Questa foto è stata a lungo considerata il primo ritratto fotografico.
J.W. Draper – giugno 1840, Ritratto della sorella Dorothy.
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Nei primi anni di vita, la fotografia ha avvicinato il corpo umano, all’inizio, nella forma del ritratto, poi pian piano nella forma del documento medico-scientifico ed antropologico, della foto erotica e del modello preparatorio per ritratti pittorici.
Se il ritratto dipinto era riservato esclusivamente al ceto aristocratico e a una élite borghese, il ritratto fotografico permette un accesso pressoché democratico alla rappresentazione di sé.
Per definizione, il ritratto è una rappresentazione che raffigura uno o più soggetti, a figura intera, mezza figura o busto. A un ritratto che sia tale è essenziale la riconoscibilità del soggetto nei suoi tratti fisiognomici. Le persone ritratte possono essere più di una (si pensi ai ritratti di famiglia), ma il numero non deve però compromettere la loro riconoscibilità.
Generalmente il ritratto è una fotografia in posa; questa per lo più isola la persona dallo sfondo ma ci sono anche ritratti ambientati, in cui viene posta attenzione sul contesto in cui il soggetto è inserito. Sempre però il ritratto è caratterizzato dalla centralità della figura umana (e spesso del volto, elemento primario del riconoscimento) in quanto protagonista dell’immagine.
Un ritratto fotografico non è mai la semplice rappresentazione di un volto o di una figura, ma costituisce una relazione. Possiamo definire il ritratto come il luogo della rappresentazione di sé in quanto messa in scena del corpo fotografato, attraverso l’esplicarsi di una relazione complessa tra più soggetti. Un rapporto non semplice, però, in quanto si definisce come un luogo in cui si esplicano azioni e tensioni: innanzitutto la ricerca del soggetto fotografato di dare una rappresentazione di sé e nello stesso tempo la sua resistenza alla messa in scena, l’azione del fotografo che vuole imporsi come atto creativo e, infine, la fruizione dello spettatore in quanto processo complesso che comprende anche la proiezione e l’identificazione. La relazione che si costruisce intorno al ritratto, pertanto, è un “contesto” ambiguo, che è nello stesso tempo di incontro e di presa di distanza, perché ognuno cerca di salvaguardare le proprie istanze e la propria identità.
Daguerre, Ritratto di Mr. Huet, 1837. Scoperto di recente. Se autentico, costituisce il primo ritratto fotografico. |
Alla sua nascita, il ritratto fotografico viene considerato un’estensione del ritratto pittorico accademico, di cui assimila gli stereotipi iconografici. Nel corso dell’Ottocento, la fotografia si consolida principalmente come strumento di rappresentazione (e di autorappresentazione) della classe borghese. Fin dai primi anni ’40, nelle grandi città si aprono numerosi ateliers per ritratti, eleganti e confacenti all’esigenza di trasmettere il decoro e la morale della classe sociale dominante. Le sale vengono dotate di fondali, arredi e accessori adeguati. I clienti vengono messi in posa in modo tale che il ritratto risulti rispondente all’immagine di idealità borghese. Ecco il paradosso, messo in evidenza da Elio Grazioli nel suo libro Corpo e figura umana nella fotografia: dovendo rispondere alle fattezze di un tipo ideale, accade che la persona fotografata tanto più si riconosce nel suo ritratto, cioè si trova somigliante, quanto più si identifica in ciò che vuole rappresentare, cioè nell’immagine ideale e morale della classe sociale di appartenenza o alla quale aspira ad appartenere. Questi ritratti di ateliers sono prima di tutto delle rappresentazioni sociali, in cui il soggetto cerca di esprimere nell’immagine, tramite accessori adeguati, una posa corretta, rigida ed austera, confacente al proprio status e ai valori della propria classe.
Cosa caratterizza questi ritratti del primo decennio della fotografia, prima dell’invenzione del collodio, che ridurrà da alcuni minuti ad alcuni secondi il tempo di esposizione? Le caratteristiche di queste prime rappresentazioni fotografiche del corpo umano sono la fissità innaturale (determinata appunto dall'estenuante durata della posa), che lo restituisce in modo sempre uguale e ripetitivo. “E uniforme, come mostrano le espressioni tutte simili, quasi torve, seriose, con sguardo duro, non naturale, quasi un’intera umanità o una società imbronciata.” (E. Grazioli, cit., p.9)
Charles Négre, Famiglia, 1855, stampa da negativo al collodio. |
L’immagine fotografica rende presente la persona ritratta in modo ben diverso e maggiore rispetto all’immagine dipinta. Il soggetto non è più lì davanti all’obiettivo, forse non è più neanche in vita, ma l’immagine sembra prenderne il posto in modo convincente. Il nuovo ritratto offre una strana sensazione di presenza e insieme di assenza, di presente e di passato intrecciati. Di realismo, ma anche di evanescenza; di corpo e di spettro. Deve essere stato grande il turbamento di quegli uomini che per la prima volta avevano a che fare con una tale “magia”. Nondimeno, all’inizio, hanno avuto difficoltà a riconoscersi in quel tipo di immagini. Nel suo libro Quand’ero fotografo, infatti, Nadar racconta spesso come i clienti, tornando a scegliere le prove da stampare, si riconoscessero convinti in ritratti di altri. Quel pubblico non era ancora abituato a quella rappresentazione di sé e della propria immagine. Rispetto al ritratto pittorico, infatti, la fotografia implicava un diverso tipo di somiglianza, un tipo nuovo di iconicità, ottenuta dallo "sguardo" oggettivo di una macchina, non più da quello umano.
Voglio solamente far notare che anche con il collodio malgrado i tempi di posa diminuiscano sono sempre di un ordine ben superiore ai pochi secondi sostenuti nell'articolo.
RispondiEliminaUna posa sorridente diventa difficile da sostenere per 20-30 secondi ed e' principalmente per questa ragione che l'aria assunta risulta molto spessa torva, malinconica e fissa.
Non dimentichiamo anche un fatto puramente tecnico: la totale incapacità di rendere le sfumature dell'incarnato in quanto il collodio è sensibile solamente alle frequenze vicino al viola ed al blu.
Questo significa che tra giallo arancione e rosso non c'è quasi differenza ed è questa caratteristica che rende le immagini vagamente spettrali.
E' un fatto che molto spesso viene dimenticato da storici della fotografia che mancano di conoscenze scientifiche sulle tecniche usate nella fotografia antica.