lunedì 28 ottobre 2019

Francesca Woodman. Il corpo oltre i confini del corpo



La fotografia di Francesca Woodman è un viaggio all’interno del corpo femminile, che l’artista trae fuori dagli stereotipi rappresentativi della tradizione per usarlo come strumento, estetico e insieme vitale, non solo per interrogare la propria identità, ma per farne opera d’arte in sé. E per far questo, ne travalica i limiti anatomici, lo sottopone a metamorfosi, lo maschera, lo dissolve, lo trasforma in spazio. Lo colloca in una tensione continua tra la carne e lo spirito, tra presenza e assenza, tra visibile e invisibile, rendendolo abitante di una dimensione sfuggente e transitoria. Ma soprattutto lo rende attivo sulla scena, protagonista di uno scambio simbolico con lo spazio esterno, liberandolo da quei cliché di passività che da sempre avevano caratterizzato la rappresentazione del corpo femminile.

La sua è un’attività di continua sperimentazione, che tuttavia utilizza pochi elementi costitutivi: il proprio corpo, la geometria come riferimento spaziale e compositivo, vecchi edifici abbandonati e fatiscenti, con soffitti scrostati e mobili in rovina.


Soprattutto è il corpo, reso potente strumento espressivo, il vero protagonista della sua opera, quasi sempre il suo, ritratto mentre si relaziona con l’ambiente circostante, in una relazione io-mondo che si risolve spesso in una sorta di mimetizzazione, o meglio di assorbimento e assimilazione, del corpo con il luogo in cui è collocato, fino all’estremo di diventare evanescente e scomparire.
Le sue composizioni, all’apparenza semplici, sono in realtà molto rigorose e la Woodman ha un talento naturale nel combinare la propria nudità con lo spazio e nel far uso dell’ambiente e delle architetture come contrappunto alla sua interiorità, come se fossero creature vive che fanno un tutt’uno con il suo corpo e permettono al suo universo intimo di esternarsi. Rispetto a ciò il nudo diventa un’esigenza necessaria e lo si capisce bene guardando le sue fotografie: avvertiamo quella nudità nello stesso modo in cui la percepiamo quando guardiamo le opere dei surrealisti (a cui peraltro la Woodman si richiamava esplicitamente), cioè come un qualcosa che rimanda ad altro, al di là delle implicazioni di natura erotica che generalmente attribuiamo alla nudità.

Self Deceit 6.

In Self Deceit 6, l’immagine che conclude la serie con lo specchio, il corpo sembra dissolversi sulla parete, diventando un’entità quasi ectoplasmatica, perfettamente mimetizzata tra le macchie di umido sul muro scrostato (la Woodman otteneva queste dissolvenze ricorrendo alle esposizioni lunghe). Lo spazio assimila il corpo e il corpo si lascia assorbire, vincendo le leggi della fisica che regolano la materia. “La sua è un’adesione totale al mondo, verso l’alto e verso il basso, è un’aderenza veicolata dall’energia personale secondo un continuum tra il corpo e le cose. La pelle dell’artista comprende tutto ciò che ha intorno e nello stesso tempo in esso si dissolve, il suo fisico ingloba il resto ma nel resto si perde” (I. Pedicini, Francesca Woodman, p.92).


Quella della Woodman non è solo una fotografia che riprende una scena, ma la performa, la “mette in scena”. Qualcuno l’ha definita una sorta di teatro anatomico, costituito da spazi claustrofobici in cui il corpo è spesso scomposto o decomposto. Ciò che emerge è la travolgente forza del suo corpo giovane e nello stesso tempo la sua vulnerabilità, la sua fragilità e una latente sofferenza interiore, espresse con toccante poesia e impressionante maturità artistica.
Il corpo non viene mai idealizzato, anzi se ne riconosce il suo essere fatto di materia, esattamente come tutto ciò che lo circonda, un corpo tra i corpi; esso viene immerso nell’universo delle cose in relazione di comunione profonda, una relazione che significa anche penetrare nelle trasformazioni e nei mutamenti che la materia subisce, nel suo inesorabile e naturale deterioramento, proprio come gli edifici in rovina, intrisi di tempo passato e cosparsi di tracce di esistenze trascorse, che lei sceglie quale ambientazione del suo lavoro.


Gran parte delle sue foto sono realizzate in spazi chiusi, claustrofobici, vecchie case abbandonate. All’interno di esse, l’artista interagisce spesso con mobili e suppellettili: specchi, sedie, porte, mobili; ma quasi mai lo fa nella maniera che caratterizza l’utilizzo tradizionale di questi oggetti. L’artista sembra piuttosto animata dalla volontà di confondersi con lo spazio circostante, posizionandosi negli interstizi, sotto i tavoli, tra i ripiani dei mobili, dentro gli armadi. In una fotografia, la sua figura è in parte nascosta da una vecchia e logora carta da parati. Il corpo e il muro si scambiano brandelli di pelle e la carne sprofonda all’interno dello spazio, privando lo spettatore della possibilità di cogliere i confini tra la forma e lo sfondo. L’immagine crea la sensazione di una figura intrappolata tra due dimensioni spaziali: non è totalmente in primo piano, né interamente sullo sfondo, ma sospesa in uno spazio intermedio, lì dove il visibile si ritira per far posto all’invisibile.
A questa posizione interposta allude anche il tema dell’angelo, che dà vita a una serie. Gli angeli sono messaggeri dal cielo sulla terra; si muovono pertanto in una dimensione intermedia. Questa figura è stata a lungo associata al tema della melanconia, sin dall’incisione di Albrecht Dürer del 1514.


L'angelo dell’artista tedesco è pesante e carico, non a causa della pigrizia, bensì della frustrazione. E’ circondato dal mondo della geometria, dagli strumenti che misurano il tempo e soprattutto lo spazio, mentre egli anela ad andare oltre i limiti di spazio e tempo. Isabella Pedicini, nel suo Francesca Woodman. Gli anni romani tra pelle e pellicola, cita proprio l’incisione di Dürer parlando dell’unica pubblicazione dell’artista americana, realizzata a Philadelphia nel 1981, che si intitola Some disordered interior geometries. Le fotografie contenute sono applicate su quaderni di esercizi di geometria dei bambini delle scuole elementari, facendo dialogare le sue immagini con le figure geometriche stampate, in particolare con il quadrato. Scrive Pedicini: “In Some disordered interior geometries, si approfondisce, allora, un discorso metodico intorno allo spazio. Uno spazio regolato da una parte dalla geometria codificata degli esercizi scolastici, dall’altra dalla personale geometria dell’artista, disordinata perché creativa ma organizzata secondo la percezione, l’emotività, regolata sul desiderio e sulle pulsioni di un corpo che si muove all’interno di un ambiente/limite” (Cit., p. 32).

L'angelo è una figura mediana, sospesa tra cielo e terra, ed è in questa posizione situata tra due opposti che Woodman si rappresenta spesso. In una fotografia, realizza le sue ali usando delle lenzuola bianche, librandosi in aria e restando sospesa nella grande stanza dalle pareti logore. In un’altra, invece, è appesa all’architrave di una porta, in una sorta di crocifissione. Il corpo penzola nel vuoto mentre il volto si nega all’obiettivo, come nella maggior parte delle opere della Woodman.
Nelle immagini che hanno come teatro l’interno della casa, lo spazio domestico subisce una radicale decostruzione. Nella fotografia citata, infatti, compare anche una sedia antica, su un pavimento a mattonelle esagonali, che fanno venire in mente certe pitture di interni fiamminghe. E, tuttavia, la donna non compare seduta al posto che le sarebbe consono.
Nelle composizioni dell’artista, i luoghi della casa, spazio femminile per eccellenza, vengono disintegrati. I mobili sono sottratti alle loro quotidiane funzioni e asserviti all’espressione non di un ruolo sociale, quello della donna, ma di una condizione esistenziale. In questa fotografia, ad esempio, la porta e la sedia, come l’intero spazio della camera, sono spogliati della funzione tradizionale che rivestivano nelle rappresentazioni di interni domestici e sono “vissuti” come simboli e luoghi di disagio interiore. Il corpo si fa non solo principio di organizzazione e di irradiazione dello spazio, ma anche punto destabilizzante della visione.
Questa immagine ha la leggerezza di un angelo, sospeso tra cielo e terra, e la brutalità dissacratoria di un corpo di donna crocifisso, un corpo però la cui identità resta negata. Il risultato finale è un disorientamento dello sguardo che a malapena riesce a reggere una vista che così radicalmente mette in crisi ciò che è rappresentabile.


Come i surrealisti, Woodman indaga le nozioni di presenza e assenza, la mutazione, l’ibridazione e la metamorfosi ed esplora la dissoluzione del suo corpo all'interno di una stanza vuota. C’è una sorprendente coerenza nelle foto della Woodman in questa sua manipolazione del corpo, nel suo desiderio di mostrarne la consistenza materica come corpo tra i corpi e nello stesso tempo nella volontà di sottrarlo alle leggi che regolano la materia e nel volerlo rendere invisibile, evanescente, mimetizzato con l’ambiente. Il vissuto alla base di questa mimesi è la volontà di superare la opposizione corpo-spazio, una polarità che nelle foto della Woodman si risolve come tensione drammatica: lo spazio si fa corpo e il corpo si dissolve o si assorbe nello spazio, per ricreare un’unità ancestrale perduta. E ciò è possibile perché il mezzo fotografico riesce a unire insieme il movimento irruente del corpo con l’inerzia dello spazio, smaterializzando la carne e fondendola con la materia delle cose.


Il filo conduttore delle fotografie è un’indagine introspettiva, e l’autoritratto è il mezzo con cui riprendere se stessa per cogliersi, per definire la propria identità, anche se quella identità si dà solo come dissolvenza, come negazione, nascondimento o mutilazione, come una precaria intermittenza figurale. Nella maggior parte delle sue fotografie, l’artista ritrae il suo corpo celandolo alla vista; in particolar modo il volto è quasi sempre nascosto dai capelli, dal taglio dell’inquadratura, dalla posa, da una sfocatura, dal movimento. La Woodman fotografa se stessa nell’atto del proprio “sfuggire” all’obiettivo. Si sottrae nel momento stesso in cui si rappresenta, coglie la propria identità come auto-negazione. E impedisce alla fotografia di afferrare il suo corpo e la sua fisionomia, di catturarli e immobilizzarli in un simulacro vuoto. Scrive a questo proposito Gerry Badger: “Sappiamo che la Woodman preparava meticolosamente le sue fotografie, disegnava bozzetti preparatori, controllava di continuo il campo visivo della macchina (…) prima di entrare nello spazio della fotografia e catturare se stessa. […] E poi, una volta insinuatasi in quello spazio che è una gabbia, uno spazio di reclusione, lei – preda di se stessa – cosa faceva? Spesso combatteva contro la sua stessa reclusione, cercava di sfuggire dai confini che la circondavano. Molto spesso non si vede nemmeno: parte del suo corpo è nello spazio, parte non lo è, mentre si libera dalla trappola che ha teso per se stessa” (G. Badger, Un posto nel mondo. Leggere Francesca Woodman, in I. Pedicini, Cit.).


In questi autoritratti la coincidenza tra io narrante e io narrato, tra soggetto creatore e oggetto plasmato, tra colei che fotografa e colei che è fotografata crea una sorta di cortocircuito, una tensione psicologica tra chi nell’atto di rappresentare cerca di imporre uno schema precostituito e ordinato e chi invece, essendo l’oggetto rappresentato, cerca di nascondersi e di sfuggire a ogni schema e di affermare la propria libertà.











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