mercoledì 7 agosto 2019

Mario Giacomelli. I segni del corpo, il corpo come segno

Mario Giacomelli, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1966 - 1968

Non c’è solo il corpo tragico delle guerre, delle pestilenze e delle carestie.
E’ insito nella nostra stessa materia biologica il cammino verso la decadenza, il lento logorio della carne, l’inaridirsi della pelle che si prosciuga e s’increspa, l’inarrestabile accasciarsi delle forme.
Con questo spirito, Mario Giacomelli realizza, tra il 1955 e il 1957 (ma ci ritornerà molte altre volte fino ai primi anni ottanta), una serie di fotografie agli anziani ricoverati nella casa di riposo di Senigallia, sua città natale. Un progetto che dapprima si chiamerà Vita d'ospizio e che poi prenderà come titolo il verso di Cesare Pavese Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
In questi scatti, lontani da ogni finalità documentaria, è proprio lei, l’ospite evocata dal poeta, che fa aleggiare la sua presenza invisibile tra il bianco delle lenzuola e le sbarre di ferro dei letti. Per Giacomelli questi corpi esposti e fragili, che mostrano impietosamente lo scempio del tempo, spesso colti nella nudità della carne e della solitudine, hanno la forza terribile e struggente di una metafora che s’incarna, in senso letterale, facendosi carne: la vita è questo, un corpo a corpo, e queste fotografie ne mostrano l’ultima ripresa.

Mario Giacomelli, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1955 - 1957

Giacomelli vive l’angoscia dell’ineluttabilità del tempo, questo agente inafferrabile al servizio del convitato atteso. Nell’ospizio può non solo sentirlo, ma anche vederlo all’opera. Chiunque sia mai entrato in un luogo simile, conosce gli odori, i suoni, i colori sbiaditi dalla fioca luce che lo impregnano, il tocco delle mani fredde che fa trasalire. La fotografia non può rendere quell’atmosfera; occorre viverla di persona, incamminarsi tra quei corridoi e portare il proprio corpo tra quei corpi, provando lo stesso disgusto che Giacomelli ha provato “per il prezzo con cui viene pagata una vita”:
“[…] chi guarda quelle immagini non vede niente di quello che ho provato quando ero lì a fotografare. Non c’è il puzzo della morte che senti lì dentro. C’è proprio il sapore della morte, quando entri lì. Quando guardi la fotografia non senti che quel posto è come una sala d’attesa […] Senti dentro di te qualche cosa che non vorresti mai sentire eppure provi il desiderio di ritornarci, perché? Perché vuoi capire anche questo, capire queste cose che tu non conosci” (Mario Giacomelli. La mia vita intera, a cura di Simona Guerra).

Mario Giacomelli, E io ti vidi fanciulla, Ospizio, 1981 - 1983.

Guardando queste fotografie, ci si accorge come quasi mai l’obiettivo riesca ad incontrare gli occhi di coloro che inquadra. Lo sguardo di quei volti è colto talora in una smorfia di doloroso smarrimento, ma il più delle volte è ripiegato su se stesso: è il pudore dell’incoscienza che la senilità offre come pietà estrema, l’inerzia delle giornate che si susseguono uguali o il distanziarsi nel raccoglimento che prepara all’ultimo passaggio? Eppure non mancano i momenti di dolcezza: un gattino che gioca, una coppia di anziani che si scambia un bacio mentre le mani intrecciate sgranano un rosario.
Giacomelli usa flash potenti che rendono il bianco abbacinante e sprofondano il nero in un’oscurità senza remissione. D’altra parte la vecchiaia non è più il tempo dei grigi e delle mezze misure. I momenti che si preparano al passaggio hanno bisogno di contrasti forti, da sostenere con coraggio. Guardare in faccia la verità del tempo è come il lampo di luce che rivela un oggetto nella stanza, traendolo per un attimo dall’ombra ed isolandolo da tutto il resto.
“Quando io mostro questi vecchi – dichiarerà più tardi -, mostro me stesso, le cose che non ho capito, che avrei voluto fare in un'altra maniera, che vorrei ricominciare.”


Mario Giacomelli, Paesaggi.



Anche quando non lo fa in modo diretto, la fotografia di Giacomelli è sempre un rapporto con il corpo, inteso come fragile materia che porta su di sé i segni del tempo.
E’ significativo che la mostra antologica dedicata all’autore nel 2018, nell’ambito del Festival F4 / un’idea di Fotografia tenutosi a Pieve di Soligo (TV), si intitolasse proprio Mario Giacomelli. Il corpo della terra, e comprendesse i due cicli più importanti dell’autore, i Paesaggi e l’Ospizio. E’ lo stesso Giacomelli a spiegare il nesso: «Il paesaggio all’inizio è nato pensando alla materia stessa dell’uomo, la carne: la terra è uguale alla carne dell’uomo». Di fronte a entrambi questi soggetti, la sua fotografia cerca una sublimazione in grado di andare oltre il dato reale. Il paesaggio è come un corpo; ed infatti è ripreso in verticale, con la stessa frontalità di un ritratto. Nella sua poetica per immagini, la terra è la carne stessa dell’uomo. La terra, come il corpo, reca incisi su di sé i solchi, le ferite, i segni che il poeta fotografo riesce a far emergere sulla superficie della fotografia, operando con le possibilità espressive del mezzo. Le immagini dei suoi numerosi progetti hanno questo in comune: il senso di apparizione di qualcosa di latente destinato a scomparire. Evocazioni di nessi, metafore, corrispondenze.


Questo perché lo sguardo visionario di Giacomelli è, come scrive Corrado Benigni, puramente analogico, in grado di percepire somiglianze che nessun altro avrebbe saputo trovare, come i volti e le figure di corpi umani “visti” nei tronchi di un albero. Il suo sguardo coglie i lapsus visivi che emergono imprevisti dalle pieghe della natura, perché non legge la realtà nel modo oggettivo della tradizione, ma concependo il visibile come spazio poetico simbolico. “Non vorrei ripetere le cose visibili, ma renderle visibili, interiorizzate, vorrei poter scivolare sotto la pelle delle cose, poter mostrare l’energia che passa tra l’anima mia e le cose che mi sono attorno», ha detto.
Roberta Valtorta scrive a proposito dell’analogia tra corpo e paesaggio nelle sue fotografie:
“Guardando i paesaggi di Giacomelli così fortemente carichi di segni, ho sempre pensato che egli per tutta la vita non ha fatto altro che ricercare nella fisica materia della terra, nel dramma dei cieli e infine delle acque, sempre, sua madre e con lei le sue origini, in un processo di sovrapposizione di natura veracemente artistica tra la carne che l’aveva generato e il mondo che gli stava intorno. Sento che il mio pensiero, e insieme le mie parole, sono eccessivi, forse retorici. Ma a questo induce Giacomelli (egli trascina nell’eccesso anche chi vorrebbe mantenere una misura), un artista estremo la cui opera punta a scavare e a rendere violentemente evidente il corpo stesso della poesia, senza freni e, diremo, senza pudore, seppure con una sorta di cocciuta umiltà: una poesia che procede a piedi nudi, esponendosi all’aria e alla luce, alla polvere, al contatto con la terra”. (R. Valtorta, Mario Giacomelli. Il paesaggio come corpo, pubblicato in Alessandra Mauro (a cura di), Mario Giacomelli. La figura nera aspetta il bianco, Contrasto, Roma 2009).

Mario Giacomelli, Io non ho mani che mi accarezzino il volto, 1953/63.

Corpo della poesia e poesia del corpo. Sembra che per Giacomelli sia sempre questione del trasfigurarsi della carne dei corpi. I vecchi dell’Ospizio richiamano le precedenti fotografie di contadini, così come le carni degli animali macellati di “Mattatoio”, o le strazianti figure di quel poema sul dolore umano che è Lourdes, o anche le figure di Scanno e quelle stilizzate dei pretini che danzano sul vuoto bianco di quel poema-balletto che è Io non ho mani che mi accarezzino il volto (altro verso di altro poeta, il cristiano David Maria Turoldo), in cui i corpi diventano segni, che fluttuano nello spazio senza più obbedire alle leggi della fisica, oltre i limiti della realtà, in un inno alla gioia di vivere e all’esuberanza della giovinezza. I pretini chiusi nel seminario, che fanno girotondo, sono l’altra faccia delle donne che attendono la fine nell’ospizio, eppure entrambi costretti a una condizione di isolamento.

Mario Giacomelli, Il bambino di Scanno, 1957.

Ma sempre, la visione del corpo rimanda all’analogia con il paesaggio, che è insieme geografia e anatomia. “Giacomelli infatti – aggiunge Valtorta - non si limita a riscrivere attraverso la luce e l’ombra, il bianco e il nero, le scritture della terra, ma nel contempo la disseziona. Parlando del paesaggio in Giacomelli, vogliamo dunque parlare di corpo. Se egli guarda al paesaggio, è per guardare a se stesso, alla inquietante fisicità dell’esistenza, all’abisso, alla carne di cui siamo fatti, allo stato di materia che ci attende.”

Nessun commento:

Posta un commento