sabato 31 agosto 2019

Francis Bacon. La carne messa a nudo

Francis Bacon, Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion, 1944, Londra, Tate Gallery

Difficile parlare dell’opera di Francis Bacon. Prima di poterlo fare, occorre innanzitutto lasciarsene toccare nel profondo; mettere il proprio corpo di fronte a quei corpi sfigurati eppure vitali e abbandonarlo alle sue reazioni irriflesse, dargli la libertà di vacillare e com-muoversi, di far risuonare i propri muscoli e nervi all’unisono con quelli che si straziano sulla tela, sentire la pelle assottigliarsi mentre sotto la carne preme, permettere che la bocca si disponga a un grido muto di fronte a quella, terribile e vuota, di quell’Innocenzo X che Bacon trae da Velázquez e che sarà la sua ossessione.
In un’intervista, l’artista parla dell’origine del suo amore per la pittura. Da giovane era stato molto colpito da un quadro di Poussin (La strage degli innocenti); a Parigi aveva coltivato un’ammirazione sconfinata per Picasso e aveva cominciato a maturare la decisione di diventare pittore. Ma ciò che lo spinse davvero a cominciare a dipingere fu una macelleria. “Mi è scattato qualcosa davanti al banco della macelleria dei magazzini Harrod’s”, afferma l’artista, e aggiunge "… noi siamo carne, siamo potenziali carcasse. Ogni volta che mi reco dal macellaio mi stupisco di non essere lì io al posto dell'animale".

Francis Bacon, Study after Velàzquez Portrait of Pope Innocent X, 1953, Es Moines Art Center, Des Moines (Iowa)

Il corpo e la carne, la forma e la materia sono i termini dell’indagine costante e spietata, che Bacon conduce sul soggetto pressoché esclusivo della sua opera: l’uomo. Artista dalla personalità molto complessa, maestro pioniere della cosiddetta Nuova Figurazione inglese, egli indaga la condizione esistenziale del suo tempo, accanendosi nella rappresentazione della figura e del volto, criticando apertamente l’astrattismo, che dominava la pittura del suo tempo e sforzandosi di rimanere nel territorio della grande tradizione realista, sebbene proiettata ai limiti estremi della figurazione. La pittura di Bacon sembra spingersi sempre sull’orlo dell’informale, ma non lo oltrepassa mai, perché mai rinuncia a costruire la figura.
Lo dimostrano i suoi Trittici, le sue Crocifissioni, i suoi ritratti e autoritratti, la serie degli Studi sul Ritratto di papa Innocenzo X di Velázquez, icona con cui Bacon si confronterà a lungo, deformando in senso espressivo l'immagine formalmente perfetta dell'artista spagnolo, reinterpretandola come manifestazione della convulsa dimensione esistenziale della modernità. Se nel quadro di Velasquez il ritratto comunica l’autorità, il carisma, l’infallibilità e tutta la consapevolezza del proprio ruolo da parte dell’uomo potente, Bacon tenta per contro di trarre drammaticamente da questa figura tutta la tragedia dell’uomo imprigionato nel suo potere e il dramma lacerante dell’individuo del XX secolo (per una analisi puntuale della pittura di Bacon e di questo quadro in particolare, si rinvia a questa conferenza di V. Terraroli:).


Tali opere fanno di Bacon il maestro indiscusso di una nuova figurazione, che va ben oltre la scomposizione spaziale dei cubisti per configurarsi, piuttosto, come radicale mutazione.
«Non c'è tensione in un quadro», scrive nel 1955, «se non c'è lotta con l'oggetto». E da questa lotta l'oggetto, l'immagine dell'uomo, esce distorto e sfigurato. Significativo come, nella sua opera, Bacon si serva ampiamente della fotografia, responsabile, secondo l’artista, di una vera e propria aggressione (assault) nei confronti dell’oggetto, tanto che quando guardiamo non vediamo le cose come sono, ma attraverso l’aggressione che hanno già subito dalla fotografia e dal cinema e che Bacon amplifica, piegando, strappando, scarabocchiando le immagini, quasi a voler rimodellare la loro violenza primaria per aggiungervi il proprio assalto. Il suo uso della fotografia, pertanto, non si appella alla capacità descrittiva dell’istantanea, piuttosto alla sua azione deformante.

Three Studies of a Crucifixion, 1962, New York, Solomon R. Guggenheim Museum.


Dal corpo alla figura

Già a partire da Triptych – Three studies for figures at the base of a Crucifixion (1944), in cui delle figure dall’aspetto scopertamente fallico e bestiale, culminanti in bocche feroci, si stagliano su un fondo di un arancione intenso, Bacon annulla la rappresentazione unitaria e totalizzante del corpo organico, spostandosi verso l'inorganico e l'inumano. Tradizionalmente rappresentato come un sistema ordinato di organi e funzioni, quello di Bacon diventa un “corpo senza organi” (Deleuze), sottoposto a forze invisibili, interne ed esterne, centrifughe e centripete, che ne minano l’integrità, disintegrando i confini che tengono insieme il tutto e che lo separano dal resto. Quelle forze che in alcune sue opere ha personificato nelle Erinni delle tragedie di Eschilo. È il corpo che sfugge al canone, che riporta l’arte a una primitiva indeterminatezza, a una condizione di libertà e di potere senza limiti.
“Quando un volto umano smette di essere un volto umano? – si chiede G. Mannucci - Fino a quando siamo legittimati a considerare un ammasso di carne in deliquio un io? Francis Bacon si muove sul concetto di limite. Osservare un’opera di Francis Bacon vuol dire chiedersi quali siano i limiti dell’io, trovarsi su un filo teso su una voragine di rimossi che tornano in tutta la loro brutalità. I corpi fiaccano i livelli, trascendono le azioni, il Caino baconiano è l’inizio e la fine, esorbita di là dalla carne, dalle ossa, si espande oltre la pelle: è sussulto, atto, è tempo, luogo. Realtà. Lo strano, scuro animale chiamato Uomo arriva gonfiandosi da oscure profondità dell’anima, da un ignoto, da un fondo di sé fino all’eccedere dal petto, dalla carne, mutilandola” (G. Mannucci, Francis Bacon: la brutalità del reale. La Figura e l’Altro).



Le sue figure sono spesso ammassi biomorfi senza più neanche la reminiscenza delle simmetrie del corpo e dei rapporti armonici tra le sue parti; le teste appaiono contorte e disossate, le figure decostruite e poi isolate, ingabbiate in spazi claustrofobici e senza vie di fuga, privati di ogni residuo di atmosfera domestica.
Bacon non indaga le cause delle deformazioni; ne illustra con fredda e spietata lucidità gli effetti, offrendo alla vista la mostruosità di corpi da cui sembra sia stata estratta l’umanità, presi da atroci e sfiguranti convulsioni. E la condizione di queste figure appare senza speranza, una prigionia di terrore, solitudine e sofferenza forse mai espressa con tanta lucida disperazione.
Solo attraverso la deformazione e la disgregazione si può, per Bacon, arrivare a cogliere l’«apparenza». Questa, infatti, è nell’incessante fluire. La difficoltà e la grandezza della pittura stanno allora nel riuscire ad afferrare l’apparenza in ciò che perennemente cambia. È questo il realismo di Bacon: non alludere alla realtà, attraverso la mimesi della rappresentazione, ma coglierne il flusso ininterrotto, il transitare incessante, tragico e violento, tra il desiderio e lo spasmo, l’eccitazione e l’angoscia, la vita e la morte. Ma per farlo non ha a disposizione il tempo, che permetterebbe una narrazione. Allora utilizza lo spazio, uno spazio minimo e dalla falsa prospettiva, in cui i corpi sono isolati, imprigionati in gabbie o in arene o in impalcature geometriche in cui vengono scarnificati, dilaniati, deformati, sezionati.

Triptych August 1972.

Bacon cerca di cogliere il perpetuo mutare dell’essere, il suo eterno divenire, ma questo non è un “tendere verso”, una successione lineare, bensì un dilagare, un irrompere al di fuori, come la carne che, in alcune opere, letteralmente si scioglie, colando fuori dall’involucro deformato a cui è ridotto il corpo. Così come esplode l’urlo dalle bocche spalancate, frontiera aperta tra l’interno e l’esterno. In queste opere il corpo non è più la dimora esclusiva dell’io, ma diventa un luogo condiviso, che si offre in sacrificio a tutti, proprio come quello del Cristo sulla croce.


L’emergere della carne e il limite della figurazione

L’opera di Francis Bacon, che qualcuno ha definito “macelleria pittorica”, è quella di un artista che sente il disfacimento di un mondo uscito sconvolto dalle guerre e dai genocidi e porta alla luce il vero volto dell’uomo del Novecento: un essere dissacrato e spogliato di qualunque schermo, il cui corpo non è altro che un luogo di strazio e sconfinamento, in cui non si dà più alcun rapporto gerarchico tra un sopra e un sotto, tra esterno ed interno, tra uomo e animale, tra il sacro e il profano, tra l’io e l’altro negli amplessi brutali. Perché, innanzi all’emergere della carne, ogni distinzione perde di rilevanza.



Questo è particolarmente evidente in Figura con carne (1954), in cui Innocenzo X è seduto con alle spalle due enormi carcasse di carne, simili ai buoi macellati di Rembrandt e di Soutine e che richiamano una crocifissione. L’aura metafisica del ritratto di Velázquez viene completamente annullata e giunge a compimento la dissacrazione della figura umana, ridotta a effimera corporeità, spogliata di ogni fondamento metafisico e morale, come di ogni costruzione e sovrastruttura antropologica e psicologica, facendo emergere l’uomo, in tutta la sua fragilità e solitudine.
Se il corpo è la forma, che tende a conservare una sua integrità, la carne è invece la materia recalcitrante, che tende a fluire via, a decomporsi, a liquefarsi. La carne è la condizione tendenzialmente informe ed estranea rispetto al corpo. Così i corpi di Bacon vivono in un equilibrio alquanto instabile, che è anche lotta, tra il caos della carne e la tensione alla figura, estremo legame con la forma a cui il pittore non intende rinunciare. Per cui ecco che dietro i volti bestiali, le smorfie diaboliche e l’amalgama di carne, intravediamo dei tratti umani. Il corpo, e più spesso solo il volto, sono il luogo di una tensione tra deformazione e riconoscibilità, tra l’apertamente zoomorfo e il distintamente umano, che non annulla l’identità ma la riduce a una costante trasformazione dell’apparenza. L’opera di Bacon si affaccia sul limite della rappresentazione: i corpi conservano la loro presenza e la loro corporeità, ma recano contemporaneamente in sé la minaccia permanente di una dissoluzione totale.

Francis Bacon, In Memory of George Dyer, 1971

Francis Bacon, In Memory of George Dyer, 1971, particolare.

Negli spazi che sono cornici di vuoto, fuori dal tempo, i corpi isolati come in teche di vetro si espongono allo sguardo dello spettatore, che si aspetta da essi un racconto, uno scopo e invece trova solo l’esserci della carne, l’uomo svuotato della sua umanità, la violenza insopportabile dell’assenza di senso. E tuttavia, questi corpi, per quanto informi e convulsi, non sono meri oggetti esposti, ma sono in tutto e per tutto un “accadere”; sono presenze incarnate, immerse nel flusso vitale, vibranti nel loro apparire e lacerarsi. Se la rappresentazione mimetica del corpo umano finisce per reificarlo, riducendolo a mero elemento visibile e a simulacro, le deformazioni di Bacon lo lasciano vivo e pulsante nello spasmo della lacerazione o nell’atto del grido disumano, facendone una rivelazione viva e permanente della condizione umana.

Studies for a Head, 1952 ca.

Francis Bacon, Study for the human body, 1949

Francis Bacon - Tre studi di personaggi distesi in un letto (particolare) - 1972.

Crucifixion, 1965

Francis Bacon, Triptych, 1974-1977.

Bacon Francis, Three Studies of George Dyer, 1966.

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