GIUDITTA
Giuditta è un personaggio dell’Antico Testamento, le cui vicende sono narrate nel Libro di Giuditta. La storia, ambientata al tempo di Nabucodonosor, racconta che a quel tempo la città giudea di Betulia era sotto assedio da parte di Oloferne, generale assiro. Giuditta è una giovane e bella vedova ebrea, che non si arrende alla decisione di resa al nemico, presa dal governo della città e decide con coraggio di proseguire la battaglia ricorrendo alle armi femminili della seduzione. Indossa belle vesti e gioielli e si presenta ad Oloferne con la sua serva e con doni, fingendo di essere venuta a tradire i suoi.
Oloferne, dopo un banchetto, si apparta con lei nella sua tenda completamente ubriaco. Giuditta impugna con una mano la scimitarra del suo nemico, con l’altra gli afferra i capelli e con forza gli stacca la testa dal collo. Morto il suo generale, l’esercito assiro toglie l’assedio e Giuditta viene celebrata dal suo popolo come una salvatrice.
Non si contano le opere d’arte che, nel corso dei secoli, hanno rappresentato questo soggetto. Grande fortuna ebbe il tema nel Rinascimento italiano; si ricordino a questo proposito le interpretazioni di Mantegna, Botticelli, Giorgione, Tiziano e Michelangelo Buonarroti.
(a sinistra) Andrea Mantegna, Giuditta e l’ancella con la testa di Oloferne, 1495
(a destra) Sandro Botticelli, Il ritorno di Giuditta a Betulia, 1472 circa, Firenze, Uffizi.
In ambito nordico, ricordiamo le innumerevoli interpretazioni del soggetto date dal pittore tedesco Lucas Cranach il Vecchio.
Lucas Cranach il Vecchio, Giuditta con la testa di Oloferne, 1530 circa - Public Domain via Wikimedia Commons.
In tutte queste versioni dell’episodio biblico, viene mostrata una Giuditta trionfatrice, che impugna ancora la spada e mostra o trasporta la testa del suo nemico. La scena è dunque posteriore all’evento cruento della decapitazione. Lo sguardo non è puntato sull’evento drammatico, ma sulla coraggiosa eroina che l’ha portato a compimento.
Una maggiore dinamicità della rappresentazione è presente nelle varie versioni del soggetto eseguite dalla pittrice del tardo manierismo cinquecentesco, Lavinia Fontana. In particolare in questa:
Lavinia Fontana, Giuditta con la testa di Oloferne, seconda metà del XVI secolo, Parma, Pinacoteca Stuard - Public Domain via Wikimedia Commons.
Di diverso tenore sono le interpretazioni seicentesche, in cui viene messo in scena, con grande tensione drammatica, l’episodio stesso della decapitazione di Oloferne da parte di Giuditta con l’aiuto dell’ancella. La più celebre è senz’altro quella di Michelangelo Merisi da Caravaggio del 1620, conservata nella Galleria degli Uffizi di Firenze. Illuminazione, espressioni dei visi, postura dei corpi, dinamicità dell’azione: tutti gli elementi dell’opera concorrono a farne una vera e propria scena teatrale.
Michelangelo Merisi da Caravaggio - Giuditta e Oloferne , Galleria nazionale di arte antica, Roma - Public Domain via Wikimedia Commons.
Altrettanto celebri sono le versioni del soggetto realizzate da Artemisia Gentileschi, forse perché in esse si è voluto leggere anche un richiamo alle vicende personali e artistiche dell’autrice, oltre al fatto che nessun’altra opera raffigurante Giuditta, a parte quella del Caravaggio, ha la stessa dinamicità e drammaticità di quelle della Gentileschi.
Lo stesso padre dell’artista, Orazio Gentileschi, aveva dipinto due versioni del medesimo episodio secondo l’iconografia tradizionale della Giuditta e dell’ancella vincitrici e recanti in un cesto la testa del generale. Artemisia tratterà il tema in quattro tele, tre delle quali sono sicuramente accostabili all’impostazione del Caravaggio. Quella che vediamo qui è la “Giuditta che decapita Oloferne” del 1620 circa, conservata nella Galleria degli Uffizi a Firenze.
Artemisia Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne, 1620 ca, Galleria degli Uffizi, Firenze - Public Domain via Wikimedia Commons.
Con lo stesso titolo Artemisia Gentileschi aveva dipinto nel 1612-13 (a soli 19 anni!) un altro quadro molto simile (cambiano i colori e le dimensioni), conservato nel Museo di Capodimonte a Napoli.
Artemisia Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne, 1612-13, Museo nazionale di Capodimonte, Napoli - Public Domain via Wikimedia Commons.
Entrambi i dipinti colpiscono per l’elevata dose di violenza che li contraddistingue, per l’immediatezza dei soggetti raffigurati, per il gusto teatrale tipicamente barocco e per la sapienza con la quale vengono impiegati i colori. La freddezza e l’impassibilità di Giuditta, il suo sforzo nel tenere ferma la testa di Oloferne, la tensione del corpo del generale che a sua volta tenta di respingere la serva che aiuta la protagonista nella sua azione: il tema era già stato affrontato, con la stessa violenza, da Caravaggio, ma la tela di Artemisia Gentileschi sembra vibrare di una maggiore teatralità. Mai prima d’ora la scena era stata raffigurata in maniera così brutale.Per capire le ragioni di una così grande carica di violenza, alcuni storici dell’arte ritengono necessario richiamare la drammatica vicenda biografica di Artemisia Gentileschi. Figlia del pittore Orazio, la giovane, nel 1611 (all’età di diciotto anni) venne abusata dal pittore Agostino Tassi, all’epoca collaboratore del padre di Artemisia. Orazio sporse denuncia nei confronti del collega e riuscì a far sì che Tassi venisse condannato, in quanto si scoprì che era già unito in matrimonio con un’altra donna e non poteva quindi sposare Artemisia. La donna comunque ebbe la forza di accusare l'uomo (fatto che all’epoca esponeva la vittima a grandi umiliazioni), al punto da sottoporsi allo schiacciamento dei pollici per confermare l’attendibilità delle sue accuse.
La grande ferocia di Giuditta nel tagliare la testa del generale nemico potrebbe essere ricondotta al desiderio di vendetta della donna nei confronti dello stupratore; non bisogna dimenticare che la prima versione del dipinto, quella conservata a Napoli, è databile al 1612-13, quando il processo contro Agostino Tassi si era concluso da pochi mesi. Con tutta evidenza, secondo la figlia di Orazio Gentileschi non era sufficiente la condanna inflitta dal tribunale ecclesiastico ad Agostino Tassi, peraltro molto blanda: la giovane voleva far sì che la sua vicenda rimanesse impressa sulla tela nei secoli a venire. Il grido di disperazione di una giovane violata, un tentativo di consegnare alla storia dell’arte l’offesa subita e il proprio riscatto.
Questa ipotesi sarebbe avvalorata dal fatto che le fattezze e la formosità di Giuditta sono molto simili a quelle di Artemisia Gentileschi (somiglianza tra l’altro ricorrente in molte opere di questa artista), mentre la folta chioma scura di Oloferne richiamerebbe la capigliatura di Agostino Tassi.
Il grande pregio della tela degli Uffizi non è da ricercarsi soltanto nella sua capacità di rievocare la violenza subita dalla pittrice: si tratta infatti di uno dei capolavori più riusciti di Artemisia Gentileschi, dal quale si evince tutto il grande talento della pittrice.
L’artista potrebbe essersi ispirata al prototipo caravaggesco di Palazzo Barberini nella scelta di rappresentare il momento più difficile e violento e per quanto concerne alcuni particolari compositivi, come la posizione delle braccia di Giuditta e della testa di Oloferne.
Per quanto riguarda lo stile dell’opera, Artemisia cerca di avvicinarsi al naturalismo di Caravaggio, riproponendo le atmosfere cupe e drammatiche, sia attraverso un gioco di luci e ombre sia cercando di tradurre le reazioni psicologiche dei personaggi nella loro violenza.
La composizione presenta uno schema a raggiera, centrato sulla testa di Oloferne, da cui si dipartono come raggi gli schizzi di sangue e le direttrici sono individuate nelle braccia delle donne. La fonte di luce proveniente da sinistra, che illumina i corpi dei personaggi, conferisce al dipinto un forte coinvolgimento drammatico, accresciuto anche dall’inquadratura serrata.
L’azione è concitata e feroce allo stesso tempo: Artemisia fa soprattutto in modo di restituire una rappresentazione il più possibile attinente alla realtà e che l’attenzione dell’osservatore non si concentri solo su un singolo particolare, ma sia portata a soffermarsi su tutti i dettagli della scena, il cui centro è da trovare nella mano di Giuditta che recide il capo di Oloferne. La pittrice non fa niente per attenuare il particolare più cruento della composizione, anzi: cerca di aumentare la tensione dipingendo sul volto di Oloferne una smorfia di dolore e disperazione e macchiando il lenzuolo su cui posa il condottiero con rivoli di sangue che sgorgano dalla ferita. Giuditta, trasposizione sulla tela della pittrice stessa, non pare in alcun modo turbata, ma rimane ferma nella sua impassibilità, scostandosi leggermente e tenendo le braccia tese forse per impedire che il sangue che zampilla dalla testa di Oloferne le macchi il vestito.
I giochi di luci e ombre, che mettono in rilievo le figure dei tre protagonisti della scena, facendo risaltare i particolari e soprattutto le espressioni del volto, derivano dalla lezione di Caravaggio, che Artemisia conosceva bene in quanto amico del padre, e da quella di Orazio stesso, caravaggista lui medesimo. Le tonalità cupe sono tipiche del barocco e contribuiscono a conferire teatralità alla scena. Di questo dipinto colpiscono anche i colori, luminosi e vibranti, in special modo quelli della veste di Giuditta, che esaltano tutta la femminilità della giovane, ma soprattutto fanno da contrappunto al drappo rosso che copre il corpo di Oloferne.
La cura e l’attenzione per i colori, per le vesti e per le forme delle protagoniste danno la misura del grande talento di questa pittrice, una donna violata che vuole riconquistare il suo onore attraverso la pittura: e a distanza di quasi quattrocento anni si può dire senza dubbio che Artemisia è riuscita nella sua personale riconquista, raggiungendo la gloria artistica e ottenendo un posto di privilegio nella storia dell’arte.
Negli anni settanta del secolo scorso Artemisia diventò un simbolo del femminismo internazionale, con numerose associazioni e circoli ad essa intitolate. Contribuirono all’affermazione di tale immagine la sua figura di donna impegnata a perseguire la propria indipendenza e la propria affermazione artistica contro le molteplici difficoltà e i pregiudizi incontrati nel corso della sua vita.
ANTIGONE
Il nome Antigone significa “nata contro”; contiene in sé la particella “anti” che esprime opposizione. Il mito di Antigone è indagato da tremila anni da vari autori e in vari campi dell’arte (e non solo): poeti, drammaturghi, pittori e registi. La tragedia di Sofocle, del V secolo a.C., racconta dello scontro tra Antigone, figlia di Edipo – che vuole seppellire i resti mortali del fratello Polinice, morto mentre assediava la città di Tebe per usurpare il potere al fratello Eteocle – e Creonte, lo zio, divenuto tiranno di Tebe, che invece vuole lasciare il nipote insepolto, in pasto a cani e avvoltoi, perché nemico della città. La pena per chiunque proverà a seppellirne il corpo è la morte. Apprendendo questa notizia, un’infuriata Antigone si ostina a pretendere che il corpo del fratello venga sepolto affinché il suo spirito possa riposare in pace.
Antigone, contravvenendo al divieto, si reca dunque nel campo di battaglia davanti a Tebe, copre di sabbia il corpo di Polinice ed effettua i riti di sepoltura. Si lascia quindi docilmente arrestare da una guardia uscita da Tebe ed insospettita dal sollevarsi della polvere. Una fiera Antigone è portata davanti a Creonte. Al cospetto del rappresentate dello Stato Antigone afferma le ragioni della propria condotta. Non alle leggi scritte lei ha inteso obbedire, ma alle leggi degli dèi, alle norme interne, non scritte e indistruttibili, dettate dalla natura e dalla propria coscienza. Incredulo che una donna abbia osato disobbedire ai suoi ordini, Creonte decide l’imprigionamento di Antigone e ne decreta l’esecuzione. La fa rinchiudere pertanto in una caverna ad attendervi la morte. Nel frattempo l’indovino cieco Tiresia avverte Creonte che gli dèi sono molto adirati per aver egli rifiutato la sepoltura a Polinice e gli preannuncia imminenti sciagure. Il re di Tebe va dunque a liberare Antigone dalla caverna in cui è imprigionata, ma è troppo tardi per evitare la tragedia: Antigone si è appesa ad una corda. Questo porta al suicidio il figlio di Creonte, Emone (promesso sposo di Antigone), e poi la moglie di Creonte, Euridice, lasciando Creonte solo a maledire la propria stoltezza.
Il nucleo del dramma sofocleo risiede nello scontro fra due volontà e due concezioni del mondo: quella di Antigone, fanciulla fragile fisicamente ma fortissima moralmente, di rispettare le leggi non scritte della natura (physis) e quella di Creonte tesa a imporre la forza dello Stato e della legge (nomos).
Ciascuno dà ai suoi principi (diritto del ghenos per Antigone, che esige di compiere il rituale funebre per garantire la coesione della famiglia nelle sue relazioni con gli dei, contro il diritto della polis per Creonte, che esige che le decisioni dell’autorità politica siano rispettate per garantire la coesione civica) un valore assoluto ben oltre il dato contingente della vicenda che li vede contrapposti . Come sempre le tragedie deflagrano non quando la ragione sta da una parte o dall’altra – il che risolverebbe il conflitto – ma quando tutti hanno ragione, la propria ragione, soggettivamente ed oggettivamente, e, come in questo caso, il diritto non riesce a cogliere due ordini morali entrambi legittimi. È in questo conflitto insanabile il senso del tragico.
Creonte trova intollerabile l’opposizione di Antigone non solo perché si contravviene a un suo ordine, ma anche perché a farlo è una donna. Nel suo ribellarsi però la donna risulta essere una figura meno dirompente di altre eroine come Clitennestra o Medea, poiché la sua azione non è rivolta a scardinare le leggi su cui si fonda la polis, ma solo a tutelare i suoi affetti familiari e la legge naturale che sente dentro di sé.
L’Antigone è la tragedia della “opposizione”. Essa contiene in un concatenamento fatale i cinque conflitti inconciliabili che caratterizzano la vita degli umani in ogni tempo: uomo-donna, vecchi-giovani, individuo-società, leggi divine-leggi umane, vivi-morti.
Questo mito ritorna con intensità quasi ossessiva nel teatro e nel pensiero del Novecento, perché se ne riconosce l’estrema attualità: Antigone, con la sua autorità morale e la sua debolezza si fa carico – e diventa simbolo – di una serie di contraddizioni, che continuano a lacerare l’essere umano e la storia. In particolare oggi come non mai è vivo il dilemma: come agire, quando la legge della comunità particolare in cui si vive è in contrasto con un ordine di giustizia universale?
Presentando lo scontro tra privato cittadino e Stato dispotico, tra coscienza individuale e leggi imposte da un’autorità, l’Antigone è stata spesso vista, in tempi moderni, come una metafora dei diritti del singolo contro gli Stati totalitari (anche se in questo caso viene meno lo spirito tragico classico, fondato sul conflitto insanabile tra due istanze entrambe legittime). Emblematiche, a questo proposito, la riscrittura di Anouilh, le rappresentazioni di Bertolt Brecht, Salvador Espriu o quella più recente del Living Theatre. L’altro elemento su cui hanno fatto leva le interpretazioni moderne è quello femminile, in quanto Antigone, come altre donne del mito, costituisce un fertile archetipo che consente una comprensione più profonda dell’immagine della donna e delle sue potenzialità (Maria Zambrano, Marguerite Yourcenar, Luce Irigary).
Nell’arte figurativa, prescindendo dalle interpretazioni di cui ha goduto nell’arte classica e di cui conserviamo qualche testimonianza, l’episodio dell’Antigone ribelle alle leggi della città non trova espressioni significative fino all’Ottocento e quasi sempre da parte di autori che, per convenzione, definiamo minori.
Con quest’opera del 1825, il pittore francese Sébastien Norblin vinse il Gran Premio di Roma. La tela è concepita secondo lo stile neoclassico.
Sébastien Norblin, Antigone donnant la sépulture à Polynice - Public Domain via Wikimedia Commons
Questa Antigone appartiene a uno dei più famosi pittori greci, Nikiphoros Lytras, uno dei più importanti esponenti della pittura della cosiddetta Scuola di Monaco di Baviera, le cui tematiche si rifanno generalmente a soggetti storici o paesaggistici.
Nikiforos Lytras - Antigone in front of dead Polynikes (1865), National Gallery of Athens - Public Domain via Wikimedia Commons.
Questo dipinto è del pittore francese tardo romantico Jean-Joseph Benjamin-Constant. Il pittore ha dato alla rappresentazione un’atmosfera tragica e solenne. Al centro del quadro risalta la figura chiara e luminosa di Antigone, mentre in alto a destra incombe come una minaccia il castello simbolo del potere. La donna è ritratta nell’atto in cui copre pietosamente il fratello morto. Il braccio di lei è parallelo a quello del cadavere e con esso crea uno spazio chiuso e raccolto, staccato dalle altre figure.
Jean-Joseph Benjamin-Constant, Antigone presso il corpo di Polinice, 1868. Photothèque Musée des Augustins - Public Domain via Wikimedia Commons.
MEDEA
Quello di Medea è un personaggio assoluto, estremo, il cui atto di ribellione si compie in un gesto indicibile, il più mostruoso dei delitti, che nessuna legge, né umana né divina, potrà mai giustificare: l’uccisione dei propri figli. Medea è il personaggio tragico per eccellenza, che vive conflitti insanabili: è una maga barbara che proviene da una civiltà arcaica e che non riesce ad integrarsi nell’universo razionale di Corinto, dove le donne vivono una condizione di totale sottomissione all’uomo. Quella di Medea è una condizione di emarginazione, guardata da tutti con sospetto per via del suo essere straniera e dotata dell’oscura e potente sapienza della magia, condannata alla solitudine e all’esilio spirituale. Ma in questa tragedia di Euripide non esplodono solo conflitti tra personaggi diversi e diverse visioni del mondo. Per la prima volta nella storia della tragedia greca, il conflitto si dibatte entro un animo solo: è lei Medea che da sola si dilania tra sentimenti opposti, lacerata tra razionalità e passione, tra l’amore dei suoi figli e il suo desiderio di vendetta e di riscatto dell’oltraggio subito e dell’onore violato.
Medea è una principessa della Colchide, terra barbara, lontana dalla Grecia, in cui si praticano riti e costumi arcaici. Ella è anche una maga (il nome Medea significa proprio “maga”) e una sacerdotessa, nipote del sole, ed è lei, con la sua magia, che permette a Giasone di conquistare il vello d’oro. Trascinata dalla sua passione per l’eroe greco, arriva a tradire la sua gente, suo padre e a uccidere il fratello Ipsirto per inseguire il suo amore. Dopo qualche anno di convivenza a Corinto, Giasone rivela la sua bassezza e meschinità, ripudiando Medea per sposare Glauce, figlia di Creonte, re di Corinto; il che gli darebbe diritto di successione al trono.
Giasone appare come la parodia dell’eroe mitico. Si rivela un uomo freddo e calcolatore, che non conosce la passione e nella sua insipienza non riesce a prevedere le reazioni di una donna umiliata ma fiera come Medea. La vera eroina dell’opera è la maga barbara, terribile ed estrema, complessa e contraddittoria, fragile e forte nello stesso tempo, mentre il greco Giasone rimane una figura scialba e secondaria. Lui sa opporre solo convenienti ragionamenti, mentre Medea con ardore e passione incontrollate si lamenta col coro delle donne corinzie. Mentre nelle tragedie di Sofocle Antigone trova il suo antagonista in Creonte, qui non c’è un antogonista vero, la cui statura possa eguagliare quella di Medea. Giasone è un opportunista, non l’eroe tragico, tormentato e solitario di fronte al suo destino.
Creonte, che sospetta una vendetta, ordina a Medea di lasciare la città. Ella finge di scendere a miti consigli e ottiene di rimanere un giorno, che le servirà per realizzare il piano. Innanzitutto invia a Glauce un dono nefasto: una ghirlanda e una veste avvelenata che, appena indossata, avvolge la giovane in un fuoco mortale. Creonte pure muore nel tentativo di salvare la figlia, ma a Medea tutto ciò non basta. Deve compiere una vendetta inesorabile, inaudita, troncando l’ultimo legame con l’uomo che l’ha tradita. A questo punto si inserisce il celebre monologo di Medea. Esso è stato oggetto di un lungo ed articolato dibattito critico, che ha determinato la nascita di numerose teorie, spesso contrastanti, ma che in sostanza vedono in esso lo scontro tra passione e ragione. Ma cosa costituisce “ragione” in questa tragedia? La sete di giustizia per l’offesa subita o l’amore di madre? E cosa costituisce “passione”? La sete di vendetta o il legame viscerale per i propri figli? Impossibile giungere a delle conclusioni che stabiliscano una volta per tutte quali siano in modo assoluto i due termini del conflitto.
Ciò che emerge è il fatto che, nella tragedia euripidea, il vero motore tragico è la libera scelta dell’uomo: spetta solo alla protagonista prendere una decisione in merito al proprio destino. L’uomo è rimasto da solo, senza dei (che non intervengono mai), artefice della propria sorte, anche se il pessimismo euripideo la identifica con un processo di autodistruzione. Medea non deve eseguire un ordine impostole da qualche divinità (come ad esempio è per Oreste nel momento in cui affronta il matricidio), ma si dibatte, nella più totale solitudine, tra sentimenti opposti: la sete di giustizia nei riguardi di un marito che l’ha oltraggiata combatte contro il dolore per la gravità di un delitto che ella si appresta a compiere consapevolmente. Questo conflitto ne fa un personaggio terribile e straordinario.
Numerose sono state le raffigurazioni della storia di Medea nell’arte classica (soprattutto vascolare). A titolo di esempio riportiamo questo affresco rinvenuto a Pompei, del quale ci colpisce il lampo di follia che emanano gli occhi sbarrati della donna.
Medea prima dell’assassinio dei figli, Affresco da Pompei, casa dei Dioscuri, - Public Domain via Wikimedia Commons.
Nel Settecento il pittore francese Charles-André van Loo realizza dei dipinti in cui mette in scena una Medea che ha già compiuto l’orrendo misfatto e che, in posizione trionfante su Giasone, si accinge a volare via sul suo carro magico.
Charles André van Loo - Mlle Clairon en Médée, 1760 - Public Domain via Wikimedia Commons.
Gli artisti successivi, invece, si sono concentrati in particolare sul momento che precede l’infanticidio e sulla rappresentazione della Medea nell’atto in cui medita la sua terribile decisione. In alcuni casi il suo volto è reso con tratti che ne rivelano la lucida sofferenza e il conflitto interiore, in altri invece il viso è segnato da follia e alienazione.
Si veda ad esempio il dipinto considerato il capolavoro del pittore inglese George Romney, amico di Heinrich Füssli:
George Romney, Lady Hamilton as Medea, 1786, The Norton Simon Museum - Public Domain via Wikimedia Commons.
Una delle interpretazioni pittoriche più celebri è quella del pittore francese Eugène Delacroix, che ne eseguì diverse versioni.
Delacroix aveva sconvolto il clima artistico parigino, dominato dalla scuola Neoclassica, caratterizzata da rigide convenzioni stilistiche (decoro della composizione, nettezza della forma, monumentalità dell’azione), proponendo composizioni dinamiche, forme indefinite, colori accesi e brillanti, scene animate da una forte passionalità
E sono proprio le passioni il tratto distintivo della sua Medea furiosa. Nell’opera emerge tutto il pathos del momento che precede il terribile evento. Il volto della donna è sconvolto dalla follia e si volge indietro, verso l’apertura della caverna, come per sfuggire all’inseguimento di qualcuno o di qualcosa. Con le braccia stringe i figli contro il seno nudo ed intanto con la mano sinistra impugna il pugnale.
Eugène Delacroix, La furia di Medea, 1838, Palais des beaux-arts de Lille - Public Domain via Wikimedia Commons.
La plasticità delle figure e il sapiente uso della luce conferiscono al dipinto un senso del dramma e una dinamicità straordinari, che si sprigionano dalla tela con l’energia delle forti passioni che stanno per esplodere nell’atto della tragedia.
Delacroix amplifica il potere distruttivo di questa donna ripercorrendo e reinterpretando la tradizione: la composizione dell’opera, strutturata a piramide, con la donna al vertice e i due bambini alla base, è infatti ispirata alla Vergine delle rocce di Leonardo da Vinci. È evidente qui il ribaltamento dell’iconografia classica, in cui l’amore materno diventa, lucido e folle insieme, terribile piano di morte.
Questo dipinto di Henri Klagmann rappresenta Medea mentre medita il suo atto estremo.
Henri Klagmann, Medea, 1868, Nancy, Musée des Beaux-Arts - Public Domain via Wikimedia Commons.
Nella figura ritratta emergono con forza la sua solitudine e la tragicità del conflitto, lacerante e violento, in cui matura la sua scelta. L’opera di Euripide converge tutta sul monologo in cui Medea decide di uccidere i propri figli e questa immagine ne mette potentemente in scena tutta la drammaticità. La decisione non è facile; la donna indugia penosamente, sopraffatta dall’amore materno. La madre viene mostrata nel momento in cui, alla vista dei figli, diviene preda di ripetuti tentennamenti, di attanaglianti dubbi: ella è incerta tra due opposte alternative, se dare corso alla vendetta contro Giasone uccidendo i figli o, al contrario, cedere al sentimento materno e recedere dai suoi propositi. Dopo un tesissimo travaglio interiore, la prima delle due alternative ha la meglio, ed ella accetta di abdicare alla sua maternità, pur di privare Giasone per sempre della sua paternità e salvaguardare se stessa dallo scherno dei nemici. I poveri bimbi, che non parlano mai, vittime sacrificali, ora non hanno più scampo: Medea li uccide con le proprie mani, poi si leva con i loro corpi sul carro del Sole suo progenitore, irridendo crudelmente allo strazio di Giasone.
Anselm Feuerbach, Medea, 1870, Neue Pinakothek - Public Domain via Wikimedia Commons.
Il dramma di Medea ha conosciuto innumerevoli interpretazioni. Il film di Pasolini del 1969, più che sul conflitto psicologico interno all’animo di Medea, privilegia l’aspetto antropologico, inquadrando il nucleo conflittuale della tragedia nella opposizione tra culture: tra oriente e occidente, matriarcato e patriarcato, il mondo del sacro e la razionalità della polis. Da questo punto di vista, la Medea si presenta come mito attualissimo.
A questo link un brano del film che mostra l’inizio della crisi spirituale di Medea, che si rende conto che il mondo di Giasone le è estraneo e contemporaneamente sente di star perdendo il contatto con il mondo sacro in cui è nata. Già in questa scena emerge il suo conflitto interiore, quella scissione che la porterà all’epilogo tragico:
A quest’altro link, invece, il monologo di Medea davanti ai suoi figli, nell’interpretazione di Sarah Ferrati del 1957:
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