venerdì 16 agosto 2019

Il selfie come atto performativo corporeo



E’ il 2002 quando la fotocamera viene stabilmente inserita nei telefoni cellulari. Qualche anno dopo, con l’arrivo del wifi e dei social network, si completa il percorso evolutivo che porta la fotografia ad essere un medium protagonista nella definizione del linguaggio della rete.
Contemporaneamente ha luogo un’altra evoluzione:  non più unicamente cassetto dei ricordi, supporto stabile della nostra memoria, la fotografia istantaneamente prodotta e condivisa diventa strumento non solo per conservare degli istanti di vita, ma per esperirli, attraverso la loro trasformazione in immagini. Da materializzazione di memorie e ricordi che si desidera conservare nel tempo, la fotografia diventa esperienza quotidiana immediata, che mette insieme automatismo e rappresentazione iconica.

Il singolo individuo si trasforma in una figura ibrida, attiva e passiva insieme, in un prosumer, che è nello stesso tempo fruitore (consumer), ma anche creatore e diffusore di contenuti (producer). Tali contenuti, fin da subito, riguardano anche, e in maniera consistente, l’immagine di sé, attraverso la produzione e la condivisione del proprio autoritratto, che diventa lo strumento per mezzo del quale immaginare, costruire e comunicare una propria identità pubblica.
Dal mirror selfie, cioè dall’autoritratto eseguito davanti a uno specchio, l’inserimento nei nuovi smartphone di una fotocamera anteriore permette di passare al selfie vero e proprio, che ha delle caratteristiche sue specifiche.

1 -  Il selfie è un'immagine gestuale. Questa forma di autorappresentazione è da intendersi innanzitutto come gesto corporeo peculiare: il braccio che si allontana dal busto, la mano che impugna l’apparecchio e inquadra, le dita che premono i tasti, reali o virtuali, per scattare la foto, prima, e per condividerla, poi. Il momento iniziale di questo gesto è l’estensione: l’arto che si protende e la mano che impugna l’apparecchio si distanziano dal corpo in modo da guadagnare una «giusta» distanza per poterlo riprendere.
E’ possibile rintracciare alcuni elementi iconografici di questa postura del corpo, associata all’autorappresentazione, in alcuni famosi autoritratti della storia dell’arte, come quello del Parmigianino (Autoritratto entro uno specchio convesso, 1523 ca.) o di Escher (Mano con sfera riflettente, 1935), in cui troviamo la distorsione dello spazio, la deformazione della figura, l’estensione del braccio e la sua inclusione nell’immagine, la divaricazione della mano.

Parmigianino, Autoritratto entro uno specchio convesso, 1523 circa, Vienna, Kunsthistorisches Museum


Maurits Cornelis Escher, Mano con sfera riflettente, 1935

2 - Il selfie è un gesto autoriflessivo e autodiretto, cioè indirizzato dal soggetto verso se stesso: questo elemento lo differenzia da altri tipi di autoritratto, come ad esempio il mirror selfie, in cui manca il gesto autodiretto. In quest’ultimo caso, infatti, permane la distinzione tra soggetto (colui che scatta) e oggetto (il suo riflesso nello specchio, che è separato dal primo). Questo dispositivo, inoltre, formato da macchina fotografica più superficie riflettente, comporta che la prima necessariamente entri in campo, in quanto anch’essa viene riflessa insieme al soggetto che sta eseguendo il proprio autoritratto.
Nel selfie, invece, soggetto e oggetto coincidono perfettamente. In questo caso è come se lo specchio fosse incluso nella stessa fotocamera, e ciò determina l’esclusione dell’apparecchio dall’immagine finale.
Un'altra differenza rispetto all'autoritratto allo specchio è che il selfie inserisce il corpo in uno spazio fisico e informativo del tutto nuovo. Nell'autoritratto specchiato, infatti, il soggetto è di norma parallelo alla superficie riflettente mentre l’asse di ripresa della macchina è perpendicolare ad essa; nel selfie, invece, la macchina guadagna una maggiore mobilità nello spazio e maggiori possibilità di angolazione e tagli obliqui. Questa che A. D’Aloia definisce «posa disfunzionale» determina spesso una ripresa imprecisa e la deformazione del corpo inquadrato o di alcune sue parti (A. D’Aloia, L’arto fotografico. Estensione e incorporazione nella tecnica e nell’estetica del selfie).
Dal punto di vista della composizione dell'immagine, l'impatto dell'introduzione della fotocamera anteriore negli smartphone è stato maggiore di quello dato dal passaggio dall'analogico al digitale. La disposizione degli elementi nello spazio di un'immagine e il loro orientamento rispetto alla posizione dello spettatore, infatti, con il passaggio alla fotografia digitale, erano rimasti invariati. Le fotocamere moderne, invece, hanno cambiato tutto e hanno reso ogni singolo individuo capace di creare una composizione e allo stesso tempo di comparire in essa.

Vivian Maier, Autoritratto.

3 – Il selfie è una performance identitaria. Il selfie è una delle forme di autorappresentazione a cui il soggetto affida la costruzione, messa in scena e racconto del proprio Sé, differenziandone lo storytelling a seconda del pubblico, cioè del gruppo di riferimento. I social network assottigliano la distanza tra spazio pubblico e spazio privato, per cui l’individuo è portato a vivere in queste due dimensioni costantemente connesse tra loro e ad adattare ad esse le sue performance di autopresentazione. Queste si svolgono contemporaneamente in due contesti differenti: il luogo fisico dell’evento e quello virtuale in cui esso è condiviso, visto e commentato.
Questo tipo di racconto identitario online è momentaneo, frammentario e fuggevole, in quanto si muove in un non-luogo virtuale e anche in un non-tempo, un herealways, per dirla con un recente neologismo, cioè nella strana temporalità sempre presente della rete. Ciò a cui dà luogo è un'identità multipla e decentrata, caratterizzata da un'ineluttabile instabilità, incarnando la necessità di immediatezza e liquidità tipiche dell'epoca contemporanea.

Fotogramma dal film "Thelma e Louise". Forse il primo selfie della storia del cinema

4 - Oltre che racconto del Sè, il selfie è anche un gesto fatico, cioè finalizzato a stabilire e mantenere un contatto con l'Altro. Questo tipo di fotografia non è solo la traccia dell'autore, ma anche la traccia del gesto da lui eseguito, un gesto che si presenta come atto comunicativo. Non dice semplicemente "guarda me, qui e ora", ma "guarda me, qui e ora, mentre mi mostro a te". Il selfie mira a trasmettere un istante della propria vita e l'emozione di quel momento, a innescare una relazione. E' uno dei gesti che incarna la naturale tendenza umana a comunicare con l'Altro e lo fa mutuando altre forme di interazione, come ad esempio il linguaggio del corpo, che ha contribuito a modificare.
Il selfie, essendo creato per essere immediatamente condiviso, vive nella dimensione dell'istantaneità e, pertanto, si presenta più come un atto di comunicazione che di autoriflessione narcisistica, come una pratica sociale in cui la fotografia ha mutato la tradizionale funzione di commemorazione del passato e di conservazione della memoria proiettata verso il futuro per divenire presente in movimento, strumento attraverso cui vivere, e non solo ricordare, i momenti della propria vita.

5 - Il selfie mostra il suo farsi. Anch’esso, come l’autoritratto allo specchio,  non è tanto il ritratto di sé stessi, quanto anzitutto il ritratto di sé stessi nell’atto di fotografarsi. Si tratta di forme di autorappresentazione che includono il gesto stesso di rappresentazione, ma il selfie lo fa in modo diverso.
Nel selfie il braccio esteso, che regge la fotocamera, non necessariamente resta fuori dal quadro, anzi la sua presenza visibile nella composizione, dalla spalla all’avambraccio, è uno dei tratti caratteristici di questo tipo di autoritratto. Questa posa mostra il farsi dell’atto fotografico che ha originato l’immagine”. Questo è vero soprattutto quando il braccio viene interamente disteso, il che determina spesso delle deformazioni, come l'accrescimento abnorme dell’arto, a causa dell'obiettivo grandangolare della fotocamera.
Il selfie non è solo una fotografia, bensì sempre la foto di un gesto fotografico, che coinvolge in modo diretto e complesso la corporeità del soggetto.
Un elemento da sottolineare è come, nel selfie, a differenza delle altre forme di autoritratto, sia connaturata un’amputazione necessaria, quella della mano che compie lo scatto, il prezzo inevitabile da pagare a questa riappropriazione diretta della propria immagine, che prescinde da ulteriori mediazioni come quella fornita dallo specchio.


6 – Il selfie è un gesto autoriflessivo, ma è anche di estroflessione. E’ questa la peculiarità di tale atto fotografico: il selfie comporta una proiezione fuori dal corpo; la macchina viene allontanata dal soggetto e le viene assegnato un punto di vista che non è quello di colui che scatta (anzi, è opposto), e tuttavia il soggetto continua a detenere il controllo sull’inquadratura e sui tempi di scatto. Il corpo assimila il dispositivo ed è come se il senso della vista si estendesse fino alla mano, potenziando le capacità di visione dell'Operator. Nella mano prensile, che impugna lo smartphone, si installa, per così dire, un terzo occhio, che permette alla vista umana di oltrepassare l'estensione angolare che le è propria e di guadagnare una visuale più ampia, a 360°.
Il complesso braccio-mano-apparecchio, che si estende nello spazio, di fatto si allontana dal proprio Sé e si colloca in uno spazio che normalmente assegniamo a un “altro”, ma non realizza tale alterità, perché quel complesso non si stacca dal corpo, ma funziona più che altro come protesi, concretizzando la funzione che Marshall McLuhan assegnava ai media in quanto estensioni tecnologiche dei sensi o persino del sistema nervoso: i mezzi di comunicazione elettronici sono strumenti usati per allargare il raggio d’azione e gli scopi del corpo umano, cioè per estendere il proprio Sé.
Il gesto estensivo del selfie è proprio un atto di prolungamento nello spazio circostante, spesso potenziato da protesi meccaniche come i bracci telescopici (i cosiddetti selfie stick o extender), anch’essi quasi sempre visibili nella fotografia, che aiutano i selfier a distanziarsi ulteriormente da se stessi per catturare un’immagine più larga, che includa più persone o una porzione più ampia di paesaggio.
Sembra, dunque, che il selfie comporti un dislocamento o addirittura una certa alienazione, intesa come fuga dal corpo. Ma D’Aloia recupera la teoria della “mente incarnata” (embodied cognition) secondo cui la mente è incarnata nel corpo e se il corpo si estende, anche la mente si estende insieme con lui. Non si verifica, pertanto, nessun processo di alienazione e di fuga dal corpo. Accade solo che, tramite le estensioni protesiche, i nostri sensi non sono più limitati al corpo fisico, ma possono allungarsi nello spazio, ampliando i confini del nostro corpo e del nostro Sé; e tuttavia ciò non comporta la perdita della localizzazione fisica, cioè non causa disincorporazione.
Nel selfie, nonostante il gesto di distanziamento, l’apparecchio non si distacca dal corpo, anzi è in qualche modo assimilato in esso. Si verifica, per usare le parole di Barthes, un processo di "innervazione", che rende l'individuo tutt'uno con il dispositivo che utilizza. Lo smartphone diventa una parte del corpo, una «tecnologia incorporata».
Il selfie, in conclusione, è un gesto concentrico, in cui agiscono contemporaneamente una tensione centrifuga e una centripeta: è la fotografia in soggettiva di se stessi, dove però la soggettiva si costruisce su un’estroflessione dello sguardo. Non si tratta, in questo senso, di una fuga dal corpo, ma di un modo per trattenerlo attraverso la rappresentazione consapevole del modo in cui il corpo appare dall’esterno. Se il corpo umano è un medium e gli altri media, fra cui la fotografia, sono sue estensioni non-biologiche, allora si può intendere il selfie come una materializzazione di identità, come un gesto “incarnato” in un supporto materiale e condiviso con l’Altro. In tale senso la networked camera incapsulata nel nostro smartphone agisce non solo come protesi del braccio, ma anche come dispositivo protesico della costruzione e narrazione del proprio Sé.



7 – Il selfie è un gesto inclusivo. Il selfie, infatti, include in maniera peculiare il soggetto all'interno del contesto in cui è collocato, dove molto spesso sono presenti altre persone, la cui vicinanza e compagnia si intende appunto mostrare, presentando il proprio sé come appartenente a un gruppo o partecipante a un evento. "Il selfie ha a che fare più con lo stare che con l'essere", scrive J. Fontcuberta in La furia delle immagini. "Non vogliamo tanto mostrare il mondo quanto segnalare il nostro stare nel mondo".
Essendo istantaneamente condiviso, il selfie non è solo una modalità di autorappresentazione e di comunicazione, ma anche una performance, che prevede una certa disposizione corporea nonché una fruizione del tutto peculiare da parte dell’osservatore. Se nell’autoritratto classico lo spettatore viene collocato nella stessa posizione di colui che scatta la foto, al contrario nel selfie, in cui le braccia, ma non le mani, sono visibili, si realizza un vero e proprio abbraccio dell’osservatore. Proprio la presenza amputata degli arti superiori dà al fruitore l’impressione di trovarsi in mezzo tra il dispositivo di ripresa e il soggetto e di essere preso, quasi intrappolato, nello spazio della rappresentazione.

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