lunedì 20 marzo 2017

Follia - Follia rituale e mondi alla rovescia

La tradizione, popolare e letteraria, che racconta di mondi alla rovescia, fa parte della cultura europea almeno a partire dalla Grecia classica, passando per il Medioevo fino all’età moderna. L’elemento di continuità attraverso i secoli è ben definito: il capovolgimento delle relazioni sociali e dei rapporti di classe, la rivincita del popolino e degli ultimi, la satira sui ceti dominanti. Appartengono a questa tradizione i miti del paese di Cuccagna, le fontane e le isole dell’Eterna Giovinezza, che sono tutti “mondi alla rovescia”; le feste dei folli e il carnevale, che sono invece “tempi alla rovescia”. Entrambe le tipologie accolgono i desideri e le angosce dell’uomo, i suoi sogni irrealizzabili nella realtà, le voglie di riscatto e di rivalsa.

Questi mondi all’incontrario si nutrono delle istituzioni religiose, politiche, letterarie e culturali del loro tempo, mentre al contempo le negano o le contrastano con il grimaldello paròdico costituito da una vera e propria liturgia del rovesciamento e del ribaltamento. La loro natura, tuttavia, è tale da giustificarne le più disparate e contraddittorie letture: da quella che vede come asse costitutivo di quei mondi alla rovescia la trasgressione e una sotterranea ribellione allo status quo, a quella che, al contrario, ne valuta la portata di normalizzazione e di controllo sociale. Le feste in cui si collocano questi “rovesciamenti”, infatti, non sono mai un divertimento disordinato, bensì un tempo liturgico, che si serve di rituali formalizzati. Ma, se un mondo è compreso in una liturgia, si può davvero dire che sia un mondo all’incontrario? La ritualizzazione, infatti, non può fare altro che regolare e normalizzare.

Mummers from Oxford, Bodleian Library MS Bodley 264 - Pinterest


Con l’età moderna, si cominciò a non tollerare più il disordine rappresentato dai folli e le nuove utopie cinquecentesche furono depurate dagli elementi dell’irrazionale e del bizzarro, essendo frutto di una ragione che aveva ormai rotto ogni legame con la follia. Le terre fantastiche in cui venivano collocate non presentavano più fortemente il senso del rovesciamento e del ribaltamento. Il clima della Controriforma, il razionalismo trionfante e la nuova etica borghese vinsero di fatto la battaglia contro la follia; il mito, le superstizioni e i mondi alla rovescia furono adottati dal romanzo. I luoghi dell’illusione leggendaria cedettero il passo alla realtà romanzesca.

IL CARNEVALE

Lungo tutto l’arco di tempo che va dal Medioevo al Rinascimento, la società occidentale si ritaglia dei periodi dell’anno, esclusi dal tempo ordinario, in cui le aspirazioni ad una realtà diversa, più libera da convenzioni sociali, leggi e gerarchie, possono sostituirsi all’ordinarietà della vita quotidiana. Nascono così i carnevali e le cosiddette “festa stultorum”.
Si tratta di una pazzia collettiva temporalmente circoscritta, di una sregolatezza riconosciuta ma controllata. In alcuni testi dell’epoca, queste manifestazioni vengono definite indispensabili “perché la follia che è la nostra seconda natura e sembra innata nell’uomo, possa, almeno una volta l’anno, manifestarsi liberamente. Le botti di vino scoppiano se di tanto in tanto non si aprono dei fori e non vi si fa penetrare dell’aria”.
In tali occasioni, tutte le istituzioni sociali, linguistiche, familiari sono capovolte e rimesse in questione. In breve, il Carnevale costituisce il rovesciamento dell’ordine e della logica di tutti i giorni, con il capovolgimento delle gerarchie sociali e il ribaltamento del rapporto sacro-blasfemo. Si tratta di trasgressioni autorizzate poiché delimitate in un tempo dato.

Le feste carnevalesche (e con questo termine è da intendersi quell’insieme di ricorrenze che al carnevale sono affini – roghi del vecchio, feste agresti, “festa stultorum” e degli asini -, e che oggi per lo più sono scomparse) variano da regione a regione e si svolgono per lo più in un periodo compreso tra l’inizio dell’anno e la primavera.

Sul significato profondo del Carnevale le opinioni non sono del tutto concordi. Esso non è totalmente riconducibile né alle ascendenze pagane della festa (Antesterie e Saturnali, ad esempio), né a una rigida calendarizzazione ecclesiastica (benché la dottrina cristiana abbia sempre cercato di cooptare l’evento all’interno del calendario liturgico).

Nicolas Poussin - Bacchanale devant une statue de Pan, 1631-33, National Gallery - Public Domain via Wikipedia Commons

Il Carnevale non costituisce soltanto una valvola di sfogo in vista della penitenza quaresimale (questo fu un tentativo a posteriori della Chiesa per cristianizzare una delle festività più refrattaria a subire tale processo di metamorfosi). E non è neanche, o non solamente, ciò che resta di certi riti orgiastici in onore di qualche dio pagano: il Carnevale non si inserisce nel tempo lineare della nostra civiltà, ma segue un ritmo arcaico, ciclico, un eterno ritorno, in cui si brucia il vecchio cosmos, si celebra il caos e si attende una rinascita.

Mircea Eliade, nel suo saggio “Il Mito dell’Eterno Ritorno“, scrive che le Cerimonie carnevalesche, diffuse presso i popoli Indoeuropei, Mesopotamici, nonché di altre civiltà, costituiscono la ritualizzazione del passaggio dal Caos primordiale al Cosmo e, in quanto tali, hanno anche valenza purificatoria, dimostrando il “bisogno profondo di rigenerarsi periodicamente, abolendo il tempo trascorso e riattualizzando la Cosmogonia”. In questo momento di passaggio e di ritorno al caos primigenio, il tempo è annullato e tutte le barriere che separano i vivi dai morti, così come quelle che separano i vivi dai vivi, sono rotte. La “confusione delle forme” è illustrata dallo sconvolgimento delle condizioni sociali (nei Saturnali, lo schiavo è promosso padrone, il padrone serve gli schiavi; in Mesopotamia, si deponeva e umiliava il re, ecc.), dalla sospensione di tutte le norme, ecc. Lo scatenarsi della licenza, la violazione di tutti i divieti, la coincidenza di tutti i contrari, ad altro non mirano che alla dissoluzione del Mondo e alla restaurazione dell’illud tempus primordiale.

Il Carnevale si inquadra, quindi, in un ciclico dinamismo di significato mitico: è la circolazione degli Spiriti tra Cielo, Terra e Inferi (anche Arlecchino ha una chiara origine infera). Queste forze soprannaturali creano un nuovo regno della fecondità della Terra e giungono a fraternizzare allegramente fra i viventi. Alla fine, il tempo e l’ordine del Cosmo, sconvolti nella tradizione carnevalesca, sono ricostituiti (nuova Creazione) con un rituale che comprende la lettura di un “testamento” e il “funerale” del Carnevale, il quale spesso comporta il bruciamento del “Re del Carnevale”, rappresentato da un fantoccio (a volte l’immagine simbolo del Carnevale è annegata o decapitata). Tale cerimonia avviene in molte località italiane, europee ed extraeuropee.

Carnevale di Ivrea, Cerimonia dell‘Abbruciamento degli Scarli nel 2008 - Public Domain via Wikipedia Commons

Inscindibile è il rapporto del carnevale con lo scorrere del tempo: esso si colloca nei primi mesi dell’anno solare (quando si preparano le semine primaverili), rendendo palese il rapporto con la fine dell’oscurità e della paura dell’inverno, la rinascita e l’ottimismo per il futuro. I momenti carnevaleschi, anticamente, occupavano nel complesso i primi 4 – 5 mesi dell’anno. Non soltanto la settimana di Carnevale che precede il tempo di Quaresima, ma anche i vari falò che in giro per il Vecchio Continente salutano l’inizio della primavera o dell’estate (si va, ad esempio, dal veneto brusa la vecia alla germanica Walpurgisnacht e ai vari altri falò che preparano l’inizio delle stagioni agricole).

Apparentemente potrebbero apparire tra loro distanti, ma l’origine di queste ricorrenze è comune: si congeda il tempo passato, bruciando le cose vecchie o le sterpaglie recuperate dal riassetto dei campi o dei frutteti, così come nel Carnevale spesso si ritrova l’usanza di rompere oggetti appartenuti al passato (ad esempio le posate o i piatti) o di mettere al rogo un fantoccio.

Alla fine degli anni Sessanta, il Carnevale rappresenta per l’Occidente il sogno e l’utopia di una società diversa, libera, comunitaria, trasgressiva, non alienata dal lavoro e dai consumi. Per questo motivo si sviluppa nei confronti di questa festa un forte interesse da parte di studiosi di molteplici discipline. Il lavoro teorico più importante del periodo è quello del russo Michail Bachtin che, nello studio L’opera di Rabelais e la cultura popolare – Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, definiva la categoria di carnevalesco come visione alternativa, materiale e rivoluzionaria del popolo che nei baccanali celebra il rinnovamento cosmico, fondato sul trinomio vita-morte-rinascita, attuato attraverso l’esplosione rituale degli istinti basso-corporei in polemica con la visione gerarchica, “alta”, spirituale, repressiva e penitenziale della Chiesa e del sistema feudale. Caratteristica di questa festa è, per Bachtin, l’abbattimento di ogni regola introdotta per dividere, per separare, per demarcare ambiti e confini. Sulla piazza del carnevale non ci sono esecutori e spettatori, cadono le distinzioni di classe e le gerarchie, si realizza il libero contatto familiare tra tutti gli uomini, si collegano e si combinano sacro e profano, sublime e infimo, saggio e stolto; l’alto e lo spirituale vengono capovolti e rimpiazzati dal basso e materiale, fatto di degradazioni e oscenità, sacrilegi e profanazioni. Ogni festa, in quanto festa e a prescindere dalla sua natura, interrompe il tempo della quotidianità e dà inizio ad un tempo festivo; ma una festa consueta, religiosa ad esempio, interrompe il tempo ordinario per poi ristabilirlo alla sua conclusione, continuando in seguito l’andamento lineare della storia cristiano-giudaica.

Giovanni Domenico Tiepolo, Scène Carnival, le menuet, 1750, Musée du Louvre, Paris - Public Domain via Wikipedia Commons

Il Carnevale non interrompe, abolisce; esso ha sì luogo nel tempo storico, ma lo cancella per un periodo limitato, aprendo quello della crisi, che è propedeutica al rinnovamento e alla rinascita. L’incompatibilità del Carnevale con le festività religiose sta proprio nella sua “potenza creativa”: il Carnevale è trasgressione senza limiti, è un potente disordine che genera infinite possibilità; la festa religiosa, invece, si inserisce in un cosmos già creato e fissato da certezze (immutabile fino alla fine del tempo), entro il quale mira a far aderire l’esistenza umana ad un disegno divino o mitico e in questo modo non fa altro che consacrare l’ordine esistente. Il Carnevale, al contrario, distrugge il tempo vissuto, e tutto quello che ad esso è rimasto legato (consuetudini, norme, autorità), dando, con la creazione del nuovo, una speranza di novità e riscatto.

In opposizione alla visione di Bachtin, altri studiosi fanno invece notare il carattere ambiguo del Carnevale e che il suo lato trasgressivo non è da intendersi contro il sistema, bensì come parte integrante del sistema. Tale festa costituisce, pertanto, una sorta di rivolta rituale, un periodico rovesciamento dell’ordine delle cose al fine di rinforzare l’ordine vigente. Il Carnevale è sì una renovatio mundi, ma si tratta di un rinnovamento cosmico, il cui ritorno coincide con il nuovo ciclo agrario. Esso va celebrato con feste e disordini d’ogni genere per riconquistare quell’animalità primordiale, quella vitalità e quell’energia naturale che sono le reali forze che propiziano la fecondità e la felicità della terra, dell’uomo e della comunità. Solo dopo aver recuperato l’energia del caos primigenio, la vitalità del disordine orgiastico, si può tornare all’ordine, alla socialità, alla cultura. Questa dialettica tra natura e cultura è propria soprattutto del Carnevale contadino, mentre all’interno delle città trionfa in particolar modo la dialettica stultizia – sapientia: sotto la maschera della follia cerca espressione tutto ciò che è censurato dall’ordine della ragione politica e sociale, per cui le feste carnevalesche diventano la valvola di sfogo per studenti e chierici sottoposti alla dura disciplina scolastica o come provvisorio ribaltamento dei gruppi sociali più emarginati.

Il fascino del Carnevale sta nel rovesciamento provvisorio dell’ordine stabilito, nella breve realizzazione del miraggio di una vita utopica, di un messaggio di liberazione dai vincoli culturali e sociali. La prospettiva rivoluzionaria, tuttavia, non appartiene al Carnevale, perché esso è sì un rito di rinnovamento cosmico, ciclico, naturale, ma non è un vero processo di liberazione, in quanto non tocca la storia, non cambia la società, non include l’individuo.

Francisco Goya, La sepoltura della sardina, 1812-14, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid - Public Domain via Wikipedia Commons

LA MASCHERA E IL TRAVESTIMENTO

Strettamente associati al Carnevale sono la maschera e il travestimento. La maschera preserva l’identità e contribuisce al disordine abolendo lo status sociale e le gerarchie, e trasformando la natura umana, mettendo in scena l’assurdo, lo smodato, il grottesco. Il deforme, il mostruoso, il brutto annullano il tempo e lo spazio, forme diverse e incompatibili si mescolano in un cosmico disordine. La maschera annulla la separazione tra gli uomini, e tra questi e gli altri esseri viventi, determinata dalla scala sociale, dal sesso, dalla specie, addirittura dal tempo. Perché la maschera carnevalesca, nella sua abolizione dell’ordine cosmico e di ogni separatezza, annulla anche la dicotomia vita-morte. Le maschere attestano quindi l’abolizione di ogni normale principio di identità e di identificabilità. Anche il confine che protegge il mondo degli uomini da ciò che deve restare esterno ad esso – i non-uomini come i demoni o i non più uomini come i morti – è violato. La morte e il demoniaco sono evocati nel Carnevale per uno scopo catartico: se il disordine evocato richiede il rischio della morte e di ciò che ad essa è connesso, si vuole, e si deve, evocare questo aspetto maligno per cacciarlo dall’ordine che dovrà nascere.

L’inferno è uno dei topoi caratteristici del Carnevale: non inteso come regno del Maligno da venerare, ma come luogo del caos e della morte dal quale provengono le forze distruttrici che preparano il terreno alla rinascita spazzando via presente e passato, contro ogni pretesa di immutabilità; non è un caso che molte maschere del Carnevale raffigurino demoni o mostri il cui compito è portare scompiglio e disordine nelle strade e nelle piazze (Arlecchino, prima di diventare un astuto servo bergamasco, nell’Europa continentale era Holle Konig, il re degli inferi). L’inferno carnevalesco è una costruzione grottesca, è un terribile grottesco che diventa comico, perché la comicità esorcizza; ciononostante non è netto il confine che separa la paura esorcizzata dalla risata.

Il travestimento significa negazione dell’identità, ma anche rinnovamento di sé, affermazione dell’uguaglianza tra gli uomini, rifiuto di gerarchie: il buffone viene proclamato re e, durante la festa dei folli, si procede all’elezione di un abate, di un vescovo e persino di un papa per burla. Si inverte l’alto con il basso, il saggio con il giullare, il re con il pezzente, perché l’ordine si è infranto, è il momento del disordine e della libertà.

Il più comune e pittoresco modo in cui il Carnevale prende a picconate le fondamenta del vecchio ordine sono gli scherzi, i paradossi, l’assurdo. Lo scherzo carnevalesco è il disordine che pervade la totalità, è irruzione d’una dimensione altra dalla normalità, dichiarandone la provvisoria abolizione. Lo scherzo, quindi, è ritualizzato nel Carnevale come l’azione dissacrante che stravolge l’ordine e prepara il terreno al caos.

Giandomenico Tiepolo, Pulcinella innamorato, (1797), Ca' Rezzonico - Pinterest

LE FESTE DEI FOLLI

Tra le manifestazioni affini al Carnevale, e tipici esempi di “mondi alla rovescia”, vi erano le Feste dei folli, singolari cerimonie e festeggiamenti che accompagnavano una serie di ricorrenze religiose, come il giorno di Santo Stefano o la Festa dei Santi Innocenti o l’Epifania. Alcuni documenti del XII e XIII secolo definiscono queste feste con differenti nomi: festum stultorum, festum fatuorum, festum follorum, festum baculi e festum hypodiaconorum; ma, nonostante la disomogeneità della nomenclatura, le testimonianze storiche fanno tutte riferimento ad un insieme di festeggiamenti dedicati al basso clero e celebrati a fine e inizio anno nell’ambiente canonicale delle Cattedrali e delle Collegiate. In queste ricorrenze, le cerimonie liturgiche erano seguite da danze, giochi e scherzi da parte del piccolo clero e dei servitori di cattedrali e collegiate, in particolare chierici, diaconi, sub-diaconi e chierichetti. Durante le feste, le goliardate dei giovani chierici li portavano perfino a sbeffeggiare la gerarchia ecclesiastica e a mettere in scena delle vere e proprie parodie dell’autorità della chiesa – con l’elezione del vescovo, abate o papa dei folli – e delle liturgie sacre.

Frans Floris the elder (c.1517–1570), Feast of Fools - Pinterest

Venivano eseguite parodie di scene bibliche, processioni e messe (in origine celebrate dallo stesso clero), nelle quali si osannavano l’alcool e i piaceri della carne e si sostituiva il linguaggio sacro con quello osceno e animalesco. Col passare del tempo, l’aspetto profano e goliardico delle feste si andò progressivamente accentuando, fino a che i festeggiamenti burleschi non presero il sopravvento sull’aspetto religioso, diventando delle vere e proprie mascherate, che si trasferirono nelle piazze, nelle strade, nelle locande, divenendo affini ai carnevali, o perdendosi in essi.

Fin dal XIII secolo le gerarchie ecclesiastiche tentarono di limitare le esuberanze delle Feste dei folli e in seguito di proibirle, incontrando però l’opposizione ostinata del clero dei capitoli, che le considerava una propria prerogativa e un modo per esercitare un’influenza all’interno delle città. Solo con la Controriforma la Chiesa riuscirà ad imporre il divieto alla celebrazione di tali feste. Nel 1547, infatti, dopo alterne vicende, le ‘feste dei folli’ furono definitivamente soppresse, ma scomparvero solamente come evento religioso. La loro organizzazione venne gradualmente presa in gestione da associazioni laiche, conosciute in Francia come Compagnies des fous o Sociétés joyeuses, e largamente diffuse anche in Italia settentrionale. Queste ‘corporazioni’ del riso, composte in prevalenza da giovani borghesi, erano organizzate secondo statuti che parodiavano la gerarchia ecclesiastica e che prevedevano l’elezione annuale di un capo, chiamato ‘papa’, ‘vescovo’ o, più spesso, ‘abate’, ad imitazione delle più antiche ‘feste dei folli’ ecclesiastiche; per sostenere la loro attività, le ‘compagnie’ richiedevano il contributo economico di tutti i cittadini e raccoglievano i denari attraverso una questua che si svolgeva per le vie della città, proprio come in passato avevano fatto i giovani chierici delle cattedrali.  Oltre a questo tipo di feste, le associazioni organizzavano anche il Carnevale, il Calendimaggio ed eseguivano alcune terribili forme di derisione sociale, come lo charivari.
Lo charivari era un antico rituale di pubblica condanna e derisione tramite il quale la comunità sanzionava matrimoni atipici, comportamenti devianti e individui responsabili di atti ritenuti offensivi verso l’etica o la morale. Comune durante il medioevo in Europa centrale e in Inghilterra, il fenomeno, nonostante i divieti delle autorità civili e religiose, rimase diffuso in alcune zone fino al XIX secolo. Protagonisti principali dello charivari erano i giovani che, talvolta travestiti, utilizzando utensili e caldaie, provocavano baccano presso l’abitazione della persona alla quale la protesta era indirizzata, che in tal modo veniva esclusa di fatto dalla comunità e spinta o ad abbandonare il gruppo o a fare ammenda. La motivazione più comune riguardava i matrimoni tra risposati, tra vedovi o tra persone di età molto diverse, oppure fatti specifici come la scoperta di relazioni adulterine.

Miniatura tratta dal ‘Roman de Fauvel’ (Francia, inizi XIV), Bibliothèque nationale de France, Parigi - Pinterest

IL PAESE DI CUCCAGNA

Sin dai tempi più antichi, una caratteristica dell’uomo è stata quella di creare società immaginarie, nelle quali l’ordine del mondo era esattamente rovesciato. Che si sognasse Saba, Mu, Atlantide, Lemuria, le Indie, Thule o le Isole Fortunate, che si mirasse a Oriente o Occidente, gli uomini medievali e rinascimentali potevano sognare un Eden, un giardino delle delizie, che superasse i limiti e le miserie della realtà vissuta.

Fra queste società della fantasia, quello del Paese di Cuccagna resta uno dei miti più diffusi, presente nella tradizione orale europea già a partire dal XII secolo e in quella scritta dal secolo successivo. A fronte di una realtà di sofferenza e di miseria, si immagina un mondo del tutto diverso  e opposto, i cui tratti fondamentali sono l’abbondanza, la libertà e l’assenza di fatica. A Cuccagna è, infatti, proibito lavorare, l’ozio (tradizionalmente considerato un vizio) è considerato virtù, tutto è consentito all’insegna della più ampia libertà, compresa quella sessuale, i medici sono banditi e non esistono né sofferenza, né vecchiaia. Il paese di Cuccagna è un luogo di delizie in cui i muri e i tetti delle case sono fatti di salsicce e di prosciutti; ovunque sono imbandite tavole e ognuno può servirsi a sazietà di carne e di pesce; in mezzo al Paese, poi, scorre un vero fiume di vino.

Il Paese di Cuccagna, incisione di Remondini di Bassano, XVIII sec. - www.archimagazine

Cuccagna, si può dire, nasce già nell’Antica Grecia, quando autori come Luciano di Samo e Aristofane descrivevano città e isole felici, abbondanti di cibi e ricchezze. Nel Medioevo circolano nell’Europa cristiana fabule (fabliaux) riguardanti le terre di Cuccagna, Bengodi, Schlaraffenland, collocate nei pressi dei Pirenei, nell’Est Europa, su un’isola o in altre lande a seconda dei casi, in cui non esiste il dolore e i fiumi sono di latte e vino, il mare di brodo, i monti di formaggio e dove tutto è alla rovescia: chi lavora viene messo in prigione, il povero è servito dal ricco, la preda dà la caccia al predatore, l’animale da soma sfrutta il fattore, il folle è ritenuto saggio e ci si può far beffe di tutto e tutti.

Recita un poemetto anonimo italiano della fine del Cinquecento, dal titolo Il piacevole viaggio di Cuccagna. Di novo ritrovato, et stampato a commodita di tutti i bon compagni, che desiderano andare in sual paese:

Venite spensierati e compagni
voi ch’avete si in odio il lavorare
amici delli grassi e buon bocconi,
nimici del disagio e del stentare,
omini di gran cor, non già poltroni,
come gli avari vi voglio(n) chiamare,
venite tutti, che andiamo in Cuccagna,
dove chi più dorme più guadagna.

La maggior parte dei testi che raccontano di questa terra hanno l’aspetto di resoconti di viaggio. Il primo carattere del paese di Cuccagna, infatti, è quello di essere un territorio lontano, anche se la tradizione è imprecisa sull’ubicazione geografica di Cuccagna. La terra di Bengodi, della quale si parla nel Decamerone, terra dove si legano le vigne con le salsicce, è posta nel paese dei Baschi ed è lontana da Firenze “più di millanta miglia”. Nel poemetto sopra citato si narra che la strada per arrivarvi è lunga, qualche volta difficile, ma le osterie lungo il cammino sono buone e a buon prezzo. Per potervi entrare bisogna prima prestare un giuramento e osservare alcune regole, in primo luogo non bisogna avere del denaro con sé. L’entrata comporta l’espletamento di un particolare rituale per poter aprire la porta.

All’arrivo il viaggiatore incontra una foresta dove gli alberi sono carichi di frutti maturi che cadono direttamente nella bocca e una fontana offre un vino squisito a chi ha sete. Il tempo è ideale – “una primavera eterna” – ed è ventilato da una leggera brezza profumata esalata da bocche che soffiano anche monete d’argento e d’oro. Il territorio si presenta come un’isola, o una terra circondata da fiumi, con una vasta pianura dominata da un’alta montagna fatta di buon parmigiano grattugiato e sormontata da una pentola piena di ravioli caldi. Intorno scorrono fiumi di vino o di latte, i laghi sono pieni di pesci e le greggi feconde; una mucca può partorire un vitello quotidianamente e le galline deporre 200 uova al giorno. Dalle miniere vengono estratti zucchero e marzapane e i dolci emanano sentori che profumano la strada. Gli edifici non sono chiusi ma sempre aperti; i muri fatti di formaggio e ricotta sono ornati di fegatini di pollo, salsicce e mortadella. Alla prigione le sbarre delle finestre sono di formaggio e i cannoni tirano fiaschi di vino.

Gustave Dorè, illustrazione per il Gargantua e Pantagruele di Rabelais, 1854 - Pinterest

Questa terra si presenta dunque come il regno dell’abbondanza alimentare e del godimento di tutti i sensi: il canto degli uccelli è dolce, il suono della musica è soave, i tessuti sono finissimi al tatto. Tutto mira alla soddisfazione del corpo, che si tratti di mangiare, bere, dormire, fare l’amore, giocare alle carte o agli scacchi. È il paese del far-niente e ogni cosa viene offerta pronta al consumo senza necessità di trasformazione. Così il grano cresce da solo, la farina è già macinata e i forni sono in permanenza pieni di dolci. Lavorare è non solo inutile ma anche vietato, e se si vuol pagare l’albergatore, questo s’arrabbia. Non è il mestiere che definisce l’identità dell’uomo ma il suo comportamento.

Il compito delle donne è ambiguo nel paese di Cuccagna. Da una parte, sono addette al piacere degli uomini, e allora sono considerate come oggetto del piacere altrui; dall’altra, esiste una rappresentazione di un paese di Cuccagna riservato alle sole donne dove gli uomini sono unicamente servitori.

Nel Rinascimento, il paese di Cuccagna sembra l’immagine di un’utopia materialistica. La società si presenta fondata sul consumo e sulle soddisfazioni dei bisogni biologici primari e ciò accade nello stesso tempo in cui le autorità religiose si preoccupano di segnare la distanza tra il corpo e l’anima. Si tratta dunque di un viaggio in uno spazio materialistico e passivo, lo spazio del consumo dove tutti i valori legati al lavoro vengono negati e combattuti. Terra lontana in uno spazio mitico, questo paese presenta in effetti alcuni elementi propri dell’utopia. Tuttavia, il soggiorno a Cuccagna non è definitivo ma effimero e il sogno non ha le caratteristiche di una società utopica realmente pensata e costruita. E’ il sogno di un oggi, un presente, non la speranza di un domani, di un avvenire. Peraltro, questo è un mondo alla rovescia e quelli che ne parlano, o che lo sognano, sono coscienti che si tratta solo di una fantasia. Siamo dunque nel mondo dell’immaginario popolare.

È proprio questo che determina esattamente la differenza tra l’utopia plebea del paese di Cuccagna e le grandi utopie dello Stato della prima età moderna, come l’Utopia di Thomas More (1516) o La città del sole di Tommaso Campanella (1623). Esse vengono edificate su terre ormai depurate dagli elementi dell’irrazionale e del bizzarro, essendo frutto di una ragione che ha ormai rotto ogni legame con la follia. Anche se presentano delle affinità in rapporto a singoli motivi (per esempio l’assenza della proprietà privata o l’abolizione del denaro), le utopie dello Stato, paragonate al paese di Cuccagna, si distinguono per un alto grado di normatività, di organizzazione centralistica e di puritanesimo morale.  Nell’Utopia di More il lavoro non è abolito, anzi è obbligatorio per tutti, compresi i grandi proprietari terrieri.

Queste costruzioni progressiste in genere rappresentano un attacco alle disuguaglianze e ingiustizie sociali del tempo e mirano ad elaborare una società più equa, fondata su un più giusto modello produttivo. A differenza dei sogni di eguaglianza borghesi, il sogno di eguaglianza che si esprime nell’utopia plebea del paese di Cuccagna non mira all’abolizione del lusso, bensì alla sua diffusione egualitaria.

Bruegel il Vecchio, Il Paese della cuccagna, 1567 - Public Domain via Wikipedia Commons

Alcuni storici spiegano la nascita di questo mito come la risposta goliardica e libertina all’ascetismo cristiano. Altri, invece, vedono nel Paese di Cuccagna la versione plebea dell’aristocratica età dell’oro. Ma con delle differenze sostanziali: mentre il mito classico presenta una Natura che, generosamente, offre senza limiti i propri doni, nel Paese di Cuccagna i fortunati visitatori possono usufruire a volontà di prodotti già lavorati (ravioli, parmigiano, prosciutti, arrosti ecc.). Nel Paese di Cuccagna, la Natura non è assolutamente concepita come qualcosa di vergine, puro e incontaminato; Cuccagna non è una terra dove l’uomo si inserisce nella realtà naturale, senza violentarla con il lavoro e vivendo in perfetta armonia con essa. Al contrario, è un paradiso all’insegna dell’artificiale, ove le leggi della Natura sono completamente sovvertite e piegate a vantaggio dell’uomo. Le leggi della meccanica e della fisica non hanno più senso: i maccheroni e i tortellini cadono dal cielo; la terra, non lavorata, produce mirabilmente cibi precotti; gli alberi non buttano gemme e foglie ma prosciutti e vestiti; gli animali, carnefici di loro stessi, si arrostiscono spontaneamente per darsi in pasto agli uomini. È una natura dove l’artificiale ha distrutto, capovolgendolo, il naturale, alterandone la legge biologica, i tempi di maturazione dei prodotti, addirittura il tempo di gestazione degli animali.

Per Jacques Le Goff, il mito di Cuccagna è più vicino al mondo alla rovescia che ad un mondo ideale primitivo o a un ideale utopico. Esso non si caricò mai di veri significati rivoluzionari, essendo più che altro un mito di evasione, un’illusione che permetteva di sopportare un po’ meglio la realtà quotidiana, fatta di miseria, di duro lavoro, di costrizione servile e di frequenti epidemie. Il paese di Cuccagna è la Terra Promessa per uomini le cui preoccupazioni dominanti e ossessive sono la fame e la carestia e che esprimono la loro sotterranea insofferenza nei confronti della rigida morale sessuale imposta dalla Chiesa e di una religiosità che dà molto più spazio all’aldilà che al mondo terreno, sacrificando quest’ultimo in nome di un ideale spirituale troppo astratto e impalpabile per rispondere davvero ai desideri e ai bisogni di uomini e donne in carne e ossa.

Nella seconda metà del Seicento i testi sul paese di Cuccagna si fanno più rari. Il contesto socio-economico è cambiato e, la Controriforma da una parte e la nuova etica borghese dall’altra, combattono in diversi modi questi aspetti trasgressivi della cultura popolare. Nel nuovo contesto il tema della Cuccagna diventa un gioco popolare legato al ciclo delle feste di maggio o viene banalizzato e integrato nel Carnevale, ma soprattutto il mito comincia ad essere sempre più utilizzato in altri ambienti culturali a fini moralistici, per denunciare certi vizi capitali come la gola e la pigrizia.

Questo vagheggiato mondo, a tratti eversivo, si svuota gradualmente di questo significato poiché la morale corrente mal sopporta che l’abbondanza ed il piacere non siano frutto del lavoro. Nell’Ottocento, il Paese di Cuccagna diventa così un espediente narrativo soprattutto destinato all’infanzia, il quale viene caricato di ammonimenti che insegnano una morale: chi non si adegua ad un disciplinato comportamento guidato da regole e norme, fondate sul dovere e sul lavoro, sarà destinato ad una brutta fine, come Lucignolo nel Paese dei Balocchi.

FONTI BIBLIOGRAFICHE

M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare – Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi 1980.
M. Boiteux, L’immaginario dell’abbondanza alimentare. Il paese di Cuccagna nel Rinascimento
U. Eco, Storia delle terre e dei luoghi leggendari, Bompiani, 2014.
Mircea Eliade, Il Mito Dell’eterno Ritorno, Edizioni Borla, 1989.
H. Franco Jr, Nel Paese di Cuccagna. La società medievale tra il sogno e la vita quotidiana, Città Nuova 2001.
Il mito dell’Età dell’oro e del Paese di Cuccagna
L. Ortolan, Prima del manicomio la follia nella cultura popolare e nella letteratura dal Rinascimento all’Illuminismo.
D. Richter, Il paese di Cuccagna. Storia di un’utopia popolare, La Nuova italia, Firenze 1998.

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