domenica 4 agosto 2019

Il corpo dei bambini tra storia e censura

Nick Ut, Napalm girl, 1972, con la censura applicata per protesta da Espen Egil Hansen.

Una delle immagini passate in rassegna da Susan Sontag, nel suo Davanti al dolore degli altri, dimostrare l’importanza assunta da queste nella storia del Novecento, è la fotografia conosciuta come “Napalm girl”, un’icona di quel secolo e del conflitto in Vietnam in particolare, la prima guerra veramente mediatizzata. Ad essa, Sontag riconosce il ruolo di aver contribuito a rovesciare l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti delle ragioni del conflitto, in quanto metteva in drammatica evidenza come questo non risparmiasse affatto le popolazioni civili. Nella fotografia ripresa da Nick Ut, Premio Pulitzer e World Press Photo 1973, il piccolo corpo nudo della bambina Phan Thi Kim Phuc, che avanza verso di noi col suo urlo disperato, è l’oscenità assoluta fatta figura, l’incarnazione straziante e insopportabile di tutto l’orrore della guerra, “e insieme – aggiunge E. Grazioli -, paradossalmente, l’affermazione stessa della vita, del corpo, che non rinuncia, che fugge” (“Corpo e figura umana nella fotografia, p. 194).

E’ il giugno 1972. Un gruppo di bambini terrorizzati fugge da un villaggio in fiamme dopo un bombardamento al napalm. Nella foto, l’urlo della piccola Kim Phuc, che amplifica quello del fratello in primo piano, irrompe con tutto il suo orrore. Il napalm ha bruciato i suoi vestiti, provocandole estese ustioni sulla parte posteriore del corpo. Dietro di loro avanzano dei soldati armati, sullo sfondo di una coltre pesante di fumo.
Questa immagine-icona della guerra in Vietnam, pubblicata per la prima volta sul New York Times il 9 giugno 1972, è diventata negli anni un oggetto intorno a cui si sono concentrate più questioni, che cerchiamo qui di riassumere:
- E’ pubblicabile una foto che espone così crudamente il corpo di un essere umano, tanto più se si tratta di un bambino? La fotografia, infatti, è pressoché insostenibile dallo sguardo perché la protagonista al centro dell’immagine mostra il corpicino nudo, di fronte al quale non possiamo esimerci dal provare il turbamento della profanazione. Questa circostanza suscitò perplessità sulla pubblicabilità della foto, ma alla fine prevalse la considerazione della sua grande rilevanza giornalistica e l’immagine venne diffusa. E tuttavia, per citare Susan Sontag - che pure attribuisce a questa foto un ruolo determinante nel processo di presa di coscienza del popolo americano - nella messa in scena e nella cattura di questa immagine non si può negare che venga operata una violazione del soggetto.

- È etico enfatizzare la scena ed il contesto della ripresa in post-produzione? La foto che tutti conosciamo, vincitrice del Pulitzer e impressa indelebilmente nel nostro immaginario, infatti, non è l’immagine originale prodotta dalla Leica di Nick Ut, ma è il prodotto di un’operazione di crop, cioè di ritaglio, che riduce l’inquadratura, eliminando dal lato destro alcuni militari e un fotografo che sta caricando la sua macchina.



Ciò accade perché si vuole concentrare l’attenzione sui bambini, e in particolare porre la piccola Kim Phuc al centro. Questa operazione, tuttavia, non è così insignificante come potrebbe sembrare, perché il taglio riscrive drasticamente la scena, alterando la percezione di ciò che stava avvenendo sul campo. Se guardiamo la fotografia originale, ci si accorge di come la presenza sulla scena di un altro testimone, munito di macchina fotografica, oscuri l’esclusività della testimonianza svolta dalla fotografia che stiamo guardando e soprattutto ci rendiamo conto di come sulla strada non ci siano solo i bambini e i soldati di là e il fotografo di qua che sta scattando, ma è presente un intero apparato mediatico, che trasforma automaticamente l’inquadratura in una sorta di messa in scena.
Una fotografia successiva a questa, scattata sempre da Nick Ut, riprende ancora i bambini che corrono per la strada, ma dietro di loro, in questo fotogramma, possiamo notare ben sei tra fotografi ed operatori televisivi, la cui presenza configura la scena come un autentico set foto-cinematografico. E infatti esistono, dell’evento, anche delle riprese video.
L’autenticità dello scatto è stata più volte confermata, negli anni, dalla stessa protagonista e tuttavia anche questa immagine risente di quell’intreccio inestricabile tra verità e messa in scena che sembra rimandare alla possibilità stessa del rappresentare per via fotografica. Par di dover concludere che una messa in scena sia sempre inevitabile e che, allo stesso tempo, sia un dovere del fotografo negarla. L’ideale dello scatto autentico e immediato, in grado di cogliere l’attimo irripetibile, sembra quanto mai appartenere alla mitologia fotografica.

- È più importante documentare o prestare il proprio aiuto? Si sa che Nick Ut, dopo aver scattato quelle fotografie, versò acqua sulla piccola; poi condusse lei ed altri bambini in un ospedale vicino Saigon, dove la Kim Phuc sarà sottoposta a molti interventi. Ma per quanto tempo, in precedenza, si era lasciato che i bambini corressero piangendo sulla strada, al fine di effettuare riprese fotografiche e video, prima di soccorrerli? Si può inoltre presumere che, con un tale apparato mediatico schierato sul campo, l'urgenza della corsa fosse rallentata e spezzata dalle esigenze di movimento e di ripresa della troupe. Il video della Britannica ITN, dal titolo “Vietnam Napalm”, che possiamo trovare su YouTube, documenta prima l'attacco aereo al napalm, per opera dell'aviazione sudvietnamita, poi le circostanze dell'arrivo della piccola bambina nuda in una vera folla di giornalisti, cineoperatori e fotografi, infine le prime sommarie cure a base di acqua, somministrate da un militare ed un fotografo, presumibilmente Nick Ut. Questi ulteriori documenti confermerebbero che i bambini furono “fatti correre” in mezzo a schiere di operatori dei media, che li seguivano con gli obiettivi, senza intervenire.
Vengono subito in mente le parole di Susan Sontag secondo la quale chi documenta non può prestare il proprio aiuto materiale:

«fotografare è essenzialmente un atto di non intervento. L'orrore di certi “colpi” memorabili del fotogiornalismo contemporaneo, come le immagini del bonzo vietnamita che tende la mano verso la lattina di benzina o del guerrigliero bengalese che sta baionettando un collaborazionista legato, deriva in parte dalla plausibilità che ha assunto, nelle situazioni in cui il fotografo può scegliere tra una fotografia e una vita, la scelta della fotografia. Chi interviene non può registrare, chi registra non può intervenire».

L'argomentazione è ferrea e del tutto razionale. Ma si può concludere così la questione? Vale la pena di citare la vicenda umana di Kevin Carter, morto suicida nel luglio 1994, tre mesi dopo aver vinto il premio Pulitzer grazie allo scatto che ritrae una bambina sudanese molto denutrita, rannicchiata a terra con, accanto, un famelico avvoltoio che attende paziente di consumare il proprio pasto. In alcune interviste successive, il fotografo ammise di aver atteso ben venti minuti che l'avvoltoio aprisse le ali, ma poi aveva scattato ugualmente. Alle incessanti domande che gli venivano rivolte su che fine avesse fatto la bambina, lui non sapeva cosa rispondere. Lo scatto di Carter aveva consegnato alla memoria collettiva una fotografia che sarebbe diventata un'icona mondiale della terribile situazione del Sudan e dell'Africa in generale, ma il suo autore probabilmente non riuscì a sostenere il peso del senso di colpa per non aver fatto nulla per quella bambina.

Kevin Carter, Bambino con avvoltoio, 1993

Dopo il Pulitzer a Napalm girl, il dolore e, talvolta, la morte dei bambini diventa un tema sempre più presente nei riconoscimenti internazionali. Kim Phuc e la piccola sudanese sono solo due casi. Guardando le foto premiate nelle varie edizioni del World Press Photo, ad esempio, ci si accorge che proprio i bambini rappresentano i grandi protagonisti di questo riconoscimento, costituendone il tema più ricorrente.

E ora veniamo all’immagine che vedete in cima a questo articolo.
E’ il settembre 2016. Lo scrittore norvegese Tom Egeland, che aveva pubblicato su Facebook una serie di fotografie memorabili realizzate in tempo di guerra, scopre che la piattaforma ha censurato il suo post dedicato alla fotografia di Napalm girl e ha sospeso il suo account. Il quotidiano norvegese, Aftenposten, depreca l’accaduto, ma immediatamente scopre che Facebook ha eliminato dalla pagina social del giornale sia l’articolo che l’immagine dedicati alla faccenda. Stessa sorte per il primo ministro conservatore Erna Solberg che si era unita alla protesta su Facebook, la quale scopre che anche il suo post e il suo commento sono stati rimossi.


Il quotidiano mette allora la fotografia sulla prima pagina accompagnandola a un editoriale intitolato "Caro Mark Zuckerberg", in cui il redattore di Aftenposten, Espen Egil Hansen, accusa Facebook di abuso di potere e di come, assumendosi un tale arbitrio, sia diventato "l'editore più potente del mondo", minando la democrazia e restringendo le responsabilità editoriali della stampa. Il social network dovrebbe essere in grado di comprendere la differenza tra pornografia infantile e immagini che hanno fatto la storia, sostiene amareggiato Hansen. Facebook risponde con una dichiarazione in cui riconosce l’iconicità di quella foto, ma afferma altresì che è difficile fare distinzioni e discriminare i casi in cui la nudità di un bambino è lecita da quelli in cui non lo è.
Solberg in seguito pubblica una serie di foto storiche famose con apposti dei rettangoli neri che occultano il punto nodale di ogni immagine, per dimostrare come questo tipo di censure stravolgano la storia. La vicenda, nel frattempo, ha un’eco internazionale. Per mezzo di un suo portavoce, Facebook rilascia un’ulteriore dichiarazione in cui viene riconosciuta l'importanza globale di quella fotografia e che il valore di consentirne la condivisione supera il valore di proteggere la community mediante la rimozione. L’immagine viene dunque ripristinata nei post da cui era stata eliminata, con l’impegno da parte di Facebook di modificare i suoi "meccanismi di revisione" al fine di incoraggiare la libera espressione.
Ora, il punto su cui si vuole portare l’attenzione è come l’intento di Facebook non sia quello di salvaguardare la dignità delle probabili vittime dell’abuso, ma di proteggere la community. Nelle sue “Linee guida sulla nudità” viene riportato: "Tutte le fotografie di persone che mostrano genitali o glutei completamente nudi, o seni femminili completamente nudi, verranno rimosse", perché, è scritto nella parte terza della redazione degli Standard, “alcune persone della nostra community sono particolarmente sensibili a questo tipo di contenuti”.
Il fine di tutte queste restrizioni, pertanto, non è il rispetto del corpo e del soggetto cui appartiene, ma la salvaguardia della moralità della community.
Ma chi definisce i principi di questa morale?

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