Carleton Watkins, El Capitan, Yosemite Valley, Calif., 1865 ca. |
Il paesaggio non è dunque uno stato d’animo individuale, una rappresentazione spirituale, la natura che si rivela esteticamente a chi la osserva e la contempla con sentimento. Il paesaggio cioè non è un riferimento astratto e generico, un dato puramente estetico e psicologico.
Non esiste, inoltre, un paesaggio in senso oggettivo e indipendente da un osservatore e dall’azione esercitata dall’uomo. Il paesaggio è sempre un prodotto dell’intervento degli individui e delle comunità, che non si limitano a modificare l’ambiente in senso fisico attraverso la trasformazione del territorio, ma anche attraverso la costruzione di rappresentazioni simboliche complesse.
Lo spazio si definisce come prodotto sociale perché subisce un processo di trasformazione causato dall’agente culturale, dove la natura si caratterizza come un mezzo, la cultura come un agente di trasformazione e il paesaggio culturale come il prodotto finale.
La cultura quindi è un agente di trasformazione che incide sul paesaggio trasformandolo e connotandolo di elementi simbolici che costituiscono l’identità di un determinato gruppo sociale. Un ambiente naturale viene sempre ricostruito culturalmente attraverso opere di manipolazione che producono caratteristiche tali da trasformare i luoghi in paesaggi.
I paesaggi di frontiera costituirono un elemento essenziale della retorica nazionalista americana. La scoperta di luoghi primordiali, che si mostravano molto più antichi di quelli europei, permetteva di individuare le origini del nuovo continente in un passato mitico, più antico e più vicino alla creazione. Se il paesaggio europeo, con le sue rovine e i suoi monumenti, si costituiva come paesaggio storico, quello americano si presentava invece come paesaggio sacro, precedente il tempo della storia.
E la fotografia fu l’elemento culturale decisivo nel trasformare, sia nel senso della percezione visiva che della costruzione simbolica, quei luoghi naturali nel paesaggio della missione del popolo americano.
Carleton Watkins, Nevada Fall, Yosemite Valley, 1865 ca. |
Come conciliare l’idea della natura selvaggia, primordiale, della terra vergine e incontaminata con la spinta al progresso, con l’azione dirompente della macchina che compiva il suo percorso inarrestabile verso la modernizzazione? Tutto ciò sollevava prima di tutto un problema morale, che si cercò di risolvere grazie all’innovativa fondazione dei parchi nazionali. Quegli scenari paesaggistici incontaminati divennero nella percezione comune i monumenti all’identità del popolo americano, i sacrari della wilderness, i ritratti dell’America primitiva. In quei luoghi si celava il mito della grande natura primigenia, il santuario disabitato, mai calpestato da impronta umana prima dell’arrivo degli europei. Paradossalmente fu la civiltà a creare la wilderness, un’idea sostanzialmente astratta e artefatta, che costituì la base della costruzione dell’identità nazionale degli Stati Uniti. E, come nella maggior parte dei processi coloniali, ci si servì dell’idea di wilderness, intesa come “terra di nessuno”, per giustificare l’esproprio ai danni degli indigeni. Nel momento infatti in cui quella terra veniva identificata come selvaggia e disabitata, implicitamente non si dava riconoscimento alla presenza e ai diritti di coloro che in quei territori abitavano da secoli e che avevano lasciato la loro impronta su di essi.
Carleton Watkins, Cape Horn, Columbia River, 1867. |
Le foto del 1864 di Carleton Watkins dello Yosemite, che richiamavano molto la pittura (si pensi alle opere della River Hudson School o della Rocky Mountains School) ed erano prive di qualsiasi presenza umana, convinsero l’allora presidente degli Stati Uniti Abramo Lincoln e il congresso a siglare la legge che garantiva la conservazione della Yosemite Valley e del bosco Mariposa di sequoie giganti, affidandone la cura e la proprietà allo stato della California, dopo che naturalmente l’esercito aveva mandato via i legittimi abitanti di quel territorio, gli indiani Yosemite. Fu proclamato definitivamente parco nazionale nel 1890, diventando subito una delle mete turistiche privilegiate.
Prima della fotografia, già la pittura americana aveva interpretato la contraddizione tra wilderness e progresso umano.
I dipinti, come quelli di Thomas Cole, in cui il progresso è associato a sentimenti di ansia e di timore per la sua azione dirompente, fanno parte dell’ambigua retorica associata alla visione edificante della terra come giardino coltivato.
Cole Thomas, The Oxbow (The Connecticut River near Northampton), 1836, The Metropolitan Museum of Art, New York. |
Questo quadro del 1836 è un chiaro esempio di questo sentimento ambivalente nei confronti dell’azione modificatrice dell’uomo e del progresso. Esso presenta, sulla sinistra, una foresta selvaggia battuta dalla tempesta e, in primo piano, un albero percosso anch’esso dal temporale e un tronco spezzato; a destra vediamo invece un paesaggio coltivato, soleggiato e tranquillo, bagnato dal Connecticut River. Se gli altri pittori della Hudson River School mettevano pacificamente insieme, nello stesso paesaggio, la natura selvaggia e i campi coltivati, Cole li ritrae ancora come i due poli di una dicotomia, tenendoli separati; e tuttavia la natura coltivata di questo dipinto non suscita inquietudine o senso di minaccia.
Come scrive la Leonardi, “In questo doppio registro iconografico è implicita la convinzione che la natura incontaminata del Nuovo Mondo, lungi dall’essere completamente distrutta dal progresso e dalla civilizzazione, avrebbe potuto coesistere pacificamente con il giardino coltivato dall’uomo prima e con la città industriale poi”.
In questo dipinto possiamo notare tra le rocce in primo piano un minuscolo autoritratto del pittore.
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