domenica 20 gennaio 2019

Il ritratto etnografico. Lo sguardo del colonizzatore

Philippe Jacques Potteau - Selected Portraits Of Algerian Diplomats.

Parallelamente al ritratto di famiglia o artistico, la fotografia, nella seconda metà dell’Ottocento, esplora il corpo umano anche dal punto di vista scientifico, divenendo supporto di ricerche di tipo psichiatrico, etnografico, giudiziario. In questo caso, il ritratto fotografico non si prefissa lo scopo di indagare le identità individuali e la personalità, sottolineando i tratti peculiari del soggetto che ha di fronte (come avviene nei ritratti familiari e in quelli di celebrità), ma lo scruta alla ricerca di evidenze distintive comuni a gruppi di persone, cioè di caratteri tipici, per catalogarli all’interno di un modello antropologico, che sia di tipo sociale, razziale, medico o criminale. Il soggetto ritratto è pur sempre un individuo o un gruppo di persone, ma l’intento va oltre, il referente trascende la persona fotografata per indicare la generalità cui appartiene. Attraverso un processo di astrazione dal singolo all'universale, i soggetti vengono trasformati in icone rappresentative di una etnia, di un popolo, di un gruppo sociale, di una devianza, di una sindrome clinica. Ciò che si ritrae, in definitiva, non è un individuo, ma un tipo, riconoscibile grazie a particolari caratteristiche, e quindi inseribile in una precisa categoria umana.

Paul Schebesta. Democratic Republic of Congo, Central Africa, 1930.

L’uso scientifico della fotografia è favorito dalla sua apparente oggettività, dalla sua capacità di riproduzione affidabile, oltre che di diffusione capillare. Questo ne decreta l’ampio utilizzo come documento d’indagine antropologica ed etnografica. Grazie ai progressi tecnici che riducono i tempi di posa, alla fotografia di viaggio, che ritraeva paesaggi e monumenti, si aggiunge il ritratto etnografico di popoli lontani o non facilmente avvicinabili, in grado di soddisfare la curiosità e il gusto per l’esotico dell’Occidente colonialista. Gli studiosi cominciano a compiere spedizioni presso i popoli cosiddetti “primitivi”, per immortalarne le caratteristiche fisico-anatomiche, ma anche la cultura materiale e rituale.
L’intento di base è scientifico, di stampo positivista. La fotografia viene considerata uno strumento di oggettività. Ed è su questo punto che occorre una riflessione.
La fotografia è sì la traccia di un referente, ma è anche il punto di vista parziale di qualcuno. La sua natura è ambigua, in quanto fondata su una intrinseca contraddittorietà: l’essere, nello stesso tempo, indice e icona. “Le fotografie sono per definizione indici (impronte fotoniche che si stampano su una superficie pronta a riceverne e a conservarne traccia) quanto alla loro fabbricazione; ma sono icone (segni che rimandano per somiglianza al loro referente) quanto alla loro ricezione.” (M. Smargiassi, Un’autentica bugia, p.275). Le fotografie, pertanto, hanno l’apparenza del documento, ma la loro essenza di base è quella della rappresentazione. Come scrive Beaumont Newhall a proposito della fotografia documentaria, questa è un medium caratterizzato dal “[…] profondo rispetto per le cose e insieme [dal] desiderio di dare un’interpretazione fondamentalmente soggettiva del mondo in cui viviamo.”

Anthropometric photograph of an Andaman child by Maurice Vidal Portman (c.1890s).

Vedremo, così, in che modo i ritratti etnografici di questo periodo costruiscono la rappresentazione dell’altro, del “primitivo”, del “selvaggio”, definita dallo sguardo del fotografo, che è quello del colonizzatore, teso a ricercare e a delineare, attraverso le immagini, non la traccia individuale del soggetto fotografato, ma gli stereotipi di una pretesa identità collettiva.
La nascita e la diffusione della fotografia coincide con l’epoca dell’espansione coloniale, della scoperta e della conquista di nuove terre e nuove popolazioni, di nuove culture e tradizioni. Viaggiatori e istituti geografici, curiosi e scienziati intraprendono esplorazioni in tutto il mondo, fin nelle terre meno accessibili. Il “primitivo”, il non civilizzato, l’extra-europeo diventa oggetto delle nuove scienze antropologiche. E la fotografia contribuisce a determinare un nuovo approccio, diverso dal passato. Attraverso la cattura di immagini operata da una macchina neutrale, infatti, si può costruire l’ideologia di una documentazione oggettiva, richiesta dallo status scientifico, nel mentre la riduzione iconografica “vi sovrappone le proprie categorie di conoscenza, mettendole alla prova e trovandosele rimandate come il proprio sguardo in uno specchio, messe allo scoperto come categorie della rappresentazione” (E. Grazioli, Corpo e figura umana nella fotografia, pp. 28-29). La fotografia, insomma, conferisce legittimità di documento oggettivo a una rappresentazione soggettiva. Ma questa rappresentazione non solo è propria di un soggetto, ma appartiene a un soggetto del tutto particolare: il colonizzatore occidentale, che si trova in una posizione di superiorità e di autorità nei confronti del soggetto ritratto. Difficile poter discriminare quanto di questo sguardo colonizzatore sia intenzionale o del tutto inconsapevole nelle immagini che ci provengono da quelle esplorazioni. In esse vediamo uomini e donne irrigiditi davanti all’obiettivo fotografico, bloccati in un’inquadratura che li congela in un’imbarazzante fissità, affinché venga mantenuto il giusto distacco, necessario allo sguardo della scienza. L’impressione che ne ricaviamo oggi è un senso di umiliazione, di irrispettosa alienazione. Ma – si chiede Grazioli – lo sguardo della scienza, che blocca, estrae ed astrae, non è sempre umiliante per il suo oggetto?

Portrait anthropologique du fonds Roland Bonaparte, musée des Confluences, Lione.

L’antropologia fa della fotografia uno dei suoi strumenti indispensabili, che contribuisce a catalogare, classificare ed archiviare, a creare delle banche dati come documenti per la prova di “tesi scientifiche”.
E’ evidente, per quanto non si sa fino a che punto consapevole, come buona parte di questa ritrattistica etnografica metta in evidenza soprattutto i tratti corporali e fisiognomici fuori dalla norma e l’arretratezza culturale e tecnologica del “primitivo”, a conferma di una superiorità non tanto culturale quanto razziale dell’uomo bianco e, indirettamente, della legittimità della politica colonialista occidentale. A titolo di esempio citiamo il lavoro dell’inglese T. H. Huxley, presidente della Ethnological Society, incaricato nel 1869 dal governo inglese di costituire un inventario fotografico delle diverse razze dell’Impero britannico. A questo scopo Huxley mette a punto un protocollo di misurazione, ripresa e classificazione: i soggetti vengono fotografati nudi, di fronte e di profilo, a metà figura e a figura intera, collocati in piedi accanto a un’asta graduata che offre il riferimento per le misure. Alle indicazioni di Huxley, J. H. Lamprey aggiunge lo sfondo di un reticolo quadrettato, contro il quale è collocato il corpo. Questo si ritrova pertanto all'interno di un piano cartesiano, ridotto a superficie bidimensionale, a grafico i cui punti possono essere definiti in termini matematici.
Altre nazioni avvieranno progetti analoghi e verranno predisposti più affinati metodi di misurazione e catalogazione, attingendo alle nuove discipline dell’antropometria e della fisiognomica.
Attraverso la neutralità del protocollo, della macchina e del distacco scientifico si cerca di garantire formalmente la validità e l’oggettività delle conclusioni. Intanto davanti all’obiettivo dell’uomo occidentale sfilano i volti e i corpi di uomini ridotti a oggetto di studio, privati della propria identità individuale, dei quali si pretende di cogliere e misurare le costanti morfologiche, cioè quei caratteri che dovrebbero individuare un tipo razziale. La fotografia definisce e delimita l’immagine dell’altro; la spersonalizzante esposizione del catalogo e la forma rigida e distaccata dello sguardo scientifico concorrono a ridurre l’individuo al suo puro aspetto iconico.

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