sabato 12 ottobre 2019

Il destino




Jean Michel gettò un altro pezzo di legna nel fuoco morente e si fregò le mani, cercando di scaldarsele col fiato. Un lieve soffio di vapore uscì dalla sua bocca.
«Dannazione, che freddo! Sembra la notte del Giudizio».
Fuori imperversava una bufera di neve, la prima nevicata della stagione. Il bosco era una massa informe e dolorante sotto le sferzate del vento, una nebulosa scura e palpitante, come se rifiutasse di indossare il mantello bianco e gelido che la neve gli stava posando addosso. Ad un tratto un ululato acuto, vicino, echeggiò nell’aria. Era stato il vento o un vero lupo? Il vecchio pastore Bastian non lo aveva forse avvertito della presenza di lupi in quella zona?
Come se non bastasse una violenta folata di vento spalancò la finestra. Fortunatamente la scrivania era proprio lì accanto e fece in tempo a posare un pesante fermacarte a forma di testa di civetta sui fogli dattiloscritti, accanto alla macchina da scrivere. Poi richiuse la finestra.
«Prima o poi devo far riparare questa serratura logora».

Jean Michel aveva scelto quella baita sperduta in una piccola valle alpina della Svizzera meridionale per terminare il suo romanzo, un nuovo best seller, probabilmente. Un nuovo caso editoriale, con interminabili code alla fine delle presentazioni, per farsi rilasciare la dedica sul risguardo del libro. La casa era abbastanza confortevole e soprattutto irraggiungibile. Niente telefono, niente tv. Il posto ideale per trovare la concentrazione giusta e terminare il romanzo. Nicolette, l’amica del suo editore, non aveva fatto obiezioni quando lui le aveva chiesto in prestito la baita ereditata dai genitori. Dire “le aveva chiesto” non è precisamente il termine più appropriato, perché negli ultimi anni, gli anni del successo, avevano insegnato a Jean Michel che chiedere è superfluo. La volontà  è un atto che si impone e non si preannuncia. Così aveva imparato a imporre le proprie decisioni sugli altri nello stesso modo in cui imponeva un destino ai personaggi dei suoi libri. Dopotutto i suoi romanzi avevano successo proprio per questo. Le giurie che gli avevano riconosciuto numerose onorificienze avevano quasi sempre motivato il premio adducendo una originalità nella composizione narrativa e nella caratterizzazione dei personaggi, che "come attori delle tragedie classiche, giacciono a un destino imposto loro dalla penna dello scrittore, un destino segnato dall’irrompere dell’assurdo, in cui i protagonisti annaspano e quasi sempre annegano, rimanendone travolti”. Anche la storia che stava scrivendo avrebbe avuto, come le altre, un esito inaspettato, un plot twist si diceva, che avrebbe sconvolto il lettore, prendendolo alla sprovvista, attraverso una conclusione che nessuno si sarebbe mai aspettata, una conclusione aperta all’irrompere di un elemento inspiegabile, paranormale o fantastico, in grado comunque di stupire e nello stesso tempo stravolgere i destini dei personaggi.
Le fiamme nel camino erano di nuovo alte finalmente, e crepitavano tra i tizzoni con rinnovata energia. Anche nelle mani di Jean Michel, fino a poco tempo prima intorpidite e incapaci di battere sulla tastiera, era ritornato a fluire il sangue che ridonava alle dita elasticità e colore. Si versò e mandò giù d'un fiato due dita di whisky. L'alcool gli procurò un bruciore all'esofago. Si avviò verso la scrivania, illuminata da una lampada da tavolo. Un mozzicone di sigaretta fumava ancora nel posacenere di legno, ormai completamente annerito. La bufera di neve doveva essersi attenuata, perché ora riusciva di nuovo a udire il sibilo del gruppo elettrogeno all’esterno della casa.
Jean Michel rilesse le ultime righe del foglio inserito nella macchina da scrivere, strinse i denti e scosse la testa. Era arrivato a un punto critico della storia, l’intreccio sembrava essersi bloccato a un punto morto, incapace di sciogliersi e di scorrere fluido. Era forse arrivato il momento di far irrompere il colpo di scena, l’imprevedibile, l’avvenimento lontano dalle leggi naturali, con cui Jean Michel era solito dare la sterzata definitiva ai suoi romanzi. Il deus ex machina della tragedia classica. I suoi personaggi principali, George e Martine, una coppia di sposi che ormai aveva compiuto il normale tracciato che dai picchi dell’iniziale passione si era appiattito in un ménage fatto di routine e di solitudine, erano stati spinti dallo scrittore a un livello tale di incomunicabilità reciproca che ormai le ultime pagine uscite dalla macchina da scrivere erano dense di descrizioni e prive di dialoghi. Per evitare di affaticare ulteriormente la lettura di quest’ultimo successo editoriale (l’autore ne era assolutamente certo), bisognava dare una svolta decisiva al racconto che rischiava di stagnare. Il capitolo precedente li aveva lasciati mentre si avviavano in macchina verso un luogo di vacanza. Era stata Martine a proporre quel diversivo, per provare a ritrovare un po' dell'antica passione.
Jean Michel era assorto in questi pensieri e tamburellava le dita sui tasti della macchina da scrivere senza tracciare alcuna parola, quando sentì qualcosa, il rumore di un motore all’esterno della casa. C’era qualcuno fuori, un’auto forse. Impossibile! Chi avrebbe avuto il coraggio di avventurarsi su quella strada in una notte come quella? Jean Michel andò alla finestra e scostò la tendina. Si, un’auto si era fermata nello spiazzo antistante la casa e puntava i fari accesi nella sua direzione. Quando il motore e le luci si spensero, scorse una figura in piedi, vicino all’auto. Aguzzò gli occhi, ancora abbagliati dai fari, per scrutare meglio nell’oscurità. Poté notare che si trattava di un uomo. Un brivido gli attraversò la schiena, facendolo scuotere.
Lo sconosciuto si stava avvicinando alla casa; sembrava avere un’aria inoffensiva e soprattutto infreddolita. Jean Michel raggiunse la porta, l’aprì e uscì nella piccola veranda. L’uomo era già sullo scalino d’ingresso. Si teneva stretto nella sua giacca di panno, sicuramente poco adeguata a quei climi e a quelle altitudini. Era piuttosto giovane e prestante; i folti capelli neri gli incorniciavano un viso regolare e due occhi limpidi e chiari che lo sconosciuto, fattosi ancora più vicino, teneva ostinatamente fissi e aperti su quelli dello scrittore. Jean Michel per un attimo notò quell’ombra di sfrontatezza, ma la voce dello sconosciuto risuonò subito suadente e venata da una lieve sfumatura d’implorazione. Lo scrittore recuperò la sua sicurezza.
«Ci dispiace disturbarvi, ma io e mia moglie ci siamo persi». Nel dire ciò con il braccio indicò l’auto e solo allora Jean Michel notò un’ombra nel lato passeggeri della station wagon nera.
La voce dello sconosciuto riprese:
«Sarebbe così cortese da farci entrare in casa sua per poterci scaldare un po’? Come se non bastasse, si è anche rotto l’impianto di riscaldamento della macchina e io e mia moglie rischiamo di morire assiderati. Sarebbe così gentile...».
Jean Michel non lo lasciò terminare.
«Ma certamente, dica a sua moglie che siete i benvenuti in questa casa». Il suo solito carattere scostante e cinicamente snob non aveva motivo di essere in quel luogo sperduto e solitario. Jean Michel lo riservava soltanto per i salotti e la vita mondana di Parigi. Guardò lo sconosciuto dirigersi verso la macchina e aprire la portiera del lato passeggeri. Uscì una donna alta, con dei lunghissimi capelli scuri. La debole luce che proveniva dalle finestre e dalla luna non permise a Jean Michel di guardarla attentamente in viso, ma una volta avvicinatasi poté notare, con un certo stupore, la singolare bellezza di quei tratti e di tutto il corpo snello e flessuoso, anch’esso avvolto in indumenti leggeri e poco consoni a quelle temperature.
Mentre entravano in casa, Jean Michel indugiò un istante ai piedi della breve scala a guardare la donna che saliva i gradini; alla luce elettrica della stanza notò che indossava un tailleur piuttosto elegante color petrolio e dalle maniche fuoriuscivano i bordi dei polsini di una camicia di seta bianca. Lo scrittore invitò i suoi ospiti a sedersi sul divano di fronte al camino e si offrì di preparare  del tè bollente. Poco dopo portò il vassoio con la teiera e le tazze e lo poggiò sul tavolino accanto al divano. La donna si alzò, si avvicinò e insistette per servire il tè. Versò la bevanda in tre tazze, ci sciolse in ognuna due zollette di zucchero e ne porse una a Jean Michel. Il viso di quella donna aveva un qualcosa di particolare, un’espressione che lo scrittore non aveva mai riscontrato nei volti di alcuna conoscente, un’intensità nello sguardo capace di trapassare da parte a parte tutto ciò che investiva. Tutto il suo corpo emanava una sensualità tale che ebbe un trasalimento quando, nel prendere la tazza, la sua mano sfiorò quella di lei.
«Lei è uno scrittore, non è vero?» Pronunciando la domanda, la donna aveva continuato a sorseggiare la bevanda, ma subito dopo aveva alzato la testa e aveva cominciato a fissare intensamente Jean Michel. Lo scrittore avvertì di nuovo un senso di disagio. Ma anche questa volta recuperò immediatamente la padronanza di sé e a sua volta chiese:
«Ha tirato a indovinare oppure è dotata di chiaroveggenza?»
«Niente di tutto questo. Ho solo notato la sua scrivania: la macchina da scrivere, i fogli sparsi e quelli raccolti, le correzioni a penna, i numerosi mozziconi di sigaretta nel posacenere, gli occhiali, la bottiglia di cognac semivuota e il bicchiere sporco... Si direbbero gli strumenti da lavoro di uno scrittore, o sbaglio?»
«Signora, i miei complimenti. Lei ha uno spirito d’osservazione davvero stupefacente. Lo confesso, sono uno scrittore di romanzi. Magari avrete avuto modo di notare il mio nome in qualche libreria». Esitò un momento, poi sorrise ironicamente. «Potrete notare che come tutti gli scrittori di successo, io non difetti della mia buona dose di narcisismo. Chissà perché sono convinto che tutto il mondo conosca i miei libri».
«Oh, non si schermisca», intervenne l’uomo. «È giusto che un artista creda nelle sue opere e nel loro valore. È segno di forza credere nelle proprie idee e portarle fino alle loro estreme conseguenze, senza tradirle mai».
«Oh, mai... Mai, amico mio, è una parola che ha poco diritto di esistere nella nostra lingua. Lo conosce anche lei, non è vero, quel proverbio orientale che dice “non dire mai: fontana io non berrò la tua acqua”?»
«Appunto, “non dire mai”, come vede questo strano avverbio compare anche qui. Ma si sa, nei detti della sapienza orientale c’è sempre tutto e il contrario di tutto».
«E invece io le dico che c’è un tempo per tutto; c’è un tempo anche per tradi...».
«No, la prego», si schermì l’uomo portandosi una mano alla fronte, con finto dolore. «Lasciamo stare queste massime orientali…». La sua espressione si era fatta assorta e sembrava seguire un flusso interiore di pensieri. «Come se il tempo o la storia avessero delle scadenze prestabilite… E poi stabilite da chi? Un fatto accade, e basta. Non c’è nessun ordine che governa gli avvenimenti. Quando qualcosa accade, impone da sé la propria ragione di essere. Nessuna volontà ricama dall’esterno l’arazzo della storia».
«Amico mio, lei sta parlando con uno scrittore, e si sa che gli scrittori hanno un potere illimitato sulle storie che raccontano, un potere di vita e di morte».
In quel momento la donna, che per tutto il tempo era rimasta in disparte ad ascoltare, sorseggiando il suo tè, si alzò dalla poltrona e si avvicinò al fuoco. Il bagliore delle fiamme le saettava sul viso, formando un misterioso gioco di luci e di ombre. In quell’istante Jean Michel ebbe l’impressione, guardando il viso della donna, di trovarsi di fronte a un disegno di matite colorate, in cui dominavano il rosso e il nero. Ne avrebbe tracciato volentieri uno schizzo su un foglio, come talvolta faceva quando cercava un volto per i suoi personaggi. Nei suoi romanzi evitava sempre di dilungarsi in descrizioni accurate dell’aspetto fisico dei protagonisti. Preferiva curare le descrizioni d’ambiente, soprattutto gli interni di case e di alberghi, presentare con dovizia di particolari arredi e architetture. Ma scrivendo le sue storie, non poteva fare a meno di dare mentalmente una fisionomia ai suoi personaggi e qualche volta ne tracciava degli schizzi con la matita.
Nella penombra della stanza le ultime parole dello scrittore avevano lasciato dietro di loro un silenzio quasi solenne, rotto soltanto dal crepitare delle fiamme tra i tizzoni. Il fuoco era in quel momento la cosa più viva di quel luogo, l’unica ad avere voce e movimento,  piena di vigore nella sua danza ancestrale e noncurante di tutto il resto. Le altre tre figure restavano invece immobili nella stanza, come anchilosate nelle loro posizioni, con gli sguardi rivolti verso quella luce guizzante che creava un centro magnetico, una presenza assoluta.
La donna fu la prima a rompere quel silenzio.
«Potere di vita e di morte... Come molti scrittori lei soffre di delirio di onnipotenza. Si immagina un personaggio, gli si attribuisce un corpo, un modo di pensare e un modo di esprimersi, gli si dà vita, se così si può dire. E poi, poi lo si porta in guerra, a farsi ammazzare o su una rupe, per farlo schiantare su qualche roccia, perché il suicidio fa molto effetto sui lettori, non è così? Ha mai pensato che invece quel personaggio non avrebbe mai voluto arruolarsi o che avrebbe preferito rischiare e andare avanti piuttosto che buttarsi da una rupe? Ha mai avuto la sensazione che qualcuno dei suoi protagonisti le sfuggisse, come se non riuscisse a penetrare fino in fondo i suoi pensieri?»
«Signora, davvero, credo di non capire. Lei dimentica che i personaggi di un romanzo non hanno una vita propria. Pensano con i miei pensieri, parlano con le mie parole. Prima che io dia loro un nome, o anche un accenno, essi non esistono, non sono in grado di dire o di fare alcunché. E anche nel momento in cui li pongo in essere, sono come manichini scomposti e afflosciati, se io non li muovessi con i fili della mia forza creativa. E non avrebbero neanche un mondo dove stare, se io non lo inventassi per loro».
«Allora, lei sarebbe un Dio?»
Jean Michel sorrise e si accese una sigaretta.
«Dio? No, direi proprio di no. Non il Dio cristiano, almeno. Lui ha dato all'uomo il libero arbitrio. E si è fregato da solo. Capite? Lui crea l'uomo e lo lascia libero. Libero di fare le proprie scelte, di confrontarsi con la propria coscienza. Una volta plasmato, la sua opera è compiuta. Può, al massimo, intervenire di quando in quando per dei consigli, per dettare qualche precetto. Qualche comandamento. L’opera di uno scrittore va ben al di là; è un lavoro senza fine e senza limiti. Dio in realtà è impotente; è un improvvisatore del controllo. Lo scrittore invece…», soffiò una lunga nuvola di fumo. «Lo scrittore ha un potere assoluto».
Si avvicinò all’orecchio della donna e disse sottovoce:
«Io creo un destino. Questa parola ha ben poco significato per noi uomini, che costruiamo la nostra vita istante per istante, con le nostre scelte e le nostre azioni. Ma i personaggi di una storia. Essi sì che ce l'hanno, un destino, quello che io riservo per loro. Si potrebbe dire che un romanzo è sempre una tragedia, perché come nelle tragedie classiche i personaggi sono in balia di una sorte che non conoscono».
Tirò una lunga boccata.
«Ma nei romanzi la tragedia ha sempre qualcosa di grottesco», continuò. «Sì, perché se nelle tragedie classiche vediamo gli attori che cercano di opporsi e di lottare in qualche modo contro questa sorte, nei romanzi invece i personaggi non sono neanche consapevoli di un destino da affrontare, perché tutto, ogni loro pensiero, ogni avvenimento che segna le loro vite, è nelle mie mani. Essi non hanno vita fuori dai miei fogli e dalla mia macchina da scrivere, al di fuori della mia volontà. No, non un Dio. Piuttosto si potrebbe dire che un vero scrittore è come un demone, un demone intelligente, crudele ma senza cattiveria, capace di tirare contemporaneamente i fili di tutti i personaggi che ha creato. Purtroppo è così, non c’è via di scampo».
Il finto tono addolorato con cui pronunciò l’ultima frase contrastava con la luce tagliente che era lampeggiata nei suoi occhi solo un momento prima. I suoi ospiti non dissero nulla, ma si guardarono per un momento. Ritornò il silenzio e il fuoco riprese il suo posto di protagonista.
Dopo alcuni minuti, l’uomo si rivolse a Jean Michel:
«Le è mai capitato di affezionarsi a qualche suo personaggio? Non nel senso di riservargli un buon finale, ma nel senso di desiderare che fosse felice».
«Oppure, le è mai capitato di lasciarsi sedurre da qualche suo personaggio femminile?», lo interruppe la donna.
«Impossibile! Ciò che mi chiedete è assurdo! Come ci si può affezionare a qualcosa che non esiste al di fuori della propria volontà? Ciò che preoccupa uno scrittore è la storia, intrecciarla in modo che catturi l’attenzione del lettore, lo prenda nelle maglie strette della curiosità, che è l’unico, l’unico motore che spinge a girare la pagina dopo averla letta. Cos’è un libro se non viene letto? Uno scrittore si affanna per trovare le parole giuste, combinare i dialoghi preoccupandosi di renderli verosimili, documentarsi per non incorrere in anacronismi o errori clamorosi nel descrivere ambienti e oggetti, cogliere qualche metafora che non appiattisca il racconto. I personaggi e le loro vite, credetemi, vengono decisamente in secondo piano».
Spense la sigaretta nel posacenere di legno, sorrise con una leggera sfumatura di ironia e riprese:
«Addirittura lei mi chiede se mi sia mai lasciato sedurre da qualche mio personaggio femminile. La seduzione è un gioco che ha bisogno di corpi veri, che si guardano, si sfiorano...».
Non finì la frase.
«Un corpo come questo? Si lascerebbe sedurre da un corpo come questo? Ecco, lo guardi, lo sfiori».
Di fronte allo sguardo stupito di Jean Michel, la donna si era avvicinata a lui togliendosi la giacca. Poi gli aveva afferrato la mano e l’aveva portata sotto la sua camicetta di seta. L’uomo sentì la pelle morbida e calda e avvertì sotto di essa il flusso del respiro e il flebile battito del cuore. Gli occhi della donna erano ardenti come le fiamme nel camino e lo fissavano con un’espressione mista di asprezza e di torbida sensualità. Jean Michel era più sgomento che stupito. Il suo sguardo interdetto cercò l’altro uomo, lanciandogli un interrogativo muto, ma quello continuava a rimanere seduto e pensieroso di fronte al fuoco, come se non avesse avvertito ciò che gli succedeva intorno o come se ciò gli fosse del tutto indifferente.
La donna intanto gli aveva messo le braccia intorno al collo e stava avvicinando le labbra socchiuse alla sua bocca, stringendosi a lui in modo che i loro corpi aderissero perfettamente. Poi improvvisamente fu la stessa donna a sciogliersi dall’abbraccio e a fare un passo indietro, continuando a fissarlo con un sorriso complice. Jean Michel stava cercando di riaversi dalla sorpresa e stava per accennare un’esclamazione, quando si vide girare la stanza tutt’intorno, mentre la vista gli si offuscava. Si accasciò sul divano, sentendo dentro di sé farsi strada una stanchezza infinita, che gli prendeva ogni muscolo, paralizzandogli perfino la lingua. Sentiva confusamente la voce sprezzante della donna mormorare frasi che arrivavano ai suoi orecchi con toni di grandezza discontinua e come filtrate da un’onda deformante.
«Cosa succede?, ho forse esagerato con il gioco della seduzione? Il mio corpo ti piace, non è vero? Quindi non ti sono del tutto indifferente, caro scrittore». Nel velo di nebbia che si attenuava davanti ai suoi occhi, poté scorgere i visi di entrambi di fronte al suo e sentirne la voce.
«Avverte una sensazione di impotenza non è vero?, come se non fosse più padrone del suo corpo. Lo sente farsi man mano refrattario alla sua volontà. Fra poco lo sentirà completamente estraneo, come se fosse il corpo di qualcun altro». Era stato l’uomo a parlare, questa volta.
Jean Michel cercava di reagire, ma i comandi del suo cervello rimanevano bloccati alla partenza, come se un corto circuito totale avesse interdetto la trasmissione degli impulsi nervosi da neurone a neurone. Sentiva ogni centimetro del suo corpo impietrirsi a poco a poco, quasi che un sortilegio lo stesse trasformando in una statua di marmo. Le facce di fronte a lui ondeggiavano come gli spettri di un incubo, ne percepiva il ghigno e il tono sferzante delle parole.
«Chi siete? Cosa volete da me?», riuscì a chiedere con uno sforzo disumano.
«Chi siamo? Ancora non lo hai capito chi siamo? Già, eri talmente preso a celebrare la potenza illimitata dello scrittore che non ti sei nemmeno preoccupato di chiederci come ci chiamiamo, da dove veniamo, cosa ci facciamo da queste parti in una notte come questa. Ci hai accolto con la stessa indifferenza con cui tratti i tuoi personaggi». Fece una pausa e si avvicinò alla faccia di Jean Michel. «L'indifferenza con cui ci hai sempre trattato, volevo dire».
Lo scrittore lo guardava senza riuscire a capire. «Mi avete drogato? … Perché? …Che cosa volete?», biascicava monotono.
«È una droga strana. Non ha alcun effetto sul cervello. Agisce solo sul corpo, paralizzandolo per parecchie ore. La sua mente però si manterrà lucida e potrà vedere e udire tutto. Fra poco il fuoco si spegnerà, ma lei non avrà la forza di riaccenderlo. Il freddo avvolgerà il suo corpo, ma niente potrà più riscaldarlo. L’onnipotente scrittore, il signore del destino di tanti ignari individui, ridotto all’impotenza. Una grande e tenace volontà  incapace di muovere alcunché. Addio, caro scrittore. Il suo ultimo romanzo avrà un grande successo, perché le vendite di un libro decollano in occasione della morte del suo autore, tanto più se avvenuta in circostanze misteriose».
Jean Michel, accasciato sul divano, udì per alcuni minuti i passi dei due per la stanza. La testa era irrigidita sul collo, senza poterla ruotare in alcun verso. Con la coda dell'occhio vide la donna mettere le tazze sul vassoio e dirigersi verso la cucina. Udì l'acqua del rubinetto scrosciare e un rumore di stoviglie. Poi guardò i due attraversare la stanza e dirigersi fuori. Riuscì a sentire la porta d'ingresso chiudersi e il rombo dell’auto che ripartiva. Da destra gli arrivò una folata di vento gelido. I suoi occhi sbarrati rimasero a fissare il fuoco spegnersi nel camino e di tanto in tanto nugoli di cenere turbinare mossi dal vento che entrava dalla finestra lasciata aperta.

Quando due giorni dopo il vecchio Bastian entrò nella baita, trovò il corpo gelato e senza vita dello scrittore accasciato sul divano. La neve, entrata dalla finestra aperta, aveva coperto il pavimento e i mobili lì vicino. Sul tavolino un bicchiere sporco e una bottiglia vuota di whisky. Possibile che il troppo alcool gli avesse fatto perdere i sensi e che poi fosse morto assiderato. Sulla scrivania, una pila ordinata di fogli dattiloscritti, tenuti fermi da una testa di civetta di bronzo e ancora nella macchina una pagina battuta a metà. Bastian lesse l'ultimo capoverso: I suoi occhi sbarrati rimasero a fissare il fuoco spegnersi nel camino e di tanto in tanto nugoli di cenere turbinare mossi dal vento che entrava dalla finestra lasciata aperta. 
Poi uscì dalla baita e si avviò verso casa sua per chiamare la polizia.

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