudiano.  In tale paradigma, il sintomo diventa uno strumento interpretativo potente: non solo segnale di un disturbo o di una nevrosi, ma anche indice di un conflitto culturale, di una tensione storica non risolta. Un altro nodo cruciale per Didi-Huberman è la nozione di dialettica nel sintomo: Warburg non concepisce le sopravvivenze dell’antico come semplici residui stabili, ma come forze dinamiche che oscillano tra espressione e repressione, tra forma controllata e impulsi affettivi disordinati. Questa dialettica del “mostro” (da cui il titolo dell’articolo) è centrale: il “mostro” non è una mostruosità morale, bensì un’entità visiva che incarna una forza irrisolta, un elemento patologico che Warburg mette in scena per mostrarne la persistente vitalità.
Per Didi-Huberman, allora, la storia delle immagini di Warburg va interpretata non come un racconto lineare di evoluzione stilistica, ma come una sorta di psicoanalisi culturale: le immagini warburghiane sono sintomi che parlano della memoria traumatica dell’Occidente, delle sue pulsioni affettive e delle sue tensioni repressive. In questo senso, Warburg inaugura una metodologia che anticipa, pur con strumenti diversi, una “storia patologica delle immagini”: un’analisi dove la rappresentazione non è mai completamente pacificata. Dove l'immagine non "illumina" la storia; piuttosto la inquieta, poiché ognuna di esse contiene una crisi del tempo.

Panofsky e la razionalizzazione del sintomo

Panofsky viene tradizionalmente considerato l’erede più sistematico di Aby Warburg, colui che, pur assumendone l’impostazione storico-culturale, tende a irrigidire la complessità dinamica del pensiero warburghiano entro una struttura più stabile e razionalizzata di relazioni tra segni e significati. Se Warburg lavora sulle immagini come luoghi di tensioni, sopravvivenze e conflitti - un campo instabile in cui forme e affetti ritornano come sintomi di memorie culturali rimosse - Panofsky organizza invece la lettura dell’immagine secondo un metodo progressivo, fondato su livelli distinti di significazione. In questo passaggio, la mobilità inquieta delle Pathosformeln warburghiane si traduce in un apparato interpretativo più saldo, dove il rapporto tra elemento visivo e significato culturale appare maggiormente addomesticato e controllato.
Nel celebre saggio Iconografia e Iconologia (1939), Panofsky stabilisce una gerarchia interpretativa fondata su tre livelli - pre-iconografico, iconografico, iconologico - che sembrano ordinare l’immagine entro una progressiva chiarificazione semantica. Tuttavia, proprio nel passaggio più alto, quello dell’interpretazione iconologica, emerge una nozione di sintomo sorprendentemente vicina a un paradigma diagnostico, sebbene epurata da qualsiasi dimensione traumatica. Panofsky scrive infatti che quando interpretiamo un’opera non come «tema» o «motivo», ma come documento di una civiltà, di un atteggiamento religioso o della personalità di un artista, allora «noi consideriamo l’opera d’arte come un sintomo di qualcosa d’altro che si esprime in infiniti altri sintomi, e interpretiamo i suoi aspetti compositivi e iconografici come manifestazioni più dettagliate di questo “qualcosa d’altro”» (Iconografia e Iconologia. Introduzione allo studio dell'arte del Rinascimento, in ID., Il significato nelle arti visive, Einaudi 1996, p. 36).  Più avanti, precisa che tale metodo richiede «una storia dei sintomi culturali o genericamente “simboli”, nel significato che Ernst Cassirer ha dato al termine».
Questo impiego del termine sintomo è particolarmente significativo perché rivela un punto di frizione interno al metodo panofskyano. Da un lato, Panofsky irrigidisce la mobilità warburghiana in una griglia interpretativa più stabile, più “classica” nel rapporto segno/significato; dall’altro, ammette che l’opera d’arte possieda una dimensione eccedente rispetto ai contenuti intenzionali. In questo senso, ciò che egli chiama sintomo coincide con ciò che l’artista non può controllare: non il tratto soggettivo o psicologico, ma la sedimentazione culturale che si esprime involontariamente nelle forme. In Panofsky, dunque, il sintomo non è la frattura inquietante che troviamo in Freud o in Didi-Huberman, né la sopravvivenza perturbante di una memoria culturale come in Warburg: è piuttosto un segnale — un indice strutturale che rivela l’“habitus mentale” di una civiltà, un sistema di valori, una visione del mondo. Un certo modo di costruire lo spazio, una postura ricorrente, un dettaglio architettonico non sono più soltanto elementi formali, ma indizi non intenzionali di un’intera costellazione culturale.
Il sintomo panofskyano opera dunque come un dispositivo epistemologico: permette di leggere l’immagine come documento delle “tendenze generali ed essenziali dello spirito umano”, nel loro mutare attraverso le diverse epoche. Il livello iconologico, lungi dall’essere un semplice approfondimento semantico, diventa così una forma di diagnosi storica, in cui l’immagine è chiamata a parlare non di se stessa, ma del mondo che l’ha prodotta. In questo modo, Panofsky razionalizza e normalizza una nozione che, nel paradigma warburghiano e in quello didi-hubermaniano, conserva invece una dimensione di instabilità e perturbazione. Proprio questa tensione - tra la chiusura epistemica di Panofsky e l’apertura sintomatica teorizzata da Warburg e Didi-Huberman - costituisce uno snodo cruciale per comprendere l’evoluzione del concetto di sintomo nella teoria dell’immagine del Novecento.


Didi-Huberman: il sintomo come frattura del visibile

Didi-Huberman rifiuta la concezione panofskiana secondo cui la significazione si sviluppa attraverso una progressione ordinata di livelli interpretativi. Egli propone invece una visione più dinamica e problematica dell’immagine, concependola come un campo di tensioni, dove il senso non è mai completamente fissato. Il suo approccio è fortemente influenzato dalla psicoanalisi freudiana, in particolare dall’idea di sintomo, un termine che ricorre spesso nei suoi scritti. In essi l'immagine non è concepita soltanto come un sistema di segni da decifrare, ma come un luogo di discontinuità, in cui emergono tracce di un passato rimosso, fratture del visibile che resistono alla riduzione a un significato univoco. L’esperienza dello spettatore che si lascia provocare dai sintomi è quella di colui il quale vince la tentazione di guadagnare velocemente la meta della lettura esaustiva dell’opera, della sua interpretazione iconografica, dell’esauribilità dei contenuti. 
L’immagine occidentale – scrive Didi-Huberman in Davanti all'immagine – è agitata da un lavoro che oscilla tra due opposte tensioni: la visione da una parte e la lacerazione dall’altra, l’interpretazione dei significati e la scoperta dell’inintelligibile. La lettura e il trauma. Riprende da Freud la nozione di sintomo (symptôma, “evenienza, circostanza” da syn- “insieme” e -piptein “cadere”) per intendere ciò che appunto “si sottrae” alla decifrazione simbolico-semantica, ciò che non è traducibile, che non è riconducibile totalmente a un significato consolidato. Il sintomo è perdita, crisi, lacerazione; si colloca in una zona incerta, espressione di una frattura o di un trauma che si manifesta senza una chiusura risolutiva. Analogamente, l’immagine sintomatica è quella che rifiuta di essere definitivamente catturata nel significato e impone un’apertura che è anche sprofondamento, una sospensione interpretativa. 
L’immagine non ci «parla» più nell’elemento accordato di un codice iconografico, ma fa sintomo, vale a dire grido o mutismo nella supposta immagine parlante" (Davanti all'immagine, Mimesis 2016).
Fare esperienza di un’immagine, dunque, significa mettere in dialogo simboli e sintomi, senso e non-senso, metafore e metamorfosi o – con un richiamo a Warburg – astra e monstra, logos e pathos. La nozione di sintomo di Didi-Huberman innesca un cambiamento radicale nell'approccio alla storia dell'arte. Se gli storici dell’arte hanno da sempre voluto cercare una corrispondenza perfetta tra i dettagli dell’opera e i loro significati, supposti fissi e immutabili, unità indissolubili di senso dalla cui somma emerge il significato dell’opera, il nuovo approccio accoglie invece la potenza d’urto delle immagini, la loro capacità di apertura a un senso che è sempre e solo instabile e provvisorio. Alla concezione dell’opera come sistema chiuso e perfettamente decifrabile, Didi-Huberman oppone l’idea di un senso instabile, aperto, che non si cristallizza mai in una codifica definitiva. Di fronte a un quadro, la deduzione di un simbolo generale non è mai del tutto possibile, nella misura in cui l’immagine mi propone molto spesso non dei significati da riconoscere, ma delle soglie da infrangere, delle certezze da perdere, delle identificazioni da rimettere improvvisamente in questione. È questa l’efficacia del sintomo, la sua temporalità di sincope: l’identificazione dei simboli si polverizza per espandersi in modo spaventoso.
Il contributo di Didi-Huberman mostra così come la nozione di sintomo possa essere applicata non solo a elementi isolati dell’opera, ma all’immagine nel suo complesso, trasformandola in uno strumento per leggere fratture storiche, tensioni psichiche e sopravvivenze culturali, e ponendo le basi per una teoria dell’immagine come spazio dinamico, sospeso tra visibile e invisibile, tra comprensione e resistenza.


Il paradigma sintomatico nell’arte contemporanea secondo Hal Foster

Oltre a Didi-Huberman, è Hal Foster a rilanciare in modo decisivo l’uso del concetto di sintomo, ripensandolo all’interno di una più ampia teoria critica della cultura visuale. Nel capitolo Signs and Symptoms del suo saggio Recodings: Art, Spectacle, Cultural Politics (1985), Foster invita a leggere le pratiche artistiche della tarda modernità e del postmoderno non solo come sistemi di segni da decifrare, ma soprattutto come sintomi: manifestazioni paradossali, talvolta contraddittorie, di dinamiche culturali, economiche e politiche che attraversano il corpo sociale. Per Foster, molte opere - soprattutto quelle della cosiddetta “post-avant-garde” - funzionano come «sintomi culturali», ovvero come luoghi in cui emergono le contraddizioni rimosse della società tardo-capitalistica, tensioni politiche o affettive che non trovano spazio nel discorso ufficiale. Le opere non sono semplicemente portatrici di segni da interpretare; esse manifestano, spesso in forma involontaria, ciò che nel corpo sociale non trova espressione discorsiva. Da qui la loro natura sintomatica: una superficie disturbata, attraversata da tensioni che eccedono la trasparenza iconografica e che reintroducono opacità, disturbo, attrito. L’opera, in questa prospettiva, non si limita a “rappresentare” un contesto: lo rivela al modo di un sintomo clinico, mettendo a nudo tensioni latenti, rimozioni collettive, fantasmi che abitano la sfera pubblica. Non si tratta più, pertanto, di leggere l’opera come un sistema simbolico, ma di coglierla come manifestazione involontaria, come ciò che nel visibile manifesta una crisi o una frattura culturale. Foster parla delle opere come di signs and symptoms, segni che non rinviano a un codice stabile, ma che rivelano sintomaticamente ciò che la cultura non può completamente articolare. 
Questo concetto di sintomo è debitore, da un lato, alla psicoanalisi freudiana (Foster parla esplicitamente di ritorni del represso nel linguaggio dell’arte); dall’altro, alle tradizioni teoriche che vedono la cultura come una superficie dalla quale emergono, deformati, i conflitti di potere. Il sintomo non è dunque un semplice indizio, come avveniva in Panofsky, né un luogo di sopravvivenza affettiva, come in Warburg, né una lacerazione del visibile, come in Didi-Huberman: esso diventa piuttosto il punto in cui la cultura mostra il proprio limite, la propria crisi strutturale, attraverso forme che mettono a disagio, che si aprono all’ambivalenza, che resistono alla stabilizzazione semantica. L’immagine diventa il luogo in cui riemergono, come in un ritorno del rimosso, elementi traumatici o non risolti dell’esperienza collettiva. L’opera si presenta così come una superficie disturbata, attraversata da un’eccedenza che non può essere del tutto assimilata dal discorso critico. Da qui la sua funzione profondamente diagnostica: le immagini, lungi dal confermare un ordine iconografico, lo incrinano; lungi dal restituire una visione pacificata, interrompono la continuità del senso, esponendo ciò che la cultura vorrebbe tacere. Foster analizza così alcune pratiche dell’arte contemporanea - appropriazione, simulazione, citazione ironica, montaggio - come veri e propri dispositivi sintomatici. Queste forme, apparentemente distanti e fredde, funzionano invece come luoghi in cui affiorano le contraddizioni del capitalismo avanzato: la mercificazione dell’immagine, la spettacolarizzazione della vita quotidiana, la sovrapposizione fra trauma storico e consumo, fra memoria e intrattenimento. L’arte non denuncia direttamente questi processi; li incarna, mostrandone gli effetti residui, distorti, talvolta patogeni. In questa prospettiva, il sintomo diventa una categoria critica imprescindibile per lo studio del visuale. L’immagine sintomatica, per Foster, non è ciò che rappresenta, ma ciò che accade nell’immagine, come scompenso, eccesso, inceppamento. L’arte appare così come un luogo in cui la cultura manifesta ciò che non riesce ad assimilare né a rimuovere. 
Sia per Didi-Huberman che per Foster, il sintomo agisce come un dispositivo di apertura: frattura il senso, disallinea la lettura, impone allo sguardo una posizione più instabile, sospesa, problematica. L’immagine sintomatica, che sia il luogo del trauma (Didi-Huberman) o il luogo del rimosso culturale (Foster), costringe sempre il soggetto a un'esperienza di crisi dello sguardo: nessuna iconografia può contenerla, nessuna interpretazione può esaurirla. Con Foster, la nozione di sintomo si sposta dal dominio della storia dell’arte a quello della critica culturale: non più solo chiave interpretativa per le immagini, ma strumento per leggere l’intero paesaggio visivo come una scena in cui si esprimono - in modo disordinato, contraddittorio e spesso disturbante - le tensioni fondamentali della contemporaneità.

Messi a confronto, questi approcci non si contraddicono ma si illuminano reciprocamente. Il sintomo è, in tutti i casi, ciò che fa dell’immagine un luogo di resistenza e rivelazione: resistenza all’interpretazione univoca, rivelazione di una temporalità compressa e sincopata, di un desiderio, di un territorio culturale, di un trauma, di una crisi. È ciò che sottrae l’immagine alla piena trasparenza e la restituisce come spazio di interrogazione. Rintracciare il sintomo nelle immagini significa, in definitiva, sottrarsi a una lettura piatta e lineare per riconoscere nell’immagine un dispositivo inquieto, attraversato da forze e tensioni che eccedono la sua stessa superficie. È proprio in questa zona di eccedenza, in ciò che l’immagine lascia trapelare senza saperlo e affiora suo malgrado, che la teoria dell’immagine trova il suo terreno più fecondo. Lì dove il visibile si incrina e si apre una soglia, una fessura attraverso la quale filtra la densità dell’invisibile, il suo lavorio sotterraneo, la sua deflagrante energia.


Bibliografia

Didi-Huberman G., Davanti all'immagine, Mimesis 2016.
Didi-Huberman G., Dialektik des Monstrums: Aby Warburg and the Symptom Paradigm, in Art History, vol. 24, 2001, pp. 621-645.
Forster K.W., Mazzucco K., Introduzione ad Aby Warburg e all'Atlante della Memoria, a cura di M. Centanni, Mondadori, 2002.
Foster H., Recodings: Art, Spectacle, Cultural Politics, Bay Press, 1985.
Foster H., The Return of the Real. Art and Theory at the End of the Century, MIT Press, 1996.
Panofsky E.Il significato nelle arti visive, Einaudi 1996.
Warburg A., La rinascita del paganesimo antico, La Nuova Italia, 1966.






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