lunedì 20 marzo 2017

La follia di Dioniso



LA CONCEZIONE DELLA FOLLIA PRESSO GLI ANTICHI GRECI

Parlando di “follia”, occorre innanzitutto partire dal fatto che, come la concezione di arte, anche quella di malattia mentale ha subito notevoli mutamenti nel corso del tempo, per cui ciò che oggi intendiamo con il termine “pazzia” non è certo riconducibile al significato che aveva nell’antichità, nel Medioevo e nei secoli successivi.

All’inizio i Greci affrontano la realtà, esterna e interna all’uomo, attraverso forme di racconto che attengono alla religione e alla letteratura e che utilizzano quel tipo particolare di narrazione che è il mito: in esso non c’è una demarcazione netta tra razionale e non razionale o “pre-razionale”.
Nel suo I greci e l’irrazionale, Eric Dodds afferma che nella Grecia omerica, “quando un uomo agisce in modo contrario a quel sistema di disposizioni coscienti che, si dice, egli conosce, il suo atto non è propriamente suo, gli è stato imposto da un’entità superiore. In altri termini, gli impulsi non sistematizzati, non razionali, non sono attribuiti all’io, ma a un’origine estranea”, a un daimon soprannaturale, a una divinità o alla moira, entità di stirpe divina, ma superiore agli dei stessi. La pazzia, l’alterazione incomprensibile del comportamento, era vista come una condizione parziale e temporanea, attribuita a un agente esterno, non a cause fisiologiche o psicologiche.
Nel mondo omerico, al fondo di ogni manifestazione della follia, agiscono forze che l’uomo subisce e non riesce a controllare. E questo, prima di tutto, perché nel modello antropologico omerico manca, fondamentalmente, l’idea di “anima” (psyché), cioè di un’unità psicologica dell’io, inteso come centro coerente di pensiero, volontà, emotività e azione in grado di spiegare il comportamento dell’uomo come un tutto unitario. Quella di psyché è un’idea che nascerà più tardi, con il pensiero orfico-pitagorico e, soprattutto, con Platone.
In Omero l’anima non è quel centro unitario dal quale sgorgano tutte le azioni, volizioni e pensieri dell’uomo. Mancando un “io” vero e proprio, manca anche la follia dell’io: quest’ultima non è intesa come uno stato degenerativo della psiche, cioè come una malattia, meno che mai come uno stato definitivo, ma sempre solo come uno stato momentaneo e passeggero.

Lapith fighting a centaur. South Metope 27, Parthenon, ca. 447–433 BC. - Public Domain via Wikipedia Commons


Questi squilibri improvvisi vengono chiamati da Omero ménos; molto spesso è un dio che lo trasmette all’eroe e questi non può assolutamente opporvi resistenza. L’uomo omerico si muove sempre agito o dal destino o dalle sue emozioni: passa da una all’altra senza soluzione di continuità. I conflitti interiori prendono allora la forma di un dialogo-scontro tra diverse istanze identificate con divinità o demoni e rappresentate attraverso visioni, voci, presenze allucinatorie.
È proprio dal conflitto che nasce la malattia, ma gli eroi omerici sfuggono al disagio che esso produce collocando quel conflitto fuori di sé, attribuendolo a forze esterne, divine o demoniche. D’altra parte, apparizioni allucinatorie di figure divine, voci interiori o sdoppiamenti di personalità erano probabilmente fenomeni abbastanza comuni nell’esperienza psicologica dell’uditore o del lettore dei poemi omerici. Si tratta di fenomeni che noi ascriveremmo oggi al vasto campo della schizofrenia, ma che, secondo Dodds, nel mondo greco erano assolutamente comuni, in quanto legati a una struttura psichica diversa dalla nostra, cioè a una specifica predisposizione della mente primitiva o arcaica alle allucinazioni, al dare forma di realtà a immagini prodotte dal cervello.
Alcuni fenomeni che noi moderni ascriviamo nel campo della patologia, per la cultura greca rientravano invece nella sfera della normalità: il limite tra razionale e pre-razionale o irrazionale è, in quella civiltà, estremamente mobile e precario. All’interno del sapere tradizionale degli antichi greci, la follia è cosa diversa da ciò che teorizza la psichiatria moderna: chi è colpito da “manìa” è visto come un “posseduto”, mosso da una forza invisibile che viene attribuita a una divinità o a un demone. La follia è la conseguenza di una contaminazione, in particolare di una contaminazione “sacra” e il folle contiene in sé una forza ambivalente, positiva e negativa, che esalta e che distrugge al tempo stesso.
Nel mito i contaminati sono spesso eroi, come Oreste o Eracle, i quali vengono trascinati da un delirio che fa vedere loro cose che non esistono e che li induce a delitti efferati. Terribili le pagine in cui Euripide racconta la follia di Eracle, che, accecato da un’allucinazione, uccide moglie e figli. In questo caso l’eroe è posseduto da una forza interna, ma viene anche “inseguito” dalla follia, spesso rappresentata dalle Erinni, che non penetrano nel corpo del folle ma lo perseguitano con incantesimi e fatture.
Questa contaminazione può essere legata alla dimenticanza di qualche atto rituale, quindi a un’offesa nei confronti della divinità, o alla violazione di tabù relativi a oggetti sacri. La follia appare quindi come una punizione, le sue espressioni sono sempre violente e l’uomo o l’eroe vengono sfigurati fisicamente.
Per guarire dalla follia occorre un rito purificatore, una sorta di esorcismo. Si ritiene che in ambito greco, a differenza di quanto capitava in quello ebraico, il demone non venisse scacciato del tutto ma, piuttosto, ammansito. Questo perché, mentre per gli ebrei il demone è manifestazione del Male e in quanto tale va eliminato, per i greci, invece, esso è un’entità intermedia tra l’umano e il divino, e appartiene alla sfera del sacro. È interessante notare questa differenza perché segnala un diverso approccio all’irrazionale: paradossalmente, proprio nel mondo greco, che ha visto nascere le forme moderne della razionalità, la prossimità all’irrazionale non viene cancellata. Il confronto tra Apollo e Dioniso non è mai definitivamente risolto.

CENTAUROMACHIE. IL CONFLITTO TRA RAZIONALE E IRRAZIONALE

A partire dall’epoca dei sofisti, di Socrate e di Platone la cultura greca prese a scindere ragione e irrazionalità come le due componenti fondamentali dell’anima (psyché), che coesistono in essa. Da Platone in poi, per anima si intende l'io stesso dell'uomo, un centro coerente di pensiero, volizione, emotività e azione in grado di spiegare il suo comportamento come un tutto unitario. Razionale e irrazionale vengono nettamente separati, e al primo viene affidato il compito di arginare il secondo. Essi, pertanto, sono i due termini di un conflitto perenne, che si combatte all’interno della psiche: il prevalere dell'anima passionale e delle sue pulsioni può trascinare l'uomo nel delirio e nella follia. Compito dell'anima razionale è quello di arginare quell'energia, di addomesticarla e incanalarla verso i propri fini.
Anche la civiltà greca nell’epoca del razionalismo, dunque, riconosce il conflitto insolubile che si compie nell’uomo e che non si può risolvere se non nella morte. “Ogni uomo combatte una guerra contro se stesso”, scrive Platone nelle Leggi. Affermando che l'anima è divisa in tre parti (razionale, volitiva e passionale), è come se Platone accettasse l’idea che proprio nell’anima, accanto alla ragione, si può annidare un possibile disordine, una forza oscura e vitale che è ineliminabile. La conseguenza è il riconoscimento che in tutti gli uomini alberga il germe della follia, una presenza silenziosa che in talune situazioni può far sentire la sua voce, come ad esempio nel sogno, quando si allenta il controllo della ragione ed emergono le pulsioni più inconfessabili (Platone, Repubblica).
Saranno queste le basi della nostra cultura e tuttavia, in questa fase, essa appare ancora in uno stato fluido in cui le due dimensioni, razionale e irrazionale, possono ancora comunicare tra loro, in cui si può frequentare le zone tenebrose del proprio animo senza precipitare nell'abisso.
Possiamo interpretare allora le immagini delle metope di Fidia, collocate nel lato sud del fregio dorico del Partenone, quelle che raffigurano la Centauromachia, come metafora della lotta perenne che l'uomo ingaggia contro se stesso, del conflitto insanabile tra la ragione e la Bestia irrazionale che abita dentro di lui, rappresentata dal Centauro. Nel mito, il Lapita, l’uomo, combatte e sconfigge il Centauro selvaggio, metà uomo e metà cavallo e abitante dei boschi, figlio di Issione, re dei Lapiti, e di una nuvola a cui Zeus aveva dato le forme di Era.

Metopa del Partenone con lotta tra un centauro e un lapita.


Scrive Platone nella Repubblica: “in ciascuno è presente un tipo di desiderio terribile, selvaggio, sfrenato, che si ritrova anche in quelle persone che sembrano veramente equilibrate, ed è proprio questo che i sogni mettono in evidenza”. (Repubblica, 571 cd. )
Per Platone, inoltre, vi è una ben diversa follia, che permette all’uomo posseduto (katechómenos) di elevarsi oltre la ragione, grazie alle divinità. È questa la possessione, parziale e temporanea, del profeta e del poeta. Questo tipo di follia non toglie nulla, semmai aggiunge, dotando l'uomo di facoltà superiori.


FOLLIA RITUALE: IL MENADISMO

Accanto all’esorcismo vi erano i rituali di guarigione dalla follia attraverso cure iniziatiche, che si svolgevano secondo modalità collettive e “teatrali”.
Nelle immagini delle Baccanti, possedute da Dioniso, trovava espressione una forma di follia temporanea e ritualizzata. Durante il rito le donne impugnavano il tirso, una canna con una pigna in cima, e si allontanavano dalla famiglia al suono di flauti e tamburelli; si abbandonavano a danze sfrenate e si cibavano di carne cruda. Grazie alla musica dai ritmi ossessivi e alla danza, il rito si concludeva con la caduta in uno stato di trance, dopo il quale era possibile il ritorno delle donne all’ordine sociale tradizionale. La follia delle baccanti serviva a dare sfogo temporaneo agli impulsi irrazionali: resistere a Dioniso significa reprimere gli elementi primigeni della propria natura.

Arte romana dall'egitto (Fayum), Placchetta d'osso con baccanale di due menadi e un satiro, II-III sec. - Public Domain via Wikipedia Commons


Nelle Baccanti di Euripide (406-403 a. C.) Penteo, re di Tebe, bandisce dalla città il culto di Dioniso e ne misconosce la divinità, volendo affermare il predominio assoluto della ragione. Dioniso, per punirlo, ne rende folle la madre, Agave, e le Baccanti, che uccidono Penteo e ne dilaniano le membra, credendolo una belva.
Dioniso condanna così la presunzione dell’uomo che pensa di poter cacciare la follia rituale delle donne dalla città e di affermare il predominio assoluto della ragione.
Quello di Penteo non è il solo mito che lega il dio Dioniso alla pazzia. Quando le tre figlie di Preto, re di Tirinto, infatti, si rifiutarono di partecipare ai misteri dionisiaci, il dio le punì rendendole pazze e facendole vagare per i monti in balia di frenesie erotiche.
Questi miti avranno larga rappresentazione, soprattutto nella pittura vascolare. Questo è invece un affresco rinvenuto in una domus pompeiana.

Penteo viene squartato dalle Baccanti. Casa dei Vettii, Pompei, Italia, I secolo d.C. - Public Domain via Wikipedia Commons


I riti dionisiaci erano collettivi e periodici, e pertanto integrati nella società e nella sua cultura. I comportamenti e le manifestazioni degli adepti, che noi oggi reputeremmo patologici, erano considerati normali e anzi costituivano una forma di conoscenza più profonda della realtà. Si assiste in questo caso a una sorta di assimilazione dell’eccessivo e del trasgressivo all’interno della comunità. I partecipanti erano donne e venivano non a caso chiamate “menadi”, cioè folli, a Sparta dysmàinai, brutte e folli. Si trattava in fondo della reintegrazione di due forme di marginalità, quella della follia e quella della donna, all’interno di una polis organizzata in modo prevalentemente maschile.

Rilievo con menadi danzanti, rielaboraz. neoattica da modelli di kallimachos, 420-400 a.C. ca., Museo Barracco - Public Domain via Wikipedia Commons


Le adepte erano organizzate in congregazioni che a Delfi erano chiamate delle tìadi (le “ribollenti”) e che possedevano una forma di ufficialità. In alcuni periodi dell’anno convergevano da diverse parti della Grecia verso Delfi e si poteva assistere allo spettacolo dei loro cortei danzanti lungo le strade. Naturalmente i veri e propri riti dionisiaci non si compivano in pubblico ma fuori dagli abitati, preferibilmente sulle montagne e comunque in luoghi marginali che favorivano una situazione psicologica di straniamento. Perciò, anche se le autorità delle poleis cercavano di normare e ufficializzare questi riti, essi per lo più sfuggivano a questo tentativo di controllo e conservavano tutta la loro carica eversiva.

Baccante col caratteristico tirso ed un animale in spalla. Cratere attico a figure rosse, 480 a.C. circa - Public Domain via Wikipedia Commons

Riferendosi alle Baccanti di Euripide, si può stilare un elenco delle caratteristiche ricorrenti nei riti dionisiaci:
la danza notturna in luoghi fuori dall’abitato (boschi o monti),
la presenza di donne sia adulte sia adolescenti,
il travestimento con pelli di animali da parte di alcune menadi,
la danza sfrenata al suono di flauti e tamburelli, agitando il tirso,
la posizione tipica della testa, rivolta all’indietro e con i capelli scompigliati,
un ritmo crescente sino al parossismo e poi allo sfinimento,
le grida violente e ritmate, ossessive, e in particolare il grido rituale “evoè”.
una insensibilità al caldo e al freddo, persino al dolore, accompagnata da un accrescimento sorprendente della forza fisica,
l’uccisione, o meglio lo strazio (sparagmòs, squartamento), di animali, le cui carni vengono divorate ancora crude e palpitanti,
la manipolazione di serpenti velenosi,
la caduta di alcune menadi a terra, in stato di trance, interpretato come stato di possessione da parte della divinità,
la presenza di visioni (allucinazioni), di cui poi le menadi perdono il ricordo.

Rilievo romano di una menade con tirso, 120-140 a.C. circa, Museo del Prado - Public Domain via Wikipedia Commons


La danza e la musica portano allo scatenamento dei sensi e alla perdita di coscienza, favorendo l’emergere di una dimensione irrazionale e l’identificazione con gli elementi primordiali, pre-razionali e pre-umani della natura.
Come scrive Giulio Guidorizzi in Ai confini dell’anima. I Greci e la follia:
“Per i Greci la follia non fu solo il baratro buio della ragione, ma anche l’incontro con sfere nascoste della mente e con una dimensione dalla quale un essere umano resta escluso finché la mente non lo abbandona; non fu intesa solo come un cedimento della coscienza, ma anche come un mezzo per forzare i suoi limiti e dilatare la personalità. Perciò lo statuto della follia in Grecia oscilla tra due estremi: in parte corruzione dell’anima, in parte profonda esperienza dello spirito, poiché solo attraverso la follia si può giungere a esplorare l’estremo confine della natura umana.” (pag. 11)
È significativo, a questo proposito, che proprio Delfi fosse il santuario dedicato sia ad Apollo sia a Dioniso, i quali erano onorati in momenti diversi dell’anno. Sulla scia delle considerazioni nietzschiane, esposte nella Nascita della tragedia, è lecito affermare che i due elementi fondamentali della cultura greca, ma più in generale della cultura occidentale, il dionisiaco e l’apollineo, dovessero essere necessariamente presenti e attivi, l’uno a manifestare l’inesauribile o primordiale forza vitale e creativa da cui si genera ogni espressione culturale, l’altro a ricordare che senza una forma controllabile quella forza diventerebbe puramente distruttiva.

Rilievo in marmo con Dioniso ebbro fra Satiri e Menadi, oggi nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli - Public Domain via Wikipedia Common


IL BALLO DELLA TARANTA

Agli antichi culti dionisiaci, l’etnologo Ernesto De Martino, nel suo La terra del rimorso (1961) collegava un fenomeno che, al tempo dei suoi studi sul campo, sopravviveva solo in alcune zone del Salento, appena prima che molteplici fattori storico-culturali lo portassero a scomparire del tutto. Si tratta del tarantismo, fenomeno culturale risalente al Medioevo, ampiamente diffuso nelle regioni del Regno di Napoli, anche se a partire dal ‘700 si presentava localizzato principalmente nell’entroterra salentino, un declino dovuto all’azione convergente del razionalismo illuminista e della Chiesa cattolica contro la sopravvivenza di riti magici e di superstizioni, ma soprattutto al processo di disgregazione culturale seguito alla scomparsa dell’antica società contadina.

Maria di Nardò in stato di trance, Galatina,1959 (Foto Pinna) - Pinterest

Secondo le credenze popolari, si trattava di una malattia provocata dal morso della taranta, un piccolo ragno attivo soprattutto nei mesi estivi. Provocava uno stato di malessere generale – dolori addominali, stato di catalessi, sudorazione, palpitazioni – e una sintomatologia psichiatrica simile all’epilessia. Le vittime più frequenti del tarantismo erano le donne, in quanto durante la stagione della mietitura, le raccoglitrici di grano erano maggiormente esposte al rischio di essere morsicate dal ragno.

Femmina di Latrodectus tredecimguttatus - Public Domain via Wikipedia Commons

De Martino, coadiuvato da un’équipe composta da psichiatri, psicologi, etnomusicologi e antropologi, mostra l’insufficienza di ogni ipotesi soltanto medica, tesa a ridurre il tarantismo a una forma di aracnidismo o a disagio psichico. Il tarantismo è stato invece un fenomeno multiforme, dai tratti profondamente simbolici. L’interpretazione di De Martino conferisce agli elementi “taranta”, “morso”, “veleno”, “crisi”, “cura” e “guarigione” il significato di simboli mitico-rituali culturalmente condizionati nel loro funzionamento e nella loro efficacia.
Il tarantismo non soltanto rinvia agli antichi culti orgiastici e iniziatici dell’antichità classica, ma sembra risentire di influenze che si possono genericamente definire afro-mediterranee, cui il sud Italia fu esposto a partire dal VII secolo, a causa del processo di espansione dell’Islam in quell’area.
Tra le due culture vi sono molte analogie se rapportate sul piano di due fenomeni: il menadismo per il mondo greco, una forma di frenesia estatica che coinvolgeva solitamente donne, rappresentate con indosso pelli di animali e spesso agitando un tamburello; la possessione da parte di entità demoniache per il modo africano.
Secondo De Martino, le tarantate «ricordavano menadi, baccanti, coribanti e quant’altro nel mondo antico partecipava a una vita religiosa percossa dall’orgiasmo e dalla “mania”». Dioniso era il dio più importante della zona della Magna Grecia e molti elementi del tarantismo richiamano le strutture mitico-rituali e le funzioni esistenziali proprie della catartica coreutico-musicale presente nel mondo religioso greco.

Luigi Stifani, Salvatora Marzo, Pasquale Zizzani, durante l'esorcismo di una tarantata - Public Domain via Wikipedia Commons

Il tarantismo conserva molti tratti degli antichi culti di possessione e del menadismo dionisiaco; esso costituisce un rituale di esorcismo coreutico, musicale e cromatico. E, come spesso è accaduto per i rituali a carattere magico o di derivazione pagana refrattari ad essere soppiantati, anche a questa tradizione si è cercato di dare una collocazione all’interno del culto cristiano: così si spiega il ruolo di San Paolo, ritenuto il santo protettore di coloro che sono stati pizzicati da un animale velenoso, a cui rivolgersi per ottenere la grazia di una guarigione.
L’esorcismo coreutico-musicale-cromatico poteva aver luogo sia all’aperto (campi, piazze) che a domicilio. Veniva predisposto uno spazio rituale (generalmente un lenzuolo bianco disteso per terra), cosparso di nastrini colorati o altri oggetti. I musicisti, attraverso la musica, eseguivano una fase esplorativa per scoprire quale tipo di taranta fosse la responsabile dell’avvelenamento (si distinguevano, per esempio, la “taranta ballerina”, la “taranta libertina”, la “taranta triste e muta”, la “taranta tempestosa”, la ”taranta d’acqua” ). Il tipo di melodia che scatenava la danza della tarantata indicava il tipo di ragno che l’aveva morsa. Dopo questa fase diagnostica spesso aveva luogo una fase “cromatica”, in cui la tarantata veniva attratta dai colori, in particolare dai nastri e dai fazzoletti colorati che circondavano il perimetro cerimoniale. Iniziava quindi una fase coreutica in cui la tarantata cominciava ad agitarsi, a dimenarsi come se fosse stata in preda a convulsioni, ad assumere delle posture particolari, disinibite e talvolta esplicitamente erotiche, e poteva avere atteggiamenti che ricordavano quelli dello stesso ragno e spesso, nella danza incessante, raggiungeva uno stato di trance. La tarantata eseguiva il ballo della pizzica in duplice veste: come vittima posseduta dal ragno e, nello stesso tempo, come eroina che piegava e sconfiggeva la bestia facendola danzare con lei fino a sfiancarla. Il rito poteva andare avanti per molte ore e addirittura per giorni, fino alla scomparsa dei sintomi. A grazia ricevuta, cioè ottenuta la guarigione, la tarantata cadeva sfinita in un sonno profondo.
Il 29 di giugno, poi, giorno della festa dei santi Pietro e Paolo, presso la Chiesa di Galatina ad essi dedicata, si ripeteva il rito come atto di devozione e di ringraziamento al santo che aveva operato la grazia.
De Martino respinge la spiegazione puramente medica del fenomeno, ipotizzando che la crisi reale dovuta al morso del ragno (latrodectismo) era, in quella cultura, diventata l’occasione per evocare, configurare, far defluire altre forme di “avvelenamento simbolico”: frustrazioni, traumi e conflitti irrisolti. In occasione di determinati momenti critici dell’esistenza, come la fatica del raccolto, la crisi della pubertà, la morte di qualche persona cara, un amore infelice o un matrimonio sfortunato, la condizione di dipendenza della donna, i vari conflitti familiari, la miseria e la fame, insorgeva la “crisi dell’avvelenato”, utilizzando il modello del latrodectismo simbolicamente riplasmato come morso di taranta, che scatenava una crisi da controllare mediante l’esorcismo della musica, della danza e dei colori.
Il tarantismo inscenava un ‘delirio controllato’ analogo a quello dei rituali coribantici e del menadismo, fungendo da valvola di sfogo, da catarsi, per gruppi sociali solitamente costretti ad un ruolo subalterno: non a caso, l’epoca dei ‘rimorsi’ era la stagione estiva, quando la raccolta del grano e la pigiatura dell’uva nei tini, sotto il caldo torrido, metteva a dura prova le forze dei lavoratori. Inoltre, esso permetteva alle donne (di qualsiasi età, non necessariamente giovani) di sfogare i propri impulsi sessuali inconsci, di norma censurati dalla loro comunità, inscenandoli entro un quadro rituale socialmente accettato.
Il simbolo della taranta costituiva un orizzonte mitico-rituale, culturalmente integrato, all’interno del quale evocare, configurare, far defluire e pertanto risolvere il “male” che azzannava dentro, cioè i conflitti psichici irrisoluti che “rimordono” nell’incoscio. Il rituale permetteva il trascendimento simbolico degli intimi conflitti della vittima e di riconciliarla con le sue esperienze dolorose, fino a restituire un senso ad una situazione altrimenti patita come caotica e destrutturante. Una volta scomparso quell’orizzonte culturale, non rimasero che la medicina e l’istituto psichiatrico ad “accogliere” questi conflitti, a connotarli non più nell’alveo mitico della lotta contro la bestia, ma a denotarli con i termini freddi del linguaggio scientifico, confinandoli nell’ombra ambigua e desolata del disagio psichico, allontanato e occultato dalla comunità ormai disgregata e senza più il senso del sacro, incapace di elaborare nuove forme culturali condivise tramite le quali dare forma ed espressione al disordine e alla crisi.
“Oggi noi sappiamo che il morso non è assalto di démone, ma il cattivo passato che torna e si propone alla scelta riparatrice. Momento di un interiore rimordere, sintomo cifrato di conflitti operanti nell’inconscio. Ecco perché il tarantismo ci riguarda da vicino e sfida, ancor oggi, le insidiate potenze della nostra modernità.” (Ernesto de Martino, da Sulla terra del rimorso)

A questi link, alcuni spezzoni del bellissimo documentario sul tarantismo realizzato con la consulenza di Ernesto De Martino. Il commento è di Salvatore Quasimodo, le musiche originali registrate da Diego Carpitella e la regia è di Gian Franco Mingozzi.





FONTI BIBLIOGRAFICHE

De Martino E., La terra del rimorso, Il Saggiatore, Milano, 1961
Dodds E. R., I Greci e l’Irrazionale, La Nuova Italia, Firenze, 1978
Guidorizzi G., Ai confini dell’anima. I Greci e la follia, Raffaello Cortina, Milano, 2010
Novara E., I Greci e la follia, Antropoanalisi. Rivista della Società Gruppoanalitica Italiana
Ricci A., I suoni e lo sguardo: etnografia visiva e musica popolare nell’Italia, Franco Angeli, 2007.

1 commento:

  1. Marisa, mi sono permesso di condividere via email questo articolo con un mio amico di Supersano. Ciao

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