domenica 15 luglio 2018

L'immagine prospettica



Se c’è un dispositivo di rappresentazione che assegna una precisa collocazione spaziale allo spettatore, quello è senza dubbio costituito dall’immagine prospettica, teorizzata da Leon Battista Alberti nel 1435 nel suo trattato "De Pictura". Anzi, la prospettiva lineare ha nel punto di vista dell’osservatore il suo fondamento basilare e costitutivo.

Il quadro come "finestra sul mondo"

Innanzitutto, la prospettiva è la scienza che consente di rappresentare su un piano oggetti tridimensionali, in modo che l’immagine proiettata corrisponda a quella della visione diretta.
Una delle tesi centrali del trattato albertiano è quella secondo la quale la pittura ha per oggetto l’aspetto visibile della realtà. Ma quest’ultima, così come la visione naturale di essa, è ordinata secondo le leggi dell’ottica e della geometria euclidea; pertanto, anche la sua rappresentazione, per adeguarsi alla visione naturale, non potrà che essere ordinata dalle stesse leggi ottico-geometriche.
Secondo Alberti, occorre immaginare il quadro come una finestra aperta sul mondo.


In senso più tecnico, il quadro costituisce l’intersezione di un piano con la cosiddetta “piramide visiva” che si forma tra l’osservatore e la porzione di mondo sulla quale è orientato il suo sguardo. La superficie di un quadro, cioè, è come una finestra di vetro trasparente attraverso la quale l’artista vede il soggetto da rappresentare. Le linee di visione che partono da questo soggetto e arrivano all’occhio passano attraverso il vetro della finestra, e i punti di intersezione formano una proiezione del soggetto sopra detta superficie. Questo è testimoniato in varie incisioni di Dürer, come ad esempio il "Prospettografo" del 1525, dove l’artista rappresenta il modo in cui ritrae un uomo seduto, o in un’altra più nota, dove un pittore sta disegnando una donna sdraiata.
Il punto fondamentale, alla base di una immagine prospettica, è la scelta del punto di vista, cioè del luogo in cui collocare l’occhio dell’osservatore, che costituisce sia il centro da cui ha origine la proiezione prospettica sia il punto dove dovrà situarsi lo spettatore per cogliere in modo adeguato la rappresentazione.

In questo video, i concetti fondamentali della prospettiva centrale:


La costruzione geometrica dell’immagine prospettica si fonda sulla convergenza di tutte le linee perpendicolari al piano della rappresentazione in un punto, detto “punto principale” o “punto di fuga”. Ma questo punto altro non è che la proiezione, lungo un asse ortogonale allo stesso piano della rappresentazione, del punto di vista, cioè del centro di proiezione.
E’ il punto principale ciò che regge tutta la costruzione dell’immagine prospettica, ed esso coincide da una parte con la proiezione del punto di vista dell’osservatore (che è esterno e davanti all’immagine, a una certa distanza rigorosamente stabilita) e dall’altra con il punto di fuga (il punto di concorso all’infinito delle rette interne all’immagine e perpendicolari al piano).


In questo modo, lo sguardo dello spettatore viene diretto e costruito dall’immagine stessa. La relazione tra l’immagine prospettica e il suo spettatore ideale è stabilita geometricamente a priori, in quanto il secondo è implicitamente invitato a collocarsi in quell’unico punto di fronte al quadro, lungo l’asse perpendicolare al punto di fuga, dove potrà avere una visione adeguata dell’immagine, cioè oggettivo-mimetica; dove la rappresentazione sarà in grado di fornire un’impressione di realtà, e pertanto capace di coinvolgere le spettatore in una narrazione efficace e persuasiva.

Il punto di vista

“Principio, dove io debbo dipingere scrivo uno quadrangolo di retti angoli quanto grande io voglio, el quale reputo essere una finestra aperta per donde io miri quello che quivi sarà dipinto […]. Poi dentro a questo quadrangolo, dove a me paia, fermo uno punto il quale occupi quello luogo dove il razzo centrico ferisce, e per questo il chiamo punto centrico.”

Questo brano, tratto dal primo libro del “De Pictura” di Leon Battista Alberti, sintetizza i due gesti preliminari che il pittore deve compiere affinché l’immagine dipinta possa proporsi come adeguata mimesi dell’aspetto visibile della realtà: la delimitazione del piano della rappresentazione e la fissazione del punto centrico.


Come si sa, questo impianto presuppone una concezione della pittura come “finestra aperta” dove il pittore deve “fingere quel che si vede” e "… donde io miri quello che quivi sarà dipinto”, cioè come superficie pienamente trasparente attraverso la quale osservare la scena.
Il primo gesto ("scrivo uno quadrangolo di retti angoli...") stabilisce una netta distinzione tra un “dentro”, che è lo spazio della rappresentazione, e un “fuori”, che è invece lo spazio del normale contesto visivo. Lo spazio circoscritto si propone come distinto e autonomo e invita e predispone lo sguardo dello spettatore a una modalità di visione adeguata, diversa da quella consueta. La quale richiede, in primo luogo, l’assunzione di un particolare punto di vista. Ed è proprio il punto centrico che fornisce allo spettatore una chiara indicazione di dove posizionarsi per contemplare l’immagine.
Ma dove collocare questo punto strategico? La raccomandazione dell’Alberti è chiara: il punto strategico va posto in modo tale che “e chi vede e le dipinte cose vedute paiono medesimo in suo uno piano”. Lo scopo, cioè, è quello di creare l’impressione di una continuità tra lo spazio rappresentato e lo spazio esterno, in cui si trova lo spettatore.
Ecco che l'immagine prospettica oscilla tra queste due tensioni: da un lato il pittore traccia un confine tra spazio rappresentato e contesto circostante; dall’altro, però, questo confine va neutralizzato, ricercando il più possibile la prossimità dell’immagine con lo spazio della nostra esperienza concreta. Solo in questo modo, secondo Alberti, “la pittura può dispiegare pienamente la propria capacità di instaurare un rapporto comunicativo con lo spettatore, convocandolo di fronte alla rappresentazione come testimone partecipe, disponibile a farsi irretire nel gioco di quell’illusione consapevole, o di quella collusione, grazie alla quale l’immagine esercita il proprio potere retorico e persuasivo.” (A. Somaini, L’immagine prospettica e la distanza dello spettatore, in “Il luogo dello spettatore”). Gli eventi sacri, narrati nella scena rappresentata, irrompono nello spazio visivo dello spettatore, coinvolgendolo empaticamente nella narrazione, a patto di presentarsi a lui con la forza di un’esperienza realmente vissuta, collocata in uno spazio visivo credibile, apparentemente naturale.


Scrive Pierre Francastel:

“La prospettiva designa un sistema di organizzazione della superficie piana dello schermo plastico ove tutti gli elementi rappresentati (cielo, terra, oggetti, figure) sono considerati da un punto di vista unico e le dimensioni relative delle parti sono dedotte matematicamente dal calcolo della distanza relativa degli oggetti che appaiono all’occhio immobile dell’osservatore”. (P. Francastel, Lo spazio figurativo dal Rinascimento al cubismo, 2005)

La prospettiva lineare è innanzitutto un sistema di rappresentazione dello spazio tridimensionale basato su regole matematiche. Esso consente di collocare le cose e i personaggi nello spazio in modo proporzionale, dando vita a un insieme unitario e coerente. Ma, come abbiamo visto, questo sistema presuppone un punto di osservazione fisso e una visione monoculare, cioè effettuata da un occhio solo in condizioni di assoluta immobilità. Ne consegue che la prospettiva è un sistema astrattivo, dato che gli occhi sono naturalmente mobili e la visione è binoculare.
Inoltre, lo spazio rappresentato dall’immagine prospettica ha una serie di caratteristiche che sono antitetiche rispetto a quelle che caratterizzano lo spazio fisiologicamente percepito. Lo spazio prospettico, infatti, è infinito, omogeneo e isotropo (cioè presenta le stesse proprietà in tutte le direzioni). La costruzione prospettica astrae radicalmente dallo spazio percepito, che è invece finito, disomogeneo e non isotropo. Suo scopo è di plasmare i dati sensibili offerti dalla vista, dando forma e ordine al loro caos.

Tavola di Berlino, studio per la città ideale, Francesco di Giorgio Martini. (attribuita a, 1480 ca).

La prospettiva come ‘forma simbolica’

La prospettiva è stata da sempre al centro delle riflessioni teoriche sulla rappresentazione. Uno dei testi ad essa dedicati, che più ha influito sul dibattito, è certamente costituito dal celebre saggio di Panofsky “La prospettiva come ‘forma simbolica’”.
Una delle questioni principali poste dall’autore riguarda la perenne oscillazione dell’immagine prospettica tra due poli opposti, uno soggettivo e uno oggettivo.
Abbiamo visto come la teoria albertiana consideri la pittura come un finestra sul mondo, cioè come superficie pienamente trasparente attraverso la quale osservare la scena (“fingere quel che si vede”). Questa impostazione ha fatto della finestra uno dei "luoghi topici" dell'arte occidentale, una metafora della pittura, in quanto la finestra permette di guardare, ma allo stesso tempo limita la visuale e consente al soggetto di strutturare la visione.
Ma cosa comporta, di fatto, assumere la finestra a modello del nostro modo di vedere il mondo, presupposto su cui si basa la prospettiva lineare? Comporta innanzitutto dividere lo spazio in due parti, rispettivamente di qua e di là da essa, poste dunque l’una di fronte all’altra. Assumere la finestra a modello rappresentativo significa concepire la visione come un’operazione caratterizzata dalla distanza e dalla separazione fra colui che vede e ciò che è visto. Quest’ultimo è un oggetto autonomo, regolato da leggi geometriche che il soggetto indaga e riproduce.
Da un lato, tuttavia, la prospettiva crea una distanza tra l'uomo e il mondo, dall'altra elimina questa distanza, assorbendo l’aspetto multiforme della realtà fenomenica nell’unità di uno spazio prospettico che ha il suo baricentro nell'occhio dell'uomo, cioè nel suo punto di vista, il centro da cui ha origine la proiezione prospettica e luogo in cui dovrà posizionarsi lo stesso spettatore.

Piero Della Francesca, Annunciazione (Polittico di Sant’Antonio), 1460-1470 circa, Galleria nazionale dell’Umbria, Perugia.

L’immagine prospettica si colloca, pertanto, su un confine ambiguo che la fa oscillare tra una tensione oggettiva (l’imitazione di una realtà autonoma geometricamente strutturata) e una soggettiva (il rinvio di quella realtà al punto di vista dell’io, alle regole ottiche che regolano la sua visione).
Questa tensione tra i due poli opposti di soggettività e oggettività conferisce all'immagine prospettica una caratteristica di ambiguità: da un lato, infatti, essa garantisce l’oggettività della rappresentazione, ma dall’altro fonda questa sua oggettività su un principio rigorosamente soggettivo, e cioè il punto di vista, lo sguardo del produttore dell’immagine, che coincide con lo sguardo dello spettatore implicito. Il Rinascimento parte dall'affermazione che la pittura imita una realtà oggettiva, ma in realtà la prospettiva stessa non è che un modo di rappresentare una percezione soggettiva. Tutto ciò fa sì che la storia della prospettiva, e quindi la storia della rappresentazione pittorica di quattro secoli, possa essere vista da un lato come il trionfo del primato della realtà, cioè dell'oggettività, dall'altro come il trionfo della volontà di potenza dell'uomo che tende ad annullare ogni distanza e a imporsi sulla realtà stessa (si veda E. Panofsky, La prospettiva come 'forma simbolica', p. 72).
La relazione che la prospettiva rinascimentale instaura con lo sguardo dello spettatore è caratterizzata, dunque, da queste polarità: instaurazione di una distanza e suo annullamento, autonomia dell’oggetto e suo dipendere dal soggetto, contemplazione distaccata e oggettiva della realtà esterna e tendenza ad assimilare questa realtà nella sfera dell’io (cfr. A. Somaini, L’immagine prospettica e la distanza dello spettatore, in “Il luogo dello spettatore”, p. 55).
In conclusione, l’intrinseca ambiguità della prospettiva può essere sintetizzata nella sua costante oscillazione tra il prodursi e il venir meno di una distanza tra il punto di vista dell’osservatore (e dello spettatore) e le cose rappresentate. Questa tensione tra oggettivazione della realtà fenomenica e assimilazione di essa nella sfera dell’io è destinata a rimanere irrisolta e caratterizzerà tutta l’arte moderna.

La prospettiva come espressione dell’antropocentrismo moderno

La prospettiva è uno dei modi possibili per rendere l’idea dello spazio, legato a una ben determinata visione del mondo e della vita; essa è un dispositivo, una convenzione rappresentativa basata su un’astrazione matematica o, come scrive Panofsky, una costruzione simbolica, che noi avvertiamo come naturale in virtù di una consuetudine ormai acquisita nella cultura figurativa occidentale. Quello sulla maggiore o minore aderenza dell’immagine prospettica alla percezione naturale del mondo, tuttavia, è un dibattito ancora aperto, che si interroga sul fatto di dover considerare la prospettiva una scoperta o un’invenzione. Di fatto, la prospettiva rinascimentale ci restituisce un’immagine diversa rispetto a quella percepita, perché la nostra visione psico-fisiologica è binoculare, il nostro occhio è mobile e percepisce linee curve anziché rette (perché la retina è sferica) e forme sfocate ai margini del campo visivo. La convergenza delle linee parallele in un punto di fuga permette comunque una visione unitaria e garantisce uniformità all’insieme, consentendo di superare la discontinuità propria delle rappresentazioni pre-rinascimentali, in cui i singoli corpi erano trattati come entità separate e avente valore simbolico. Con la prospettiva lineare, invece, gli oggetti sono collocati all’interno di uno spazio uniforme e percorribile in tutte le direzioni, uno spazio misurabile e ordinato dalle leggi universali della geometria euclidea.
Nella prospettiva trova espressione la cultura antropocentrica dell’età moderna. Il nuovo stile pittorico che chiamiamo Rinascimento, fondato sulla prospettiva e sulla razionalizzazione dello spazio, è il segno di una nuova attitudine dell’uomo verso il mondo, di una trasformazione spirituale, culturale e sociale che in parte ritrova la perduta tradizione dell’umanesimo classico.
Il concetto di spazio che si viene ad affermare in questo periodo non è l’espressione di leggi eterne, immutabili e astratte che regolano la visione e la rappresentazione, ma va compreso in relazione al clima storico e sociale in cui si è costituito. La prospettiva, cioè, non è uno schema universale, ma fonda le sue basi in un sistema culturale e un movimento generale di idee che non nasce all’improvviso, ma si sviluppa nel corso di più generazioni.
L’immagine prospettica attribuisce all’osservatore una posizione privilegiata, che riconosce sia il primato del soggetto sul piano della conoscenza sia la sua centralità nell’agire storico. Per questo la prospettiva è il segno del costituirsi di un pensiero antropocentrico, che si lascia alle spalle l’impostazione teocentrica medievale.
Il Rinascimento ha trasposto in immagine l’uomo in quanto individuo, celebrandolo sia nel ritratto (dove appare come volto), sia nella prospettiva (che rappresenta lo sguardo dell’uomo rivolto al mondo). Di fronte all’immagine, l’osservatore occupa una posizione centrale: egli si sente sovrano nei confronti del mondo, perché l’immagine è la proiezione del suo punto di vista. Lo spazio rappresentato non è più quello assoluto e divino, ma la proiezione di un punto di vista soggettivo, insieme individuale e universale: individuale perché si suppone occupato da un unico osservatore con un solo occhio aperto; universale perché qualsiasi altro osservatore potrebbe trovarsi esattamente in quel punto e ricostruire lo spazio che da esso prende forma secondo le leggi universali della geometria euclidea.
La prospettiva lineare, che ordina la molteplicità in unità e mette insieme infinito e finito, è una sintesi di razionalità e trascendenza; è l’immagine di un mondo retto dalle leggi divine aristotelicamente intese come ragione, ma frequentato sia dall’uomo che da Dio e padroneggiato dallo sguardo umano. L’umanesimo trova in questo tipo di prospettiva la propria forma simbolica: l’uomo al centro del mondo col suo punto di vista, individuale e universale a un tempo.
Il punto di fuga pone l’osservatore in una posizione privilegiata per guardare, scoprire, scrutare a distanza. In quello spazio dominato dal suo sguardo, Dio stesso può farsi immagine e rendersi visibile, afferrabile. Secondo alcuni studiosi, come Hans Belting, nella prospettiva rinascimentale l’individuo prende coscienza di sé grazie a questa presa di distanza. Non più la subordinazione totale a Dio e alla fede propria del Medioevo: lo spazio tridimensionale che si spinge nel punto di fuga manifesta lo spazio che l’individuo ha posto tra sé e Dio e, dunque, la sua conquistata emancipazione.
Secondo altri, come McLuhan e Florenskij, l’immagine medievale, che proiettava il punto di fuga nello spettatore, permetteva a questi un ruolo più attivo, mentre l’immagine rinascimentale, con la sua ortogonalità rigorosa, ne limita decisamente l’iniziativa imponendogli uno e un solo punto di vista. E così l’apertura dello spazio verso l’infinito diviene una chiusura, una gabbia che incatena lo sguardo a un punto solo, quello di fuga, che è un punto illusorio, irraggiungibile e inesistente nella realtà, un non-essere che tuttavia tiene insieme il tutto. Ed è questo il paradosso dell’immagine rinascimentale e del costituirsi della soggettività moderna: quella presa di distanza che l’uomo stabilisce tra sé e Dio, tra sé e il mondo, tra soggetto e oggetto, è un affacciarsi sul vuoto. L’uomo si scopre al centro dell’universo e sovrano del suo mondo, ma questa condizione porta con sé un drammatico corollario: avendo preso le distanze da tutto, egli è ora drammaticamente solo. Nel momento in cui gli si aprono davanti infinite possibilità, scopre anche una voragine che dovrà colmare col suo genio e la sua ragione. L’immagine prospettica e il suo punto di fuga diventano allora l’allegoria di questa nuova condizione, eroica e tragica ad un tempo.
Dell’aspetto tragico dell’Umanesimo si è occupato, in particolare, il filosofo Cacciari, che ne parla in questa interessante conferenza avente ad oggetto alcuni dipinti di Piero della Francesca.



In particolare si sofferma sulla celebre tavola della “Flagellazione”, famosa soprattutto per l’enigma che tuttora l’avvolge, in quanto restano ancora misteriosi o non definitivamente accertati la data, la circostanza e l’autore della committenza, le identità di alcuni personaggi raffigurati, l’evento storico cui l’opera fa riferimento, il suo significato.
Qui la prospettiva è il dispositivo che conferisce unità e rigore alla composizione, che come si vede, è divisa in due parti e mette insieme contesti spaziali e architettonici (Gerusalemme - o forse Costantinopoli - a sinistra, un luogo non ben definito, ma sicuramente “italiano”, a destra) e temporali (l’epoca di Cristo da una parte, quella contemporanea a Piero dall’altra) molto diversi. Nella visione prospettica coesistono, in un’impressione di assoluta immobilità sospesa, due diversi eventi, che però non scorrono in modo discontinuo come nelle rappresentazioni medievali (dove più episodi di una storia venivano raffigurati in spazi adiacenti o secondo una sequenza), ma possono essere abbracciati contemporaneamente dallo sguardo grazie all’ordine armonico e unitario conferito dalla prospettiva e da altri accorgimenti geometrico-matematici (come il rapporto aureo tra le due metà del dipinto e le relazioni simmetriche tra vari elementi della scena).

Piero della Francesca, Flagellazione, 1458-59 ca., Galleria Nazionale delle Marche di Urbino.

Il divino è relegato in secondo piano, mentre in avanti, in posizione di preminenza, vediamo tre maestose figure dall’espressione greve. Su di loro, probabilmente, preme il peso di scelte importanti e drammatiche, decisive per il destino della cristianità. E’ questa l’essenza dell’Umanesimo tragico, secondo Cacciari, epoca che mise al centro l’Uomo e la sua ragione, ma che fu altresì sconvolta da eventi profondamente traumatici, quale fu quello rappresentato dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente ad opera dell'esercito ottomano. La scena della flagellazione sarebbe quindi una metafora della sofferenza che la cristianità subì per mano dei turchi nel 1453.
Si noti, infine, il personaggio con turbante, di spalle rispetto alla flagellazione. La sua posizione rispetto alla figura di Cristo e dei due aguzzini ricalca quella dello spettatore del dipinto rispetto ai tre astanti in primo piano. Quella figura, pertanto, non fa che proiettare l'osservatore dentro il quadro stesso, favorendone il coinvolgimento nella scena e nella storia.



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