domenica 20 gennaio 2019

Il ritratto etnografico. Il mito dell’Indiano d’America

Edward S. Curtis, Portrait of Geronimo, 1905.

La ricerca etnografica della seconda metà dell’Ottocento, più che cercare di scoprire la cultura e il funzionamento comunitario delle etnie con cui entra in contatto, cerca soprattutto di definirle attraverso lo studio dei corpi, come per assicurarsi di avere a che fare con veri esseri umani.
Il corpo è allora classificato e misurato, per farne la prova materiale delle supposte differenze razziali. I nativi americani, gli africani e gli altri popoli sono fotografati da varie angolazioni per determinare le difformità fisiche principali in rapporto alle norme definite per l’uomo bianco. Il corpo diventa oggetto di studio unicamente in rapporto alla sua forma e alle sue caratteristiche oggettive (altezza, forma del capo, ecc.). Di conseguenza, la fotografia etnografica assume inquadrature e punti di vista adeguati allo scopo, e cioè asettiche, frontali e omogenee, che non cercano di valorizzare i corpi, ma di renderli classificabili, cioè comparabili rispetto a un modello.
Col passare degli anni la ricerca comincia a espandere i suoi obiettivi, che includono lo studio della cultura e della società di quelle popolazioni. E spesso finisce per subirne il fascino.


Three Horses by Edward S. Curtis, 1905.

I ritratti di Edward Sheriff Curtis. La rappresentazione di un mito in via di estinzione

Lo sguardo del fotografo tra Ottocento e Novecento, nei confronti delle altre culture, non è solo quello del colonizzatore che cerca di definire uno stereotipo razziale, ma qualche volta è anche quello di colui che vuole documentare una realtà in via di estinzione, per fissarne una traccia prima della sua scomparsa definitiva. In quanto capace di produrre un’immagine delle cose e di trattenerne memoria, si ricorre alla fotografia per fissare un momento che altrimenti andrebbe irrimediabilmente perduto. Gli indiani d’America, ad esempio, nel pensiero comune di fine Ottocento, erano considerati una vanishing race, in quanto non solo stavano letteralmente scomparendo, ma i superstiti andavano adottando abitudini e stili di vita dei conquistatori bianchi.
Edward Sheriff Curtis è un fotografo etnografico americano. Intorno al 1900 intraprende un ambizioso progetto, quello di fotografare le popolazioni degli Indiani d’America e il loro modo di vivere. A tal fine, incontra, con una squadra di assistenti, circa 80 diverse tribù (Pueblos, Apaches, ecc.), scattando più di 40.000 fotografie e raccogliendo un grande numero di informazioni sui loro costumi, tradizioni, pratiche musicali e religiose. Alla fine 1500 foto saranno pubblicate in 20 volumi, The North American Indians.

Arikara, 1908 by Edward Sheriff Curtis.

Tuttavia, quelle popolazioni di nativi americani erano già scomparse per davvero, almeno nella loro unità di popolo e di cultura. Alcuni gruppi resistevano isolati nelle riserve o assimilati ai margini della società bianca. I nuovi americani avevano conquistato la frontiera occidentale, realizzando l’obiettivo elaborato nell’ideologia del “Destino manifesto”. E proprio allora il mito del pellerossa fiero e indomabile raggiungeva il suo culmine.
Le fotografie di paesaggio di Carleton Watkins e Alexander Gardner, d’altra parte, avevano contribuito a costruire il mito della wilderness americana, cioè della terra selvaggia, del santuario disabitato, mai calpestato da impronta umana prima dell’arrivo degli europei. E, come nella maggior parte dei processi coloniali, ci si era serviti dell’idea di wilderness, intesa come “terra di nessuno”, per giustificare l’esproprio ai danni degli indigeni. Ora la fotografia dà invece il suo contributo alla costruzione del mito della razza indiana, in quanto però appartenente al passato, a un tempo mitico, così come sottendevano anche gli spettacoli e l’inserimento dei reperti della cultura indiana nei musei.

Chief Joseph - Nez Perce, 1903.

L’intento del fotografo californiano è genuino: egli vuole preservare la memoria della vanishing race prima che sia troppo tardi. Il suo obiettivo è di creare, attraverso ritratti di singoli nativi, un’immagine astratta ma vivida dell’indiano così come delineata nell’immaginario dell’uomo occidentale, traducendo il ritratto particolare del singolo in icona significante di un intero popolo. Ma la sua ansia di catalogazione di un’entità sul punto di estinguersi lo spinge a ricreare appositamente immagini e situazioni che ormai sono andate perdute. Curtis realizza sia ritratti a distanza ravvicinata per catturare le caratteristiche fisiche dei nativi nordamericani, sia ritratti in situ in cui gli indiani sono ripresi all'interno di teepee o in suggestivi paesaggi naturali. Spesso ricorre alla vestizione di nativi, ormai quasi assimilati alla società bianca, con abiti tradizionali presi in prestito da musei. I soggetti divengono, pertanto, dei modelli chiamati ad impersonare dei ruoli. Qualche volta viene fatto indossare a qualcuno copricapo e gioielli di un popolo diverso dal suo e spesso le caratteristiche individuali di culture e tribù molto diverse vengono in un certo senso fuse dentro l’onnicomprensivo mito dell’“Indiano”. Famoso è il caso in cui Curtis fa sparire una sveglia, unico indizio di modernità, dall’immagine di due nativi seduti in una tenda. La fotografia viene assunta, più che come documento, come strumento per costruire e preservare un mito romantico, travestendolo, tuttavia, da verità scientifica.

Lucille, Dakota Sioux, di Edward S. Curtis, 1907.

Gerald Vizenor analizza questo contrasto, arrivando alla conclusione che, in fondo, Edward S. Curtis non era altro che un Pittorialista travestito da antropologo. The North American Indian, infatti, è un documento antropologico molto problematico, ma è uno splendido esempio di fotografia pittorialista.
L’unico lampo di individualità dei soggetti fotografati è proprio lì dove Curtis non può intervenire: nello sguardo. Gli occhi dell’Arikara e di Geronimo esprimono un orgoglio ferito, una fierezza a disagio. Ed è questa tensione tra l’enfasi data alla forma archetipica del ritratto e la non programmata reazione individuale del soggetto a far affiorare nell’immagine uno sprazzo di umanità autentica. C'è in questi sguardi un qualcosa di profondo e di interrogativo, che non obbedisce alla richiesta del fotografo. Questi sguardi ostinatamente indocili rompono lo stereotipo, fronteggiando o negandosi all’obiettivo che li indaga.

E. S. Curtis, Shot in the Hand - Apsaroke, 1908.

Sioux Mother and Child, 1905.
Geronimo - Apache, 1905.

Gli "Indiani" di Adam Clark Vroman

Qualche anno prima di Curtis, un altro fotografo americano, Adam Clark Vroman, realizza numerosi ritratti presso le tribù degli Hopi e dei Navajo. Alcuni di questi risalgono anche al 1886, quattro anni prima del massacro di Wounded Knee, che aveva messo fine a ogni resistenza da parte dei nativi.
Le differenze con i ritratti di Curtis sono palesi. Mentre quest’ultimo cerca di mettere in scena un mito ormai scomparso, ricorrendo anche a falsificazioni, le immagini di Vroman, per nulla apologetiche o sentimentali, ci restituiscono una fresca naturalezza.


D’altra parte Vroman non ha pretese da fotografo professionista né tanto meno da etnografo. La sua è la pura curiosità del viaggiatore, a cui piace osservare e fotografare ciò che lo interessa o attira la sua attenzione. A Vroman piace raccontare ciò che ha visto, così come lo ha visto E, forse per questo, il suo sguardo non risente né degli stereotipi estetici dell’epoca, né di quelli scientifici, incentrati sull’idea di razza.
I soggetti delle sue fotografie non sono irrigiditi da una invadente e artificiosa messa in posa. Vroman, infatti, visita spesso i villaggi dei nativi, e lascia che siano questi a offrirsi volontariamente per essere ritratti, nel modo in cui preferiscono.


Questo il giudizio di Susan Sontag:
“Le belle fotografie di Vroman sono inespressive, non condiscendenti e per niente sentimentali. […] Non commuovono, non sono idiomatiche, non sollecitano simpatie. Non fanno propaganda per gli indiani. Il corpus fotografico di Vroman è una sorta di narrazione di viaggio per immagini. Al suo interno, i ritratti dei nativi sono caratterizzati da un’imparzialità unica per l’epoca e molto rara anche successivamente. La curiosità di Vroman esclude pregiudizi e fini classificatori o moralisti. Egli vuole registrare quello che vede, non interpretarlo.” (Sontag, Sulla Fotografia, pp. 55-56)
Gli indiani che vediamo in queste fotografie non rappresentano le icone mitiche e romantiche di un popolo sul punto di scomparire, ma sono persone in carne e ossa, avvicinate dalla curiosità del fotografo per l’Altro, per l’uomo di una cultura diversa, e che il fotografo cerca proprio di restituire nella sua diversità. E tuttavia evita di ricorrere a qualunque mezzo per farlo corrispondere al tipo romantico dell’Indiano delle praterie. Spesso, infatti, i “suoi Indiani” sono ritratti con abiti non tradizionali, mostrando la mescolanza di culture in atto. Ciò che è rilevante è che nelle fotografie di Vroman i nativi non sono una vanishing race, concetto alquanto pericoloso per annientare definitivamente anche nell’immaginario un popolo e la sua cultura. In queste fotografie i nativi si mostrano per quello che sono, non per quello che sono stati. Essi ci si danno nel loro presente, nella dignità di un popolo sconfitto e colonizzato ma reale, vivo e degno di riconoscimento.














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