Venere di Willendorf, 23.000-19.000 a.C. h. cm 11. Roccia calcarea. Vienna, Museo di Storia Naturale. |
Circa 40-35.000 anni fa, l’Homo sapiens acquisì non solo una capacità vocale articolata, ma anche la facoltà di “fare segno”, cioè di elaborare immagini, modellando la materia oppure tracciando linee e figure, rendendo in modo bidimensionale la nostra percezione tridimensionale di masse e volumi. L’arte del Paleolitico costituisce un sistema di rappresentazione, realizzato mediante varie tecniche sulle pareti delle grotte (arte rupestre) o su supporti trasportabili (arte mobiliare).
L’origine del fenomeno artistico rappresenta un salto culturale che diventa il punto di partenza per un nuovo percorso di esplorazione del mondo attraverso i simboli.
L’arte del Paleolitico superiore ha per soggetto soprattutto il mondo animale ed è quasi priva di figure umane. Fanno eccezione dei piccoli manufatti dell’arte mobiliare primitiva, delle statuette di donne, scolpite in pietra, osso o avorio, che variano dai 3 ai 22 cm di altezza e che sono databili tra il 27.000 e il 20.000 a.C.
Queste piccole sculture sono state rinvenute in un territorio vastissimo, che dalle coste dell’Atlantico arriva fino in Siberia e mostrano le stesse caratteristiche fisiche, che enfatizzano gli attributi tipici della femminilità e della maternità: seni, fianchi, addome e cosce molto abbondanti, gambe che finiscono a punta senza piedi, teste prive di volto, braccia minuscole o appena accennate e stilizzate, totale assenza di indumenti. La forma mostra una complessità concettuale avanzata: il corpo femminile è stato scomposto in volumi e ricomposto, sottolineando le parti che assumono un significato simbolico legato all’evento della procreazione.
Tali statuette vengono chiamate le Veneri del Paleolitico, perché ritenute erroneamente raffiguranti il tipo ideale di bellezza muliebre degli uomini delle caverne.
Queste produzioni non costituiscono delle rappresentazioni di figure femminili, ma si ritiene debbano essere messe in relazione a delle pratiche magico-rituali, e in particolare al culto della fecondità; tuttavia ci è ancora sconosciuta la loro funzione precisa. Forse le donne le utilizzavano come amuleti o come immagini di culto per propiziare o invocare la gravidanza, oppure potrebbero essere degli ex voto offerti a qualche divinità da madri riconoscenti. O forse si tratta di semplici effigi di divinità o di oggetti di culto legati a cerimonie celebrate per assicurare la fecondità delle donne e della terra, perché desse cacce e raccolte abbondanti. Questo spiegherebbe le gambe a punta e prive di piedi delle statuette: esse probabilmente venivano conficcate nel terreno dell’abitazione primitiva per propiziare abbondanza di figli e di cibo per tutta la comunità, e quindi la sopravvivenza del gruppo.
Secondo questa visione, tali immagini avrebbero avuto una funzione magico-utilitaristica, in quanto finalizzate a quelle che erano le esigenze fondamentali dell’uomo primitivo: sopravvivere e assicurare la continuità della specie.
Tuttavia, come molti studiosi hanno osservato, basta notare le forme armoniose, perfettamente simmetriche e ben equilibrate della Venere di Willendorf (pietra calcarea, 22.000 a.C.) per farsi venire il sospetto che fosse presente anche un minimo di propensione estetica o, quanto meno, uno spiccato senso per la forma e il volume. Quasi tutte queste Veneri, infatti, presentano una costante strutturale: la loro forma è quella di un rombo che racchiude un cerchio al centro.
Questi idoli di fertilità, pur provenendo da diverse località europee, sono tutte molto somiglianti tra di loro. Esse seguono un modello stereotipato e codificato, il che le rende delle immagini facenti parti di un codice rituale-simbolico condiviso. Queste immagini sarebbero, insomma, l’idealizzazione della madre che abbraccia tutta la natura, che prelude alla dea della fertilità quale Grande Madre.
A questo link, l’intervento di Fabio Martini, “La rappresentazione del corpo umano nell'arte paleolitica”:
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