sabato 2 febbraio 2019

Il teatro della follia alla Salpêtrière. La fotografia e l'invenzione dell'isteria

E' il 1851 l’anno dell’incontro tra due pratiche nate da poco, quella fotografica e quella psichiatrica. Il primo medico ad adoperare la fotografia come supporto visivo alla documentazione e al trattamento dei propri pazienti (la maggior parte dei quali erano donne) fu Hugh Welch Diamond. Ma il più famoso utilizzo della fotografia in connessione con la malattia mentale nell’Ottocento è senz’altro quello compiuto dal neurologo Jean-Martin Charcot, direttore dell'ospedale psichiatrico di Parigi, la Salpêtrière, in cui, sin dal 1690, venivano rinchiuse soprattutto donne “alienate, debosciate, instabili” e definito dallo scrittore e giornalista Jules Clarétie “la Versailles del dolore”.

Pierre Aristide Andre Brouillet, Une leçon clinique à la Salpêtrière, 1887, Paris Descartes University.


Il dottor Charcot, tra il 1878 e il 1881, fa fotografare (in particolare da Albert Londe e Paul Régnard) le sue pazienti affette da isteria, la nevrosi del secolo. L'isteria era conosciuta ancor prima della nascita della moderna psichiatria ed era associata a sintomi come l'irritabilità, il cambiamento d'umore, le crisi e agitazioni del corpo. Ippocrate la riteneva propria della donna; la parola stessa, isteria, infatti, viene dal greco hystéra, che significa utero, e si riteneva causata dal cattivo funzionamento dell'organo femminile. Secondo Ippocrate, le cause dell'isteria erano l’utero errante e l’astinenza sessuale, che provocavano nelle donne colpite convulsioni, difficoltà respiratorie e sensazioni di soffocamento e questa convinzione è rimasta pressoché identica per secoli. Durante il periodo della caccia alle streghe, l’isteria era ritenuta la conseguenza (oppure la prova) del patto stretto dalla donna ammalata con il demonio. Nonostante un interesse secolare, tuttavia, la medicina non riusciva ad inquadrare precisamente l’isteria. Le isteriche, per lo più, soffrivano di convulsioni e spasmi e di altri disturbi ricorrenti ma discontinui, come il mutismo, l'inedia, le paralisi o le nevralgie, ma era difficile isolare una serie di sintomi specifici che identificassero la patologia. L’unico vero elemento che distingueva l’isteria da altri disordini psichici e neurologici di natura sconosciuta rimaneva, in sostanza, la sua natura esclusivamente femminile.
Il primo, vero tentativo di darle un inquadramento nosologico arrivò in epoca moderna, prima con Charcot e poi con Sigmund Freud. Se la psicanalisi di Freud farà perno sulla natura mentale e inconscia dell'isteria, le cui manifestazioni fisiche non sono altro che la simbolizzazione di desideri o traumi, con la funzione di esternare e risolvere il conflitto (ovviamente di carattere sessuale), per Charcot, all'opposto, l'isteria è dovuta a disturbi funzionali organici, i cui effetti si esplicano in modo diretto.
Charcot però si ritrova davanti una enorme quantità di casi clinici eterogenei e sente l'esigenza di dare un ordine sistematico ai dati, di riconoscere e isolare i diversi sintomi per arrivare a una definizione precisa della malattia. A tal fine egli separa le ricoverate affette da questa nevrosi, o almeno ritenute tali, e le include in una sezione a parte della clinica. Ogni martedì tiene lezioni pubbliche, aperte ad un pubblico vario di ascoltatori, medici, studenti, curiosi, compreso per un periodo il giovane Freud, in cui espone le proprie pazienti, le interroga e finanche le ipnotizza per indurre la crisi isterica. Quest'ultima si manifesta sotto forma di una sorta di attacco epilettico, con paralisi degli arti, cecità momentanea, perdita di coscienza e della capacità di parlare. Il dipinto di Brouillet rappresenta il dottor Jean Martin Charcot nel corso di una delle sue celebri "lezioni del martedì" alla Salpêtrière, mentre esamina una paziente affetta da isteria, Blanche Wittmann.
Lo scopo di questi spettacoli è quello di rendere immediatamente riconoscibile l’isteria attraverso le espressioni e le pose che le donne assumono durante le crisi. Ma gli spettacoli non sono sufficienti, perché mettono in atto delle rappresentazioni passeggere, non durature. Charcot decide quindi di dedicarsi a una enorme raccolta fotografica di “isteriche”, affinché i sintomi trasposti in immagini siano sempre reperibili e consultabili all'interno di un vero e proprio trattato illustrato.


Iconographie Photographique de la Salpêtrière, Augustine

L’assunto alla base di questa pratica è la stretta corrispondenza tra l'aspetto esteriore di una persona e le sue attitudini psicologiche e morali. E’ logico pertanto che adottasse uno strumento come la fotografia che fissa proprio quell’aspetto esteriore, assumendolo come dato oggettivo.
Le immagini raccolte da Charcot furono pubblicate nella monumentale Iconographie Photographique de la Salpêtrière, che vide come protagonista assoluta Augustine, una giovane paziente, ricoverata a quattordici anni per una serie di sintomi classificati come isterici, e poi rimasta a lungo nella clinica, divenendo anche molto popolare. Augustine è il soggetto principale di cui “si serve” Charcot per “inventare” l'isteria moderna, per fornire alla sua teoria un ideal tipo, un modello di riferimento che incarnasse in modo riconoscibile il prototipo dell'isterica; di questa “ricerca” ci restano le straordinarie immagini fotografiche. Questa è la grande novità portata dal medico francese: l'uso del mezzo fotografico in grado di realizzare documenti istantanei dell'evento mentre accade, in forma assolutamente realistica e fedele.



La povera Augustine, che aveva subito stupro e violenza ed era stata ricoverata a causa di una paralisi al braccio destro e per “attacchi gravi di isteria, preceduti da dolori nella parte destra del basso-ventre”, restò per circa tre anni alla Salpêtrière, anni durante i quali è probabile che si lasciò andare alle suggestioni o imparò a mettere in atto una serie di strategie volte a dare a Charcot esattamente quello che lui si aspettava da lei: rappresentazioni regolari, uguali a se stesse, in cui ciclicamente andava in estasi o cadeva in preda al delirio riguardante lo stupro subito. Imparò, pertanto, a recitare la sua patologia in quello che era diventato un teatro, in cui si metteva in scena la follia.


Il libro dello storico dell'arte Georges Didi-Hubermann, “L’invenzione dell’isteria”, mette in luce come la malattia individuata da Charcot presupponga una dinamica relazionale tra il medico stesso, che funge da regista, e la paziente che sta al gioco e recita: in parte per soddisfare le aspettative che si hanno su di lei, ma anche per sfuggire alla cattura dello sguardo medico. Le fotografie mostrano in realtà come le manifestazioni isteriche riprese siano una sorta di «messa in scena»: mentre i medici-spettatori osservano seduti in platea, le donne-attrici rappresentano l'isteria sul palcoscenico della Salpêtrière, esposte a una curiosità morbosa e a un voyeurismo scientifico. Secondo Didi-Hubermann, Charcot è il regista di questa rappresentazione teatrale ed è lui che alla fine, con il potere della suggestione, plasma l'isteria come una malattia fondata sulle espressioni del corpo, sui gesti, i movimenti, le smorfie e i contorcimenti, insomma come una forma estetica.


La fotografia fu lo strumento che contribuì a questo processo di rappresentazione e di costruzione della patologia, mediando tra i sintomi e la definizione di un immaginario atto a riconoscerli.
Adoperando in modo intrusivo l’apparecchio fotografico, attraverso protocolli di posa e di visibilità dei sintomi, tradotti in segni fotografici, prendeva corpo il «paradosso della somiglianza», come lo ha definito Didi-Huberman, cioè quel circolo vizioso per cui una finzione - la fotografia - diventa subito documento inconfutabile. Le tante foto che formano l'iconografia della Salpêtrière dimostrano come, nel momento in cui si cercò di rappresentare oggettivamente la malattia per meglio descriverla e curarla, si approdò a un misero fallimento, cioè a immagini che appartengono più al dominio dell’estetica che del sapere medico. Per Didi-Huberman, Charcot è un “demiurge de la figuration”, il quale asservì il corpo estetico a un’energia plasmatrice più che a un’osservazione neutrale, alla “forma” più che alla scienza, facendo di quel corpo non tanto un oggetto di mostrazione quanto di creazione plastica.



Probabilmente Charcot non tenne nessun conto del fatto che la fotografia impone un gioco di sguardi e una dinamica molto diversi da quelli che avvengono nell'ambito di un'osservazione diretta. Una fotografia, innanzitutto, esclude alcuni elementi del contesto: in quel caso, inquadrava la paziente, ma non il ricercatore lì presente, con le sue richieste, le sue aspettative e la sua influenza più o meno diretta. L'immagine fotografica dà solo l'illusione di un campo neutro di osservazione, privo di interferenze. Un corpo fotografato non è solo un corpo ripreso, ma è anche un corpo che agisce nel momento in cui si mostra, anzi che interagisce.

Charcot dimostrò un atteggiamento ingenuo nei confronti della fotografia, ignorando il suo potere di mediazione. Quelle immagini sottoponevano il volto al regime della rappresentazione, perché esse, oltre a documentare l'individualità della paziente, cercavano, tramite lei, di cogliere l'universalità del sintomo e così di accedere ad una legge generale. La fotografia non poteva non risentire di questa ambigua impostazione. La stessa Augustine non poteva non avvertire il ruolo che implicitamente le veniva richiesto.


Ogni sua posa era frutto di una serie di aspettative, tanto che la paziente alla fine cessava di essere tale per diventare una sorta di attrice della propria patologia; il tutto avveniva sotto un tacito ricatto i cui termini, scrive Didi-Hubermann, «erano pressappoco i seguenti: o tu mi seduci, dimostrandoti isterica, oppure io ti considero un’incurabile, e quindi tu sarai non più esibita, ma nascosta, avvolta nell’oscurità». Quella che doveva essere un’osservazione oggettiva avveniva in realtà nella cornice di una relazione di potere, ma anche di imposta connivenza, in cui ognuno dei due termini cercava in qualche modo di influenzare l’altro a proprio vantaggio. Nell'inferno della Salpêtrière, la finzione era una legge generale del reparto delle isteriche, perché colei che cessava di dimostrarsi isterica in senso ortodosso, facendo mostra dei sintomi canonici, tornava nel reparto durissimo delle semplici e cosiddette “alienate incurabili”. “E tutto questo – scrive Federica Muzzarelli in Formato tessera: storia, arte e idee in photomatic - grazie a un mezzo, come quello fotografico, che concedeva anche istintivamente il miraggio di un'identità, anche e soprattutto diversa dalla propria, da indossare e da usare come maschera”. Un’identità che, peraltro, permetteva alla donna di essere oggetto di attenzioni e di una sorta di celebrità.


La fotografia rese in questo caso il corpo di Augustine un simulacro, nel vero senso della parola, poiché «simulacrum designa anche quei manichini di vimini nei quali si rinchiudevano le vittime che venivano bruciate vive in onore agli dei». L’isterica era trasformata in statua, in monumento, in immagine fotografica con didascalia incorporata; le figure che Augustine inscena nelle fotografie, peraltro anche molto sessualizzate, non sono altro che i fantasmi dell’inconscio dei suoi osservatori. Anche durante la caccia alle streghe, le donne torturate finivano per confessare tutti i crimini che i loro torturatori volevano sentirsi raccontare. La dinamica è sempre la stessa: per sfuggire alla propria condizione di sofferenza e di svantaggio, si è disposti a diventare complici del proprio aguzzino.


Alla fine Augustine riuscirà a scappare dalla sua cella e il suo destino si perderà nel buio di un secolo pieno di ombre, il secolo della scienza che misura, confronta, etichetta, cataloga, riducendo gli esseri umani a fenomeni da studiare. Il secolo dell’acquisizione e dell’appropriazione istituzionale del corpo umano.
A partire dalla seconda metà del Novecento, essendo cambiati i paradigmi teorici della psicologia e della medicina, l’isteria verrà vista come la manifestazione di uno stato depressivo o di una situazione esistenziale di crisi che viene esteriorizzata dalla persona seguendo, più o meno consapevolmente, una rappresentazione già codificata. Verrà dunque riconosciuta l'esistenza di una dimensione di performance nell’isteria, di un certo livello di recitazione, fino a scomparire del tutto dalla nosologia medica.


Link al testo integrale della Iconographie Photographique de la Salpêtrière. Scorrendo in fondo ci sono le foto, organizzate in tavole, con relativa didascalia:
https://archive.org/details/iconographiepho00regngoog

Fotogrammi tratti dal film “Augustine” (2003) di Jean-Claude Monod et Jean-Christophe Valtat:


Trailer del film “Augustine” (2012) di Alice Winocour:

Fonti bibliografiche

  • Dario Castellaneta, La fotografia e il suo doppio. Una lettura filosofico-antropologica della fotografia, Tesi di Dottorato, Università di Trieste, A.A. 2010-11.
  • Georges Didi-Huberman, L'invenzione dell'isteria. Charcot e l'iconografia fotografica della Salpêtrière, Marietti 2008.
  • Carlotta Majorana, Uteri erranti: Jean-Martin Charcot e la rappresentazione dell’isteria
  • Maurizio Meloni, L' orecchio di Freud. Società della comunicazione e pensiero affettivo, Dedalo 2005.
  • Federica Muzzarelli, Formato tessera: storia, arte e idee in photomatic, Mondadori 2003.
  • Giovanni Scarafile, Etica e/o efficacia. Le competenze comunicative in prospettiva relazionale, lulu.com 2015.


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