Antonello da Messina, San Sebastiano, 1478, Dresden Gemäldegalerie. |
Abbiamo visto come, a partire dal Rinascimento, la ricezione di un quadro da parte di uno spettatore si fondi sul fatto che quest’ultimo, a priori, accetti l'effetto trompe l'oeil. L'osservatore è invitato, secondo l'espressione di Alberti, a considerare il quadro come una “finestra sul mondo” e a comportarsi, rispetto alla scena rappresentata, e perciò simulata, come di fronte a una scena reale. L’adozione del dispositivo prospettico costituisce, da questo punto di vista, lo strumento per ottenere la simulazione di una visione naturalistica delle cose.
Ma più o meno tutti i grandi artisti rinascimentali – da Antonello da Messina a Mantegna, da Leonardo da Vinci a Raffaello, da Michelangelo a Dürer – hanno spesso tradito, consapevolmente o meno, le regole prospettiche di cui si sono fatti promotori, quando il rispetto pedissequo di quelle regole, in particolare del punto di vista unico, comprimeva le potenzialità espressive dell’opera. La prospettiva quattrocentesca non è perciò da intendersi come norma assoluta, ma strumento nelle mani dell’artista.
In opere come il San Sebastiano della Gemäldegalerie di Dresda, di Antonello da Messina, le proporzioni imposte dalla regola prospettica sembrano trascurate in favore di una rappresentazione monumentale e drammatica della figura principale, ma queste “dimenticanze” sembrano per lo più funzionali a un’esigenza espressiva, al fine di sollecitare il coinvolgimento emotivo dello spettatore. Tutta l’architettura del dipinto si organizza in base a rigorosi rapporti metrici e prospettici, ma è evidente come invece la figura del Santo sia ampiamente sovradimensionata, in proporzione al resto. Inoltre, lo stesso corpo manca di prospettiva: in una visione prospettica dal basso, una figura subisce delle riduzioni nelle parti alte, cioè più lontane dall’osservatore; in questo caso, invece, i rapporti non mutano e il santo si presenta maestoso, in tutta la sua altezza. Sembra che l’artista usi due diversi sistemi di rappresentazione, uno per il contesto, l’altro per il protagonista sacro. Quest’ultimo, statuario e solido, domina la scena, al fine di stabilire un più vivo contatto con il soggetto osservante e di potenziare l’effetto drammatico sollecitandone il coinvolgimento.
La stessa considerazione riguarda un’altra opera, precedente di poco il San Sebastiano di Dresda. Si tratta del Cristo in scorcio del Mantegna, conservato alla Pinacoteca di Brera. Il dipinto rientra, dal punto di vista tematico, nel tipo dell’“imago pietatis” (Cristo in pietà), ma è trattato in modo del tutto anticanonico rispetto all’iconografica tradizionale, attraverso il ricorso a un ardito scorcio prospettico del corpo di Cristo.
Andrea Mantegna, Cristo Morto, 1475-78, Pinacoteca di Brera, Milano. |
La composizione è ricca di incongruenze prospettiche, che impediscono di rintracciare un punto di vista unitario per tutta la composizione. Si nota, in effetti, che i piedi sono molto piccoli, sproporzionati nelle dimensioni rispetto alla testa, il torace è esageratamente grande e le braccia molto più lunghe della norma. Per rispondere ad una costruzione prospettica, il corpo avrebbe dovuto subire una progressiva riduzione (dovuta al graduale allontanamento dal primo piano), culminante in una testa più piccola di quella dipinta dall’artista, ma ciò avrebbe avuto alla fine un effetto grottesco.
La rappresentazione della lastra di pietra su cui è posato il cadavere del Cristo segue le regole geometriche della prospettiva, con le linee che convergono in un punto di fuga, mentre le linee del corpo restano pressoché parallele. L’invenzione del Mantegna si presenta come il frutto di un sottile compromesso tra le ragioni della scienza e quelle dell’espressione, tra le esigenze di una verosimiglianza naturalistica e prospettica e quelle del rispetto dell’armonia e delle proporzioni del corpo umano.
Questa soluzione compositiva, inoltre, avvicina il fedele alla divinità, sollecitando una modalità di fruizione del tutto peculiare, che fa dell’immagine uno strumento di meditazione e di conversazione privata con il Dio fattosi uomo. L’intero dipinto, innanzitutto, è impostato con una spazialità estremamente ridotta che blocca lo sguardo, inchiodandolo sulla figura del Cristo, senza possibilità di fuga. Il corpo esanime, con i piedi che sembrano sfondare il limite del dipinto per invadere lo spazio dell'osservatore, mantiene la stretta vicinanza con colui che guarda, permettendogli di identificarsi pienamente nel personaggio rappresentato. Il fine, accentuato dalla presenza nel bordo di sinistra dei personaggi dei tre dolenti (figure di mediazione che col loro comportamento indicano allo spettatore l'atteggiamento emotivo da assumere nei confronti della rappresentazione), è quello di stimolare un’atmosfera di pathos, in grado di generare in colui che guarda un certo stato di partecipazione emozionale e di approccio empatico.
Anche nel san Sebastiano di Antonello, il corpo imponente si presenta in primissimo piano e subordina a sé tutta la composizione, esibendo le frecce conficcate nella carne; queste emergono in evidenza e su di esse confluisce immediatamente l’attenzione dello spettatore. Anche qui, l’ostentazione del dolore mira a una particolare ricezione dell’opera, in cui sia richiesto un coinvolgimento emotivo dell’osservatore. Se la collocazione del punto di vista, che regola l’organizzazione dell’impianto prospettico dell’architettura del quadro, pone lo spettatore a distanza, la scelta di collocare il corpo del Santo in primo piano, in posizione statuaria e libera dai vincoli della prospettiva centrale, pone invece chi guarda l’opera in una posizione estremamente ravvicinata rispetto al martire; le sue grandi dimensioni danno, infatti, la sensazione di poterlo quasi toccare, relegando invece in lontananza tutta l’ambientazione architettonica.
Anche di fronte all’opera del Mantegna lo spettatore occupa la stessa posizione contraddittoria, di lontananza e nello stesso tempo di vicinanza, che mette in crisi lo sguardo dello spettatore. Questa condizione è stata ben descritta da Thürlemann:
“[…] i piedi sono, relativamente allo spazio simulato, i più vicini all’osservatore. La testa invece, che permette all’uomo una vera comunicazione, che fa di lui una persona, è la più lontana dall’osservatore. Questa struttura contraddittoria, estrema vicinanza del corpo-lontananza della persona, accompagnata da un forte appello all’individuo, determina una modalizzazione contraddittoria del soggetto osservante: un’esortazione alla comunicazione, un dover comunicare, cui si accompagna simultaneamente l’impossibilità di una reale presa di contatto, un non poter comunicare.” (F. Thürlemann, «Il compianto di Mantegna», in L. Corrain, Leggere l’opera d’arte)
Nel 2013, la direzione di Brera affidò al regista Ermanno Olmi il nuovo allestimento del "Christo in scurto" e della "Pietà" di Giovanni Bellini. Il dipinto di Mantegna venne situato nel fondo di una piccola sala a lui dedicata, privato della cornice e incassato su una parete nera, posizionato in basso, come richiede il punto di vista prospettico implicito nel dipinto, che è leggermente rialzato. Olmi mirava soprattutto al massimo coinvolgimento dello spettatore, ma l'allestimento, per quanto suggestivo, suscitò numerose polemiche. Nel 2016, il nuovo direttore della Pinacoteca, l’inglese James Bradburne, richiese una diversa collocazione, che è quella attuale.
In questo video, un servizio sull'allestimento del 2013:
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