lunedì 3 novembre 2025

Oltre realismo e costruttivismo. Un'ipotesi di co-emergenza


Il nodo della questione

Il dibattito fra realismo e costruttivismo attraversa come un filo rosso la storia della filosofia moderna e contemporanea. Le due posizioni rappresentano, in fondo, due modalità opposte di pensare il rapporto tra mente e mondo, tra soggetto e oggetto, tra conoscenza e realtà.
Il realismo afferma che esiste un mondo indipendente dal soggetto conoscente e che, almeno in parte, possiamo accedere ad esso così com’è. La conoscenza, in questa prospettiva, non crea il reale ma lo rappresenta: l’atto conoscitivo ha la funzione di rispecchiare, più o meno fedelmente, ciò che esiste al di là di noi. È un paradigma che trova radici antiche - dal logos greco alla scienza galileiana - e che si è tradotto, nella modernità, nell'ideale di una descrizione oggettiva del mondo.
Il costruttivismo, al contrario, mette in discussione la possibilità stessa di un accesso “puro” alla realtà. Ogni sapere è una costruzione situata, mediata dal linguaggio, dalla cultura, dagli strumenti e dalle prospettive storiche. Non esiste un “dato” neutro, ma soltanto interpretazioni. Il mondo che conosciamo è già intriso delle nostre categorie, dei nostri simboli, delle nostre tecnologie cognitive. In questo senso, il costruttivismo sposta l’asse del problema dal mondo all’attività del soggetto, ponendo l’accento sulla dimensione produttiva della conoscenza.
Entrambe le posizioni, pur opponendosi, condividono tuttavia lo stesso presupposto: quello di un dualismo fra soggetto e oggetto, fra mente e mondo. Il realismo ingenuo ignora la trama di mediazioni attraverso cui ogni esperienza prende forma; il costruttivismo radicale, d’altro canto, rischia di dissolvere la realtà in un puro gioco di rappresentazioni, dove nulla resiste e tutto è equivalenza di prospettive. Nel realismo il soggetto si limita a riflettere una realtà già data; nel costruttivismo la realtà diviene l’ombra delle nostre costruzioni.
In entrambi i casi, conoscere significa proiettare un ponte tra due entità preesistenti. Ma proprio questa metafora del ponte è ciò che oggi va ripensato: perché presuppone due sponde fisse, là dove la contemporaneità ci mostra piuttosto un paesaggio fluido, interconnesso, in continuo divenire.
La ricerca contemporanea di una terza via nasce precisamente da questa impasse.

Il limite della dicotomia

La crisi della distinzione netta tra soggetto e oggetto non è una moda recente, ma il risultato di una lunga erosione filosofica.
Già Nietzsche aveva denunciato la finzione del “dato”: ciò che chiamiamo realtà è sempre una interpretazione prospettica. La fenomenologia del Novecento, con Husserl e soprattutto Merleau-Ponty, sposta il fuoco dalla contrapposizione alla relazione vissuta: la coscienza non è un occhio che osserva il mondo, ma il luogo in cui mondo e corpo si intrecciano.
Infine, il pensiero post-umanista e il nuovo materialismo hanno radicalizzato questa intuizione, dissolvendo la centralità del soggetto umano per restituire al mondo una propria agentività, una propria capacità di iniziativa e risposta.
Anche Latour offre una teoria della realtà che è profondamente relazionale, processuale e distribuita, esattamente il tipo di cornice che supporta la nozione di soggetto e oggetto co-emergenti. Egli smonta la separazione moderna fra natura e cultura: per lui non esistono «soggetto puro» e «oggetto puro» separati, ma ibridi o entità composte (human + non-human) che si costruiscono nelle pratiche. 
Questa genealogia ci conduce verso una terza via: una visione in cui né il soggetto né l’oggetto sono preesistenti, ma emergono insieme dal tessuto delle relazioni che li costituisce.


Fenomenologia della relazione

Pensare la realtà come co-emergente significa assumere che il conoscere non sia un atto che si aggiunge al mondo, ma una modalità con cui il mondo stesso si manifesta.
Nella Fenomenologia della percezione (1945), Merleau-Ponty scrive che “il mondo non è ciò che io penso, ma ciò che vivo”. Il mondo non è un oggetto davanti a me, ma il campo sensibile in cui io stesso prendo forma. Il soggetto non è il principio originario della conoscenza, bensì un nodo incarnato in una rete di relazioni percettive. L’oggetto, d’altro canto, non è un dato inerte, ma un orizzonte di possibilità, che si offre e si ritrae nel gesto stesso del percepire.
Merleau-Ponty mostra che la realtà non è un oggetto “là fuori” né una proiezione “qui dentro”: è ciò che si dà nell’incontro percettivo, nel chiasmo tra il corpo che percepisce e il mondo percepito. Il mondo non è indipendente dal soggetto, ma neppure dipendente: è interdipendente. 
La conoscenza, in questa prospettiva, non è rappresentazione di un oggetto, ma partecipazione a un processo di senso. È il mondo stesso che si mostra, attraverso le forme della nostra esperienza incarnata.
La fenomenologia apre così uno spazio intermedio: un tra dove soggetto e oggetto si danno l’uno attraverso l’altro. Conoscere significa abitare questo campo, non superarlo. L’esperienza non è mai pura soggettività né pura oggettività, ma una relazione di senso che si rinnova nel contatto tra corpo e mondo.


Il contributo del pragmatismo e dell’azione

Il pragmatismo americano (Peirce, James, Dewey) ha proposto, in parallelo, un superamento della dicotomia classica: la verità non è né copia né costruzione, ma pratica. La conoscenza è sempre operativa, un modo per trasformare l’ambiente e lasciarsene trasformare. Per Charles Sanders Peirce, la verità non è una corrispondenza tra proposizioni e realtà, ma il risultato di un processo comunitario di indagine. Per John Dewey, conoscere significa agire nel mondo: la conoscenza è uno strumento per orientarsi nell’esperienza, non uno specchio. Il pragmatismo rompe così la rigida opposizione tra realismo e costruttivismo: la realtà non è né un dato assoluto né una costruzione arbitraria, ma un orizzonte di pratiche in cui il soggetto e il mondo si modificano reciprocamente.
In questo senso, la verità è sempre transitiva: si costruisce nel rapporto, non prima di esso. Per Dewey, “pensare è un modo di agire sul mondo”; la verità è ciò che funziona, ciò che resiste all’errore nel processo dell’esperienza. Anche qui, realtà e conoscenza non sono due entità separate, ma due dimensioni di uno stesso evento dinamico. Il pragmatismo anticipa così la prospettiva co-emergente: il reale non è un dato immobile, ma un processo di interazione. La conoscenza non è uno sguardo esterno, ma una forma di partecipazione.


Post-umanesimo e nuovo materialismo: la materia che agisce

Nel pensiero contemporaneo, il paradigma relazionale si è ulteriormente ampliato, incorporando la materia, la tecnica e le reti non umane.
Con Karen Barad, la distinzione fra soggetto e oggetto viene definitivamente decostruita: nella sua teoria del realismo agenziale (Meeting the Universe Halfway, 2007), ciò che esiste non sono entità isolate ma fenomeni che emergono da un sistema di intra-azioni. Non si tratta di “inter-azioni”, perché non esistono prima un soggetto e un oggetto: sono le relazioni stesse a generarli.
Analogamente, Jane Bennett (Vibrant Matter, 2010) parla di una materia dotata di vitalità, capace di agire; Rosi Braidotti, in The Posthuman (2013), propone una soggettività distribuita, aperta, in dialogo con le forze non umane che la attraversano.
In tutte queste teorie, la realtà appare come rete di co-produzioni, dove umano e non-umano, linguaggio e materia, pensiero e tecnica partecipano dello stesso processo generativo. Il reale emerge dall’intra-azione tra umani, non umani e materia. Non c’è un mondo preesistente alle relazioni, ma un mondo che si fa attraverso di esse. Questa prospettiva è profondamente post-umanista: non perché neghi l’umano, ma perché lo reinserisce nel continuum delle forze vitali e tecnologiche che costituiscono il reale. Queste filosofie della relazione restituiscono alla realtà una dimensione processuale: non un ente fisso da rappresentare, ma un sistema in continuo divenire, di cui siamo parte e interlocutori.
Un contributo decisivo a questa terza via proviene da Bruno Latour. Con la sua Actor-Network Theory e i suoi studi sulle pratiche scientifiche, Latour dissolve la dicotomia tradizionale fra soggetto e oggetto presentando il mondo come un insieme di reti di associazioni: gli actant (umani e non umani) emergono e acquistano forma nel corso di processi di mediazione e stabilizzazione. Per Latour, gli oggetti tecnici, gli artefatti e le istituzioni non sono meri sfondi neutri, ma attori che delegano, modulano e distribuiscono agency; i fatti scientifici stessi risultano da complesse operazioni di composizione che coinvolgono lingue, macchine, pratiche e interessi. Questa prospettiva smonta la nozione di entità preesistenti e identifica la realtà come un continuo costruirsi di ibridi e reti: un’ontologia della co-costituzione che affianca e conferma le intuizioni fenomenologiche, pragmatistiche e post-umaniste qui discusse. In termini di co-emergenza, Latour ci ricorda che ciò che chiamiamo “soggetto” o “oggetto” è il risultato di successi di associazione, nodi temporanei e negoziati dentro reti che conferiscono persistenza e rilevanza. 

Soggetto e oggetto come realtà co-emergenti all'interno di una rete relazionale

Per ottenere una terza via coerente non si tratta solo di conciliare realismo e costruttivismo, ma di spostare il terreno stesso del problema. Non più chiedersi se la realtà esista indipendentemente da noi o quanto la costruiamo, bensì riconoscere che né il soggetto né l’oggetto preesistono alla relazione che li lega. Entrambi emergono - o meglio, co-emergono - in un campo dinamico di interazioni, dove il conoscere e l’essere non sono separabili. La terza via non è, dunque, un compromesso tra realismo e costruttivismo, ma un cambio di paradigma.
Essa assume che soggetto e oggetto non siano entità pre-date, ma risultati di un processo di co-emergenza. In altre parole, non c’è prima un mondo che attende di essere rappresentato da un soggetto oppure un soggetto che costruisce il proprio mondo: vi è piuttosto un evento relazionale da cui entrambi prendono forma. Questo cambio di prospettiva è radicale. Significa pensare la realtà non più come qualcosa di “dato” o “costruito”, ma come un continuo farsi dell’essere nell’incontro. Il reale non precede la relazione, ma si genera in essa: è la relazione stessa a produrre, ogni volta, il suo campo di senso.
Essa afferma che la conoscenza è sempre situata, incarnata e mediata, ma che proprio attraverso queste mediazioni si apre l’accesso al reale. La realtà, pertanto, non è semplicemente “là fuori”, ma in mezzo: un continuo darsi e ritirarsi nel tessuto delle esperienze. L’oggetto della conoscenza non è un pre-dato, ma una configurazione emergente da un sistema di interazioni. In questa visione, tutte le mediazioni, come ad esempio il linguaggio, non sono delle barriere che ci separano dal mondo, bensì una delle forme della sua manifestazione. Conoscere, inoltre, non significa dominare né costruire, ma co-abitare il mondo. E la realtà non è costruita né data: è incontrata. E ogni incontro - percettivo, linguistico, tecnologico o affettivo - è un frammento di verità, un punto di contatto tra la resistenza del mondo e la nostra capacità di accoglierlo. Nella prospettiva co-emergente, la conoscenza non può più essere intesa come rappresentazione. Essa è evento, performatività, pratica incarnata. Ogni atto conoscitivo produce effetti, modifica il campo da cui emerge, genera nuovi soggetti e nuovi oggetti. L’osservatore non è esterno alla realtà osservata, ma ne è parte. 
Le implicazioni di tale prospettiva non sono ovviamente solo epistemologiche, in quanto anche l’ontologia che ne deriva è processuale e relazionale. Il mondo non è un insieme di cose, ma un campo di processi in cui le identità si formano e si disfano continuamente. L’essere non precede la relazione: è la relazione stessa. Il reale, in questa prospettiva, non è un dato, ma un divenire di forme, un tessuto di trasformazioni reciproche. Ogni forma, ogni soggetto, ogni evento è una configurazione temporanea di questa trama dinamica. In ciò, il pensiero co-emergente si distingue tanto dal costruttivismo (che privilegia il polo culturale o linguistico) quanto dal realismo (che privilegia quello ontologico): non ci sono poli, ma intervalli.
Il mondo è ciò che accade tra.


Etica e responsabilità della co-emergenza

Se conoscere significa partecipare alla produzione del reale, allora l’epistemologia diventa anche un’etica. Ogni sapere, ogni dispositivo tecnico, ogni rappresentazione è un atto performativo che incide sul mondo. La responsabilità non è più solo morale, ma ontologica: partecipiamo alla costituzione di ciò che è. 
Questa consapevolezza è cruciale nell’epoca delle tecnologie generative e dell’intelligenza artificiale: ciò che “conosciamo” o “produciamo” modifica concretamente i sistemi di realtà in cui viviamo.
Una prospettiva co-emergente invita dunque a un’etica della cura delle relazioni: poiché è dalle relazioni che il reale prende forma, la cura del mondo coincide con la cura dei suoi intrecci.


Conclusione: abitare il “tra”

Oltre il realismo e il costruttivismo si apre così una visione co-emergente, relazionale, fenomenologica e post-umanista della realtà. Una filosofia dell’incontro, più che della rappresentazione; del divenire, più che dell’essenza. In essa, la conoscenza è un gesto di co-abitazione, un modo di essere con il mondo.
Il reale non è costruito né scoperto: accade.
E noi accadiamo con esso.

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