lunedì 20 marzo 2017

L'uomo e la natura - Aguirre, furore di Dio.

Aguirre, furore di Dio [Aguirre, der Zorn Gottes, Germania Ovest 1972] REGIA Werner Herzog.

Quale miglior modo per concludere il percorso sul rapporto tra uomo e natura di quello di parlare di Aguirre, furore di Dio? Questo film mi dà anche l'occasione per introdurre il nuovo (questa volta brevissimo) percorso, che sarà dedicato alla "follia".

Aguirre furore di Dio è la storia di una spedizione di conquistadores spagnoli nella foresta amazzonica, avvenuta verso la fine del 1560, alla ricerca della mitica città di Eldorado, e dell'ammutinamento condotto dal luogotenente Lope De Aguirre, interpretato da Klaus Kinski, che trascinerà nel suo delirio quaranta tra spagnoli e indios. Alla fine, l'unica zattera scampata alla furia delle acque viene trasportata dalla corrente lungo il fiume, mentre i superstiti gradualmente muoiono, per le frecce avvelenate o per la febbre. Nel finale Aguirre, ultimo sopravvissuto, su una zattera semidistrutta e invasa dall’acqua e dalle scimmie, continua il suo folle monologo, in cui dichiara di voler unirsi alla figlia (già morta) per dar vita a una stirpe pura e di iniziare da quella terra la conquista dell'intero continente. La narrazione si ispira a un fatto realmente accaduto, sebbene liberamente rielaborato.
Nonostante la trama, protagonista del film di Werner Herzog non è né l'azione né l'avventura, in quanto predomina piuttosto una narrazione che si svolge come un incubo dal ritmo ipnotico e allucinatorio. Vera protagonista della pellicola è la natura primordiale e immensa, contro la quale l'uomo ingaggia un mortale confronto che lo porterà alla follia e alla distruzione. Lo si capisce già dalle prime scene del film, in cui alla visione della furia di un torrente in piena succede quella del fianco ripido di una montagna immersa nella nebbia, animata da una fila interminabile di uomini che scende faticosamente lungo le pendici rocciose.


La natura di “Aguirre furore di Dio” è un cuore di tenebra dentro il quale sprofonda il cuore altrettanto tenebroso del protagonista, un uomo che non comprende i suoi limiti e ambisce ad essere onnipotente come un Dio. La natura è un universo che non conosce armonia, che non si lascia conquistare, ma ingloba, ipnotizza o annienta. E Aguirre è lo specchio di questo mondo oscuro e impenetrabile.
Herzog racconta, tra macchine a spalla e soggettive, il processo di fusione di Aguirre con la natura. In fondo il personaggio non esegue nessuna impresa valorosa: non uccide, non combatte; è una figura fondamentalmente statica. Aguirre guarda. E lo spettatore entra nel suo sguardo, e in quello della cinepresa. Il vero attore che agisce è il paesaggio naturale, il solo che permette il progredire della narrazione: l’acqua del fiume Urubamba muove le zattere, le frecce che sbucano dalla foresta o la febbre uccidono i soldati. I personaggi sono invece gli attori di quadri statici, alle prese con una sorta di attività contemplativa del paesaggio. Ma Aguirre, che nella sua follia è il più vicino alla furia irrazionale dell’elemento naturale, è l’unico che osa vedere più a fondo e che, attraverso lo sguardo, finirà con raggiungere il centro di quella natura primordiale, imperturbabile e spietata. E ne verrà annientato.
Scopo della spedizione è raggiungere la leggendaria Eldorado, città che racchiude inestimabili ricchezze. Ma se gli uomini seguono Aguirre per raggiungere l’oro, al loro comandante non interessa la ricchezza: “Anche se questa terra fosse fatta di soli alberi e acqua, noi ne prendiamo possesso. Non mi interessa l’oro, ma il potere.” Gli altri membri della spedizione sono attaccati a obiettivi che fanno parte della loro cultura (la ricchezza), Aguirre invece tradisce la sua “cultura” (la corona di Spagna così come il Dio cristiano), perché vuole eguagliare la potenza della natura, che fin dall'inizio del film si impone come la più forte e imbattibile. Aguirre ne subisce il fascino e si immerge in essa, fino a un delirio di onnipotenza: "se io, Aguirre, voglio che gli uccelli cadano fulminati, gli uccelli devono cadere stecchiti dagli alberi! Sono il furore di dio. La terra che io calpesto mi vede e trema".


La cultura soccombe al potere di questa natura: i cannoni, che potrebbero radere al suolo intere città, rimangono impantanati nelle paludi di fango; le zattere, costruite dall'uomo, sono trascinate via dai vortici della corrente. Tutto ciò che proviene dalla società civilizzata viene spazzato via dalla ferocia della foresta e del fiume: le ambizioni, le brame di potere, i sogni degli uomini sono fiaccati e distrutti, ogni relazione interna al gruppo e i legami sociali e giuridici della società organizzata vengono sciolti e annientati. Solo Aguirre, la cui furia è specchio di quella degli elementi naturali che lo circondano, è colui che, tra gli uomini, meglio interpreta il più intrinseco modo d'essere della natura selvaggia: la sua brama di potere non mira alla costruzione di un regno, ma solo a imporre il suo dominio inteso come primordiale legge del più forte. 
L'occhio dell'uomo civilizzato si trova a dover fare i conti con questa evidenza: l'esistenza di una natura che è una realtà immensamente più grande di lui, di una "alterità" primitiva, estranea e distante e tuttavia prossima al suo sguardo. Aguirre è l'uomo che, sospinto da un folle "eroismo", trova il coraggio di sfidare quella "soglia" e di penetrare dall'altra parte, lì dove ad attenderlo c'è solo solitudine e morte. Si può leggere la sua follia come la capacità di vedere ciò che gli occhi civilizzati non riescono a vedere. E si può intendere il suo percorso come uno sprofondamento fino al cuore della foresta, un addentrarsi dentro la natura primordiale allontanandosi dalla cultura. Alla fine egli sarà letteralmente immerso dentro il paesaggio: solo così potrà “vederlo” veramente. Se gli si rimane di fronte, il paesaggio rimane incomprensibile. 
Aguirre mira oltre l'umanamente raggiungibile, seguendo un istinto animalesco, tanto da trovarsi infine a capo di un esercito di cadaveri e scimmie. Eppure Herzog sembra comprendere le smisurate ambizioni dei suoi protagonisti, i quali, se non altro, rappresentano un adeguato strumento di misurazione per indagare la natura umana: secondo un'efficace metafora dello stesso regista, come gli scienziati riescono a risalire alle proprietà intrinseche di un oggetto sottoponendolo alle condizioni più estreme, così egli porta i suoi soggetti a varcare i limiti cui per natura sono destinati per scavare quanto più profondamente nella loro anima e metterne in luce le radici. La follia viene così elevata al rango di vero e proprio atteggiamento esistenziale, fino a costituire una via (forse l'unica?) per ritrovare la dignità e la grandezza del nostro essere.


Questa visione dell'eroe rende Herzog il cantore dei grandi perdenti, perché nel suo mondo non v'è grandezza senza un'inevitabile tragica sconfitta.
In ogni caso, il mondo rimane pur sempre estraneo, inaccessibile, impenetrabile: uno iato originario e incolmabile lo separa dall'uomo, al quale si presentano soltanto due, estreme, possibilità: o si resta stupiti sull'orlo dell'abisso che ci separa dalla natura, a contemplarla da lontano e senza alcuna possibilità di comunicare con essa (è questo l'atteggiamento che l'occhio del regista, attraverso la sua macchina da presa, spesso sembra privilegiare), oppure ci si lancia con tutte le forze oltre il confine, sfidando la realtà in un cammino senza ritorno, che porta solo alla morte nella più totale solitudine. Ma fino alla fine Aguirre, così come tutti gli “eroi” herzoghiani, conserverà il proprio folle senso di dignità senza arrendersi mai, nemmeno all'evidenza di una zattera ormai inghiottita dal fiume e invasa dalle scimmie. La natura alla fine ha vinto, accerchiando e inglobando l'uomo che l'aveva sfidata, una natura impassibile a ogni sforzo umano, che travolge tutto con una indifferenza che è crudele e innocente nello stesso tempo.
Per l'intera durata della pellicola Herzog rifugge la rappresentazione lineare dell'azione in favore di una straniante successione di quadri statici, alternando controcampi e lunghi piani sequenza, in cui il soggetto parlante si trova spesso fuori dall'inquadratura, che resta fissa sul paesaggio. Il risultato di ciò è la dilatazione dei tempi percepiti in favore di un senso di eterna immobilità della visione e della natura stessa, percepita come un qualcosa che dilata e fagocita ogni azione umana.
La potenza visionaria di questo film è tale da essere trascinati in un mondo da incubo dove la ragione non può più nulla e tutto è pura visione.
Ad amplificare l'effetto straniante delle scene intervengono le musiche elettroniche dei Popul Vuh, che accompagnano lo spettatore dentro questo incubo allucinato.
Francis Ford Coppola dichiarerà di essersi ispirato a questo capolavoro per il suo, altrettanto visionario cuore di tenebra, “Apocalypse Now”. 
A questo link la bellissima scena finale: 


Nessun commento:

Posta un commento