venerdì 8 marzo 2019

Il conflitto tra materia e forma. La poetica del non finito di Michelangelo

Michelangelo Buonarroti, Schiavo che si desta, particolare, 1520-23 ca., Galleria dell'Accademia di Firenze.

Uno degli aspetti più singolari dell’arte di Michelangelo è che la maggior parte delle sue opere sono rimaste incompiute, probabilmente per cause diverse. Tra di esse la statua del San Matteo, i Prigioni , la Pietà Bandini e la Pietà Rondanini, alcune delle statue allegoriche che decorano la tomba di Giuliano dei Medici, che hanno alimentato il mito del cosiddetto “non finito” michelangiolesco, molto apprezzato durante il periodo romantico e accostato da questo all’estetica del sublime. Queste sculture, accanto a delle parti levigatissime, ne mostrano altre in cui il marmo è appena scheggiato e la forma appena abbozzata, mostrando i ruvidi segni di scalpello.
A prescindere dalle motivazioni che hanno portato l’artista a lasciare incomplete queste sculture, è possibile individuare al centro della sua arte l'antagonismo tra il visibile e l'invisibile, tra materia e forma, tra la tensione verso la perfezione del gesto creativo e la cieca opposizione della pietra. La loro bellezza deriva proprio da questa conflittualità che sembra scavarle dall'interno e costringerle a spostare costantemente il loro instabile equilibrio.

Michelangelo Buonarroti, Prigioni, Galleria dell'Accademia di Firenze.

Originariamente destinati ad adornare la tomba di Giulio II, gli Schiavi (o Prigioni), quattro dei quali conservati alla Galleria dell'Accademia di Firenze e due al Louvre, con le loro forme trattenute tenacemente dalla pietra grezza, mostrano il loro stesso processo di creazione. I corpi sembrano lottare per liberarsi dal marmo che li imprigiona, le figure cercano di fuoriuscire dalla materia informe.
Per il Buonarroti, la scultura, che è l’arte suprema, si fa” per via di levare “ e non “per via di porre”, come accade, invece, per la pittura o per la modellazione con bronzo e argilla. Lo scultore elimina la materia eccedente per far emergere la forma, essendo quest’ultima già idealmente presente nel marmo. L’idea è preesistente all’atto creativo; all’artista spetta il compito di darle visibilità, attraverso un lavoro che è soprattutto dell’intelletto. Molte interpretazioni del non finito michelangiolesco lo attribuiscono all’intima insoddisfazione dell’artista, che in corso d’opera si rende conto dell’inadeguatezza del risultato, del suo non corrispondere alla forma attesa e all’ideale di perfezione. Altri integrano questa visione affermando che il non finito non è un accidente dovuto alle circostanze o semplice frutto della frustrazione e dell’abbandono da parte dell’autore, ma costituisce un vero e proprio linguaggio estetico, consapevole e voluto.
Secondo P. Daverio, si tratta del “linguaggio comportamentale della creatività”, perché testimonia il travaglio interiore dell’artista. Se creare un’opera significa liberarla dall’inerzia della materia, allora non è possibile conoscere del tutto la sua forma prima di questo processo; il “non finito”, in sostanza, non è che una condizione che contiene in sé infinite possibilità di sviluppo della forma.


D’altra parte, appartiene alla visione neoplatonica degli umanisti il considerare l’uomo come un essere indeterminato, al confine tra cielo e terra, gravato dal libero arbitrio e dalla necessità di forgiare da solo la propria esistenza:
“Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine”, scrive Pico della Mirandola nel suo De hominis dignitate.
Il non finito diverrà un esplicito atto di volontà negli anni della maturità dell’artista. È allora che l’opera incompiuta esprime l’insanabile contrasto neoplatonico, cioè la lotta tra l’idea (perfetta, elevata oltre le contingenze e dunque irraggiungibile) e la realtà terrena (impura, imperfetta), l’eterna tensione dello spirito a liberarsi dalle catene del corpo materiale (il "carcer terreno" dell’anima immortale), come il Prigione denominato Atlante, raffigurato mentre si contorce nel tentativo di fuoriuscire dalla pietra. La scultura non finita è dunque linguaggio espressivo del processo artistico e una potente allegoria del tormento e della fatica esistenziale dello spirito umano, che cerca di affrancarsi dalla morsa della vita terrena e di elevarsi verso l’idea pura, che è il luogo dove l’anima anela.

Michelangelo Buonarroti, Pietà Rondanini, particolare, 1552-64, Castello Sforzesco, Milano.

Il Panofsky rileva come i contorcimenti e le torsioni dei personaggi michelangioleschi non sfocino mai in azioni vere e proprie, ma restino compressi e, dunque, più pregni di tensione trattenuta. Le figure del Buonarroti non si fondono con lo spazio, ma rimangono confinate ai limiti del proprio volume plastico, mentre le loro energie si consumano in un conflitto interno di forze che si stimolano e si paralizzano l’un l’altra. È significativo, continua Panofsky, come nell’arte di Leonardo da Vinci, nella quale lo sfumato concilia e armonizza le forme plastiche con lo spazio, le figure siano libere da ogni impaccio quanto quelle del Buonarroti sono invece inibite e costrette.
Nella Pietà Rondanini, a cui Michelangelo lavora fino a poco prima di morire, l’artista affida alla poetica del non finito il suo tormento esistenziale. Il gruppo si limita alle figure della madre e del figlio, che rivela i numerosi ripensamenti in corso d’opera. La prima versione, infatti, viene modificata integralmente e Michelangelo fonde insieme le due figure, tanto che il Cristo sembra uscire fuori dal corpo della madre. E’ proprio lontano, da questa rappresentazione, il corpo eroico, possente e muscoloso, tipico della produzione michelangiolesca. Le forme sono esili, prive di consistenza fisica, quasi totalmente spiritualizzate.


Per Michelangelo, artista tormentato da un profondo conflitto interiore, l’eterno dissidio tra spirito e materia, tra eternità delle idee e caducità delle cose terrene, non potrà mai avere soluzione. Il non finito manifesta proprio questa impossibilità di realizzare la perfezione dell’idea, che è invece irraggiungibile ed eterna. Un artista può solo ingaggiare una lotta per tendere verso quella meta di perfezione, ma il suo anelito non potrà mai avere pieno appagamento ed è, per questo, destinato a un’inestinguibile sofferenza.

Michelangelo Buonarroti, Pietà Bandini, particolare, 1547-55, Museo dell'Opera del Duomo, Firenze. 

Lo stato indefinito ed embrionale delle figure rappresenta una rivoluzionaria violazione di quella perfezione formale che era propria dell’Umanesimo. Ma la non finitezza, anziché un limite, appare come un elemento che va oltre la rappresentazione naturalistica, per declinare ai massimi livelli le possibilità espressive dell’atto creativo e della plasticità della forma. Si potrebbe definire un’anticipazione dell’arte moderna (si pensi a Rodin), per la quale la creazione artistica è l’espressione interiore dell’artista, al di là dei precetti accademici. È la titanica lotta dell’uomo per la propria libertà espressiva.
Il non finito, come linguaggio artistico, getta veramente una luce nuova sul significato di un’opera d’arte. Cosa determina infatti la finitezza di una creazione? Quando può dirsi compiuta? Conta la sua rispondenza a particolari e riconosciuti canoni estetici o piuttosto ciò che esprime? Michelangelo apre uno strappo nella storia dell’arte occidentale, anticipando di secoli l’estetica del Novecento.

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