Album of Paris Crime Scenes - Attributed to Alphonse Bertillon. |
Nell’Ottocento l’impostazione positivistica della conoscenza e l’impiego della fotografia sono alleate in un processo che mira alla schedatura della diversità, cioè alla realizzazione di archivi onnicomprensivi della devianza, concepita come allontanamento da un modello di normalità, sia per scopi conoscitivi che di controllo sociale. La seconda metà dell’Ottocento, in particolare, è caratterizzata da un acceso dibattito sulla necessità di adottare un metodo di riconoscimento dei criminali. Metodi atavici e barbari come la marchiatura a fuoco e l’incisione della pelle non sono più consentiti, ma si impone sempre più l’esigenza di una verifica dell’identità personale. A questo viene incontro la fotografia segnaletica, un metodo ‘civile’ e moderno per marchiare l’anomalia, riconoscerla e sorvegliarla.
Album of Paris Crime Scenes - Attributed to Alphonse Bertillon. |
L’ufficiale della polizia francese Alphonse Bertillon fornisce un metodo rigoroso e un quadro teorico che permettono di standardizzare la foto segnaletica nel tipico ritratto a mezzo busto, su sfondo neutro, ripreso sia di fronte che di profilo. Tale metodo definisce in modo preciso i parametri da rispettare: il formato, l’adiacenza del frontale e del profilo, lo sfondo, la distanza, l’illuminazione, la postura, la stampa. Il primo piano decontestualizza il volto, che è vincolato all’immobilità, alla passività, all’impossibilità di manifestare emozioni o di assumere espressioni. Al soggetto ritratto è precluso tutto ciò che attiene a un essere umano in quanto soggetto: il corpo nella sua interezza, il movimento, la comunicazione, il contesto materiale e sociale, la possibilità di negoziare la rappresentazione di se stessi.
Composite Photograph by Francis Galton, Made from Portraits of Criminals Photographic. |
Alla fotografia, inoltre, Bertillon affianca un metodo scientifico allo scopo di identificare i recidivi e tenere registri di criminali, cioè un complesso processo di misurazioni antropometriche (che frammenta il corpo), completato da una descrizione dei connotati, un metodo che, chiamato bertillonage, viene adottato a Parigi nel 1888 e presto utilizzato in tutta la Francia e in altri paesi, permettendo di schedare migliaia di persone in tutto il mondo, prima di essere soppiantato nel 1905 dalle impronte digitali.
Le storie dei diversi tipi di fotografia schedativa, quella poliziesca-criminale, quella medico-psichiatrica e quella antropologico-etnografica, spesso si intrecceranno nel corso della seconda metà del XIX e dei primi decenni del XX secolo, creando la vertigine dell’archivio istituzionale in grado di garantire il pieno controllo di fenomeni che si vuole normalizzare e controllare.
Composite Photograph by Francis Galton, Made from Portraits of Criminals Photographic. |
Intanto, dall’altra parte della Manica, l’antropologo britannico Francis Galton, inventore dell’eugenetica, porta avanti dal 1877 il tentativo di elaborare le fisionomie di modelli antropologici tipo, derivati da studi statistici. A tal fine espone più ritratti individuali su una stessa lastra fotografica, in modo tale che il volto che viene fuori non è un individuo reale ma una sintesi di molti, la visualizzazione di un ideal tipo, di un modello antropologico ("L'ebreo", “L’inglese”, "Il criminale", “Il tisico”, “L’ufficiale” “Il grande uomo”). I ‘composite portraits’ hanno lo scopo di permettere di cogliere i tratti comuni, cioè i particolari dei diversi visi che restano ancora nitidi al termine delle sovrapposizioni. Se Bertillon mirava a identificare il singolo criminale partendo da classi tassonomiche, il fine di Galton è di cogliere nell’individuo non ciò che lo rende unico, ma ciò che è ricorrente. Se Bertillon disaggregava le classi per arrivare al singolo, Galton riaggrega gli individui, dissolvendone l’identità negli insiemi, cercando, nelle sovrapposizioni, le configurazioni tipiche e le costanti visive, una sorta di minimo comun denominatore visuale del tipo studiato, una statistica in forma di ritratto. “Sovrapponendo le immagini, le foto elidono reciprocamente le loro singolarità e lasciano sopravvivere solo i loro caratteri comuni, ovvero la sedimentazione di un tipo. […] Sommersa dal procedimento generalizzante, l’individualità sembra diventare un residuo, si riduce […] ad uno scarto sfocato sui bordi della figura tipica, perde ogni consistenza.” (ENRICO POZZI, Fotografare l’inconscio: Galton e Freud)
Composite Photograph by Francis Galton, Made from Portraits of Criminals Photographic. |
Pozzi afferma ancora che il ritratto composito è la figura di un’aporia, la forma visiva di quella tensione tra particolare e generale che caratterizza tutte le scienze umane. La loro sfida, infatti, fin dalla nascita, è quella di indagare l’individuale per eccellenza, cioè il singolo essere umano, per trarne leggi generali; di normalizzare, cioè assoggettare a regole, il comportamento dell’individuo. E, per arrivare al comportamento, partono dall’apparenza visibile, cioè dal corpo, dai tratti somatici. Dopotutto è nel corpo che si condensa il particolare (l’identità specifica) e il generale (l’appartenenza a una specie e a un genere). Il corpo è ciò che un individuo ha in comune con l’intera umanità, ma il corpo è anche il luogo fisico dell’Io, cioè della sua unicità. Il corpo è una forma ibrida, contemporaneamente generale e particolare, astratta e concreta.
Composite Photograph by Francis Galton, Made from Portraits of Criminals Photographic. |
Ed è questo che viene chiesto all’immagine fotografica che riprende i corpi: fornire la concretezza di una rappresentazione visiva a un pensiero astratto. Ma come è possibile, a questo fine, usare uno strumento in grado di riprendere solo l’individuale e il contingente come è la fotografia?
I ritratti compositi di Galton seguono filtri diversi: la razza, la nazione, la classe sociale, il mestiere, la malattia, il comportamento deviante, l’appartenenza a un gruppo o famiglia. Tramite le sovrapposizioni, egli cerca di trovare un profilo grafico a questi tipi sociali. Ciò che Galton cerca di fotografare, pertanto, non sono individui, ma idee, astrazioni, classi logiche. E tuttavia, i suoi ritratti compositi non sono altro che insiemi di ritratti individuali, cioè di impronte uniche. Per la sua natura di indice, la foto è sempre un enunciato iconico particolare e contingente e infatti ogni ritratto singolo che Galton si ritrova tra le mani mantiene ben viva l’individualità del soggetto fotografato, che ostacola il tentativo di giungere al tipo ideale. Occorre liberarsi del soggetto per giungere all’oggetto. La soluzione di Galton è quella di sovrapporre più individualità, più impronte, per ottenere una figura "media" ed escludere le eccedenze particolari. I metaritratti che vengono fuori sono fotografie di fotografie, dove i ritratti di partenza non sono messi a confronto su una linea orizzontale, ma appiattiti letteralmente l’uno sull’altro, condensati in un’unica immagine simultanea che fonde e fa scomparire ogni differenza, ogni residuo di identità personale. L’individuo che ci guarda dalla carta stampata non è altro che un’entità multistrato, la forma umana di un individuo astratto, un fantasma, un pensiero invisibile, l’equivalente iconico di un dato statistico.
Composite Photograph by Francis Galton, Made from Portraits of Criminals Photographic. |
Questa argomentazione è anche il tema di un testo uscito nel 2012, scritto da Josh Ellenbogen, Reasoned and Unreasoned Images: The Photography of Bertillon, Galton, and Marey. Secondo lo studioso, Bertillon, Galton e Marey producono immagini di eventi i quali non hanno un’autonoma esistenza percettiva, ma possono essere percepiti solo grazie alla tecnica fotografica. Si tratta cioè di immagini che registrano dati che l'occhio non può vedere e che perciò non esistevano in precedenza in quanto dati.
Davvero la fotografia, per la sua capacità di inerire al referente, può mostrare dati oggettivi? O ciò che mostra, nei casi presi in considerazione da Ellenbogen, sono piuttosto delle astrazioni? Le fotografie di Galton o di Marey ci fanno vedere la realtà o degli artifici teorici? Ci mostrano il visibile o l’invisibile? L’immagine fotografica riproduce una data realtà oppure produce conoscenza?
Jewish portraits, 1878. |
Le fotografie studiate costituiscono, in realtà, delle forme visive di eventi che altrimenti non avrebbero alcuna forma visiva (e che dunque sono eventi solo per l’immagine). Esse ‘costruiscono’ il dato, non lo registrano semplicemente. Queste non sono fotografie di qualcosa di preesistente, spiega Ellenbogen, e quindi non possono essere "indicali" o la traccia di qualcosa che esisteva in anticipo.
Pertanto si tratta anche, per l’autore, di mostrare i limiti di tutte quelle costruzioni teoriche (il confronto è in particolare con Rosalind Krauss) che fanno della fotografia un “indice”, confinandola alla rappresentazione dell’individuale concreto che lascia la sua impronta di luce.
Ciò che è visibile deriva dalle tecnologie di produzione dell’immagine. La retorica della natura immediata e trasparente della tecnica fotografica, invece, occulta lo statuto artificioso del dato oggettivo mostrato dalla fotografia. L’evento considerato come dato non ha un’esistenza anteriore rispetto all’espediente tecnologico che lo porta ad essere. Questo è lo snodo principale che Ellenbogen ha il merito di chiarificare, portando un contributo alla storia della teoria fotografica, in particolare per quanto riguarda lo statuto di ciò che possiamo definire una “prova” oggettiva, e il rapporto di tale prova con la realtà che intende documentare.
Vi invito a osservare queste immagini, in particolare l'ultima, che mette insieme una serie di ritratti compositi di ebrei, realizzati con il metodo di Galton. Per comprendere la deriva dell'ideologia razziale nel Novecento, occorre partire da qui, dalla scienza ottocentesca.
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