domenica 15 luglio 2018

L'incontro con Dio. L'icona orientale.

Mosaico Basilica di Santa Sofia.


L’icona orientale è profondamente transitiva, nel significato enunciato da John Shearman, nel senso che stabilisce una relazione molto profonda con colui che impropriamente definiamo spettatore, in quanto, per ciò che concerne l’iconografia orientale, sarebbe più opportuno chiamare “fedele”. Ma la transitività dell’immagine sacra orientale ha caratteristiche molto diverse da quelle che concernono l’immagine occidentale, almeno a partire dal Quattrocento.
Come Cristo ha una natura sia umana che divina, anche l’icona ha una doppia natura, fatta di visibilità e invisibilità, di esteriorità e interiorità. Ma qui non si intende opporre visibile a invisibile. L’icona non è la manifestazione sensibile dell’idea invisibile, non è l’apparenza dietro la quale si nasconde la vera realtà, ma piuttosto qualcosa che, pur essendo altro dal visibile, si rivela tuttavia nel visibile stesso, esattamente come Cristo il quale si dà nel mondo senza essere del mondo. L’icona è la «porta regale», come voleva Florenskij, attraverso la quale si manifesta l’invisibile e si trasfigura il visibile: in essa non c’è né imitazione, né rappresentazione, ma autentica epifania, “presentazione” e comunicazione tra questo e l’altro mondo.

E questo a patto che il visibile si presenti in modo non assoluto, non completamente definito. L’immagine che rende tutto visibile, cioè l’immagine che “rappresenta”, è un’immagine idolatrica: con essa lo sguardo si ferma al visibile, e non lo guarda attraverso. L’icona invece cerca di rendere visibile l’invisibile, lasciandolo tale, invisibile appunto. Questo significa che l’icona non è definita, non è completa, non mira a rendere l’apparenza illusoria del reale. Per questo motivo essa ci appare così antinaturalistica: gli accorgimenti che mirano al naturalismo della rappresentazione, cioè che costruiscono l’illusione di realtà, come l’uso della prospettiva, del chiaroscuro, della tridimensionalità, dell’armonia delle parti non fanno parte dell’iconografia orientale in quanto ritenuti contrari alla natura sacra dell’icona.
L’icona non è un ritratto, non vuole rappresentare il semplice ricordo di un fatto. La rappresentazione, in questo senso, mette in scena un’assenza, qualcosa avvenuto nel passato. L’icona, invece, è una presenza, una rivelazione, il mediatore visibile tra l'umano e il divino, tra il Verbo e la carne. Ecco perché una delle regole fondamentali della rappresentazione iconografica è la frontalità. Il profilo è già un’assenza. Nell’iconografia bizantina è vietato rappresentare Dio di profilo, perché il profilo interrompe il contatto diretto e impedisce la reciprocità dello sguardo. Viceversa, sono rappresentati di profilo i soggetti profani, alcuni personaggi dell’Antico Testamento e i demoni. Generalmente Gesù e i santi sono rivolti di faccia verso lo spettatore, oppure di tre quarti. Questo caratterizza l’arte cristiana fin dalla sua nascita. L’icona ci guarda e il credente, che indirizza la sua preghiera verso di lei, deve poterlo fare faccia a faccia, in un dialogo reciproco che è contemplazione interiore. Troveremo le prime raffigurazione di Gesù e dei santi di profilo nelle pitture di Giotto, alle soglie dell’arte moderna, quando lo scopo della rappresentazione sacra si volgerà ad essere la Biblia pauperum, cioè la narrazione e l'illustrazione degli eventi accaduti.

Andrej Rublëv, Trinità (o Ospitalità di Abramo), 1422,  Galleria statale di Tret'jakov a Mosca.

Giotto, anticipando il Rinascimento, fa affacciare il fedele-spettatore alla scena sacra (e infatti la prospettiva umanistica ha il suo punto di fuga in un punto interno alla scena), mentre nel mondo delle icone bizantine queste sono le “finestre” da cui il divino si affaccia nello spazio-tempo dell’umano.
A questo fine, la grammatica compositiva dello spazio delle icone è completamente diversa da quella occidentale. Le icone sono caratterizzate, infatti, dalla prospettiva rovesciata: le linee non vengono tracciate per convergere in un punto all’interno dell’icona bensì al suo esterno. Questo significa che le linee si dirigono in direzione inversa rispetto alla prospettiva centrale, convergendo in un punto che non si trova dietro il quadro ma davanti ad esso. Si ha l’impressione che la scena invece di perdersi nel fondo venga verso lo spettatore quasi ad incontrarlo. E qui sta il significato teologico di questa tecnica. É Dio che ha l’iniziativa, è Lui che viene verso l’uomo per rivelarglisi, incontrarlo, interpellarlo, invitarlo alla comunione con Lui.
La prospettiva rovesciata, proprio perché situa il punto di fuga in avanti, all’esterno della rappresentazione e verso lo spettatore, ha lo straordinario effetto di creare uno spazio intermedio tra il quadro e lo spettatore. La presenza di questa autentica interfaccia tra l’icona e chi la guarda produce un totale coinvolgimento dell’osservatore nella scena rappresentata.
Sia nell'arte sacra orientale che in quella occidentale il dipinto è una soglia, che viene però oltrepassata in direzioni opposte. Nel mondo occidentale il dipinto è lo sguardo dell’artista che raffigura Dio nella scena in modo che il fedele percepisca in essa una narrazione storica, il racconto di ciò che è avvenuto. Il punto di partenza orientale è, invece, diametralmente opposto. Colui che osserva non è più l’artista, ma Dio. L’immagine non è una finestra che introduce il fedele al mistero, ma è il mistero che guarda all’uomo. L’icona non è l’immagine di Dio, non ha valore di mimesi (e infatti è realizzata in modo antinaturalistico e rigorosamente bidimensionale), ma il luogo in cui Dio è presente e si può incontrare.
L’icona deve poter rivelare il mistero dell’Incarnazione, mostrando la natura insieme umana e divina del Cristo.
Non è il credente a guardare l’icona, ma è il volto iconico che guarda il credente e suscita in lui l’esperienza della presenza. Il suo sguardo è fuori dal tempo e insieme è nel tempo, è sovrastorico e insieme anche storico, perché si rivolge a individui calati nella storia.
All'interno delle chiese ortodosse il credente entra in una dinamica relazionale spaziale distribuita in tutto il volume dell'edificio, per cui non è solo un osservatore ma anche un osservato. Di qui l'esigenza di avere una costruzione di forma circolare e di una cupola a forma di volta celeste: l'edificio si pone simbolicamente come immagine del cosmo, la cui figura centrale è quella del Cristo Pantocratore, sovrano e redentore dell'universo, i cui occhi profondi come l'abisso cercano, con espressione ieratica e insieme dolce, quelli del fedele, invitandolo a sentirsi parte del tutto.

1 commento:

  1. Veramente molto interessante, questa spiegazione mi ha aiutato parecchio a comprendere delle sfaccettature non ancora toccate di un mio corso unviersitario su Florenski e la prospettiva rovesciata. Ho dato uno sguardo al blog, decisamente da salvare nei preferiti, complimenti :)

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