domenica 17 febbraio 2019

Ritratti all'epoca della Grande Depressione

Dorothea Lange, Migrant Mother, 1936.

Nel 1935, in piena Depressione, prese il via un grande progetto di fotografia sociale, quello promosso dalla Farm Secuity Administration di Roy Stryker. Alcuni fotografi, tra i quali Walker Evans, Dorothea Lange, Theodor Jung, Arthur Rothstein, Ben Shahn, John Collier, Carl Mydans, Russell Lee, sono incaricati di ritrarre l’America rurale colpita dalla crisi economica e dalle carestie, che avevano ridotto gli stati centrali, la cosiddetta corn belt - fascia del granturco, in una vera dust bow, una conca di polvere, provocando un vero e proprio esodo verso la costa: le strade statali 61 e 80 sono invase da colonne di camion, carri, uomini a piedi o con qualsiasi mezzo di fortuna in viaggio, soprattutto verso la California. L’intento della FSA non è solo documentale, ma anche propagandistico: convincere la società americana della necessità della politica di rilancio dell’agricoltura, come messa a punto dal New Deal rooseveltiano, e realizzare un ritratto eroico dell’America in tempo di crisi. L’obiettivo era mostrare come quel terzo dell’America che, come diceva Roosevelt era “mal nutrito, mal vestito e male alloggiato”, non fosse un’invenzione della propaganda ma una realtà a cui bisognava far fronte.

Walker Evans. Sharecropper's Family, Hale County, Alabama. March 1936.

E’ lo stesso Roy Stryker a impostare le direttive ideologiche del programma: mostrare la povertà, arrivando vicino al dramma della persona, senza ridurre questa a uno stereotipo, ma testimoniandone la determinazione e la dignità nelle avversità.
Ai fotografi viene lasciata piena libertà stilistica e, tra le centinaia di migliaia di fotografie risultanti, è possibile riscontrare approcci molto diversi: da quello descrittivo diretto e antipsicologico di Walker Evans, a quello scultoreo e appassionato di Dorothea Lange, ma in tutti i casi siamo lontani (ad eccezione forse di Evans) dallo stile asciutto e distaccato di un europeo come Sander. Le fotografie della FSA, al contrario, sollecitano il coinvolgimento emotivo, mostrando uno sguardo partecipato, che si schiera con simpatia a favore dei contadini ritratti, per dal loro voce e visibilità.
Roy Stryker, chiedendo la partecipazione di così tanti fotografi, aveva presente l’efficacia di un'estesa raccolta fotografica nella rappresentazione di una condizione comune: l’accostamento di molti ritratti, infatti, che rimandano alla presenza reale dei loro referenti, crea nella mente dell’osservatore una comunità umana che si fa simbolo di un intero popolo. L’aspetto corale è essenziale, nonostante i ritratti siano spesso di singoli individui. E anche nelle immagini in cui emerge la disperazione, si avverte tuttavia che questa non è mai una sofferenza individuale, ma quella dell’intero Paese.

Dorothea Lange, Ditched, Stalled and Stranded.


Non a caso i soggetti di Dorothea Lange, a differenza di quelli di Lewis Hine, non hanno nome proprio né l’indicazione di altri particolari, ma sono identificati nelle didascalie con le loro professioni o con titoli ad effetto come “Ditched, Stalled and Stranded” (la famosa fotografia di una coppia in un furgone in panne). Questo caso è particolarmente significativo: della fotografia esistono infatti due versioni, una in cui si vedono un uomo magro, dal volto scavato dal sole e dalla fatica e dall’espressione sconfitta, con la moglie, ben coperta e quasi sorridente, e un’altra in cui il negativo è stato tagliato, isolando il marito nel suo abbattimento. Lange presenta in un primo momento solo questa versione. Ma questa foto non ha abbastanza forza emblematica: il messaggio va semplificato e, soprattutto, va reso univoco per non lasciare dubbi sull’interpretazione. Togliendo via la figura della moglie, il volto spaesato, magro e impaurito dell’uomo diventa l’icona simbolo di tutte le persone colpite dalla Depressione.

Dorothea Lange

Rispetto alle immagini di Walker Evans, che mette i suoi personaggi in posa al centro del loro ambiente, senza particolari gesti o messe in scena aneddotiche, con rigore asciutto e realismo modernista, le fotografie della Lange vogliono essere più espressive e coinvolgere maggiormente lo spettatore, privilegiando spesso non tanto il contesto quanto il gesto significativo e l’inquadratura drammatica, dominata dalla personalità del soggetto ritratto.
Per rendersi conto della forza emotiva ed empatica delle fotografie di Dorothea Lange, basta analizzare uno dei suoi ritratti più famosi, Migrant Mother, la cui singolarità è tanto coinvolgente da suscitare immediatamente la nostra partecipazione, ma la cui iconografia, unita alla forza generalizzante della didascalia, è così radicata nel nostro immaginario da farne il simbolo universale di tutte le madri migranti.

Dorothea Lange

La tradizione iconografica cui la Lange fa riferimento è quella della madonna col bambino, ed è questa a connotare l’immagine di tutta la struttura significativa di questo topos figurativo, andando bel oltre il referente. Il soggetto non è più Florence Thompson, né una contadina qualsiasi. Richiamata dalla didascalia, la funzione dell’immagine diventa quella dell’icona della Madre per eccellenza. Il suo sguardo sfuggente e rivolto verso il fuori campo, perso nei suoi pensieri e preoccupazioni, si sovrappone a quello della Madonna che già vede la morte del figlio sulla croce, ma anche quello di tutte le donne che vedono con ansia il futuro della propria famiglia.
La forza significante della Migrant Mother spiega perché questa fotografia sia diventata l’immagine-simbolo del progetto della FSA e perché sia stata inserita nella raccolta The Family of Man di Edward Steichen, a testimonianza della sua forza simbolica nel rappresentare l’umanità come un’unica grande famiglia. Con tutte le problematiche sollevate da questa sublimazione iconica che entrerà in conflitto con la storia particolare e contingente della donna ritratta, che vivrà per tutta la vita il peso di questa riduzione semantica, con la sua immagine legata indissolubilmente al simbolo della miseria e della disperazione. Perché, come scrive Michele Smargiassi, "il pathos ideale delle foto-icone è ingombrante, è pesante, sovrasta e a volte schiaccia l’ethos della vita vera di chi ne fu il modello" (http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2016/04/28/quando-un-volto-diventa-unicona/?fbclid=IwAR1lAaGfdioIZxG4HaFQn2rt9uRB7TuXk0_RzSTiiu52zKUegoMb9pFD5K4).


Tanti dipinti sono diventati delle icone, simboli di concetti universali (si pensi alla Libertà che guida il popolo di Delacroix) e per questo hanno preso a modello soggetti in carne e ossa. Ma in questi casi nessuno ha mai stigmatizzato la spersonalizzazione del soggetto ritratto, la sua riduzione a stereotipo ideale. Ancora una volta tutto ciò mette in risalto la specificità di un'immagine come la fotografia che, in quanto ibrido di traccia e di icona, mantiene un legame inscindibile con il suo referente e con la sua alterità e che, nel caso del ritratto, è costituito da una persona in carne e ossa, particolare, unica, irriducibile ad ogni tentativo di generalizzazione.


La Lange ha la capacità di far parlare i corpi dei suoi soggetti, ai quali si avvicina con la propria macchina fotografica e il proprio di corpo, che una poliomelite ha reso claudicante. A ciò fa riferimento Sally Stein, quando scrive:
“Se altri artisti tendevano a sublimare le ferite reali in simboli sociali, lei lavorava nella direzione opposta, per poter così rivelare il dramma della Grande Depressione come qualcosa di impresso, sempre e comunque, nel corpo. […] utilizzò la propria esperienza dei limiti dolorosi del corpo per sottolineare gli effetti più clamorosi della Depressione, rappresentando i corpi delle persone più duramente colpite dalla crisi economica, le cui uniche risorse stavano ormai nelle sole capacità fisiche”.


Molte sono le fotografie ravvicinate, che mostrano la figura stagliata nel cielo, quasi a voler dare l’immagine del “corpo come unica risorsa rimasta all’uomo della Depressione, niente affatto per proiettarlo verso un futuro radioso e libero, ma al contrario, schiacciato ed esaltato al tempo stesso nella sua solitudine, per rappresentarlo in quell’individualità che per l’americano è stata spesso l’immagine stessa dell’eroismo, qui eroismo del dolore e della sua sopportazione” (E. Grazioli, Corpo e figura umana nella fotografia, p. 181).



A questo link un altro articolo di Michele Smargiassi che parla anche della Migrant Mother della Lange e della problematicità del valore iconico della fotografia:
http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2011/06/30/ideologie-congelate/comment-page-1/?fbclid=IwAR17P2yxrKYJAPkiuPjq0Y6tpoEv-vP0p7n58iT5JlLVWx0pwPM2XHTPJZ0

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