L’articolo indaga il parallelismo tra la rivoluzione della scrittura nell’antichità e quella, oggi, dei modelli generativi del linguaggio. A partire dalla critica platonica nel Fedro, dove la scrittura è accusata di indebolire la memoria e di spegnere la vitalità del pensiero dialogico, si ricostruisce la genealogia di una diffidenza antica verso ogni forma di esternalizzazione cognitiva. La storia, tuttavia, mostra come quella stessa delega - alleggerendo il peso a carico delle risorse mentali - abbia consentito un potenziamento della mente umana e abbia moltiplicato la capacità del sapere di auto-organizzarsi, di sedimentarsi e di evolvere. In questa prospettiva, l’articolo propone un’analogia con i modelli generativi contemporanei: anch’essi, pur suscitando timori di perdita delle competenze linguistiche, possono essere letti come strumenti di redistribuzione cognitiva. Deleghiamo alla macchina la forma del linguaggio per dedicare più energie al pensiero, alle intuizioni, alle connessioni e alla creazione di nuovi significati.
Il linguaggio esternalizzato: Platone e la scrittura come pharmakon
In questa obiezione si condensa la diffidenza platonica verso ogni forma di sapere che si affidi a un supporto materiale. La scrittura, fissando il discorso in una forma inerte e muta, lo priva della sua vitalità dialogica, della possibilità di rispondere, chiarire, modificarsi. È una parola orfana del suo autore, un logos che non sa difendersi né adattarsi. Per Platone, solo il dialogo vivo tra maestro e discepolo, tra due anime pensanti, può generare conoscenza autentica.
Il timore platonico è dunque duplice: epistemologico e antropologico. Epistemologico, perché la scrittura interrompe il movimento dialettico del sapere, trasformando la conoscenza da processo vivo di ricerca e confronto in un corpo fisso di enunciati. Una volta affidato alla scrittura, il pensiero si irrigidisce, perde la possibilità di difendersi, di rettificarsi, di adattarsi al contesto dell’interlocuzione. Il testo scritto, dice Platone, non risponde alle domande, non può chiarirsi né correggersi: resta muto, e proprio in questo mutismo si consuma la perdita della aletheia, della verità come disvelamento progressivo. È altresì antropologico, perché la scrittura indebolisce l’esercizio della memoria, che per i Greci non era una facoltà secondaria ma una virtù morale e intellettuale, radice della sapienza (Mnemosyne era, non a caso, madre delle Muse). Scrivere significa trasferire fuori di sé ciò che dovrebbe restare vivo nell’anima. Delegare al supporto esterno ciò che prima era esercizio interiore significa indebolire la capacità stessa di pensare, poiché il pensiero, per i Greci, è inseparabile dalla memoria viva, dalla anamnesis. Scrivere equivale, in un certo senso, a perdere un contatto con sé: l’uomo non ricorda più in sé, ma altrove.
La storia ha mostrato che la profezia di Platone si è compiuta solo in parte. Se è vero che la scrittura ha modificato la memoria come pratica interiore, depotenziandola in quanto meno esercitata, è altrettanto vero che essa ha ampliato a dismisura la capacità umana di pensare, di astrarre, di organizzare il sapere. L’esternalizzazione che Platone temeva non ha generato un indebolimento, ma un potenziamento cognitivo: ciò che la mente ha perduto in immediatezza, lo ha guadagnato in profondità. Il passaggio da una cultura orale a una cultura della scrittura alfabetica non ha dunque distrutto la memoria, ma l’ha trasformata: dalla memoria narrativa e ritmica dell’aedo, essa è divenuta memoria analitica, capace di scomporre, classificare e confrontare concetti. L’alfabeto ha reso possibile la forma logica del pensiero. Walter J. Ong, in Orality and Literacy (1982), ha mostrato come la scrittura abbia reso stabile e visualizzabile ciò che nella parola orale era effimero e temporale. La fissazione grafica ha consentito di vedere il linguaggio come oggetto, di riflettere su di esso, di “distillare” la grammatica, la sintassi, la filosofia. È la scrittura che ha reso possibile la distanza riflessiva necessaria alla teoria, all’argomentazione, alla critica.
Ogni “esternalizzazione cognitiva” certamente provoca una qualche perdita immediata, determinata dalla disabitudine e dalla delega di una certa funzione. Essa, tuttavia, si rivela, nel lungo periodo, come una forma di espansione. Ogni nuova tecnologia del linguaggio, infatti, dalla scrittura alla stampa al web, ha contribuito a redistribuire le competenze cognitive, trasformando non solo la quantità di conoscenza disponibile, quanto la forma del pensiero.
Nuove esternalizzazioni: i modelli generativi
Una delle funzioni - anche se non la più profonda - dei modelli generativi è infatti quella di dare forma al pensiero, di tradurre un’intuizione espressa in un prompt in un discorso dotato di coerenza grammaticale e sintattica. Il modello traduce, struttura, dispone in ordine sintattico ciò che nel prompt è ancora solo un’intuizione, una costellazione di idee. In questo senso, esso opera come una nuova “tecnologia della forma”, capace di esternalizzare un tratto che per secoli è stato ritenuto specificamente umano: la capacità di organizzare il pensiero nel linguaggio.
In questo senso, i modelli generativi agiscono come protesi linguistiche che permettono di spostare l’attenzione dal piano della formulazione a quello della connessione concettuale. Liberato dalla fatica della forma, infatti, il pensiero può dedicarsi a intrecciare, verificare, mettere in relazione le idee: ciò che viene delegato non è il pensiero stesso, ma la sua articolazione linguistica.
La scrittura aveva già operato una prima “esteriorizzazione” del linguaggio, ma i modelli generativi spingono questo processo oltre: non si limitano a conservare il pensiero, lo "formano". Proprio come la scrittura aveva permesso di liberare la mente dal peso della memorizzazione, così la generazione automatica può liberarla dal peso della messa in forma, alleggerendo la formulazione per potenziare l’elaborazione. L’intelligenza non scompare, ma si ridistribuisce: l’umano diventa il regista del processo linguistico, colui che orienta la macchina, ne giudica gli esiti, ne trasforma le risposte in nuovi impulsi di pensiero.
Se l’atto del pensare implica tanto la produzione di contenuti quanto la loro disposizione linguistica, l’intervento del modello consente di disaccoppiare i due livelli: la macchina si occupa della formulazione, l’umano può concentrarsi sullo sviluppo di intuizioni e di idee, sulla loro connessione, sulle relazioni inedite che possono instaurare. In altri termini, si apre la possibilità di un pensiero più ampio, meno vincolato alla grammatica e più vicino alla combinatoria concettuale.
Si potrebbe allora dire che la competenza linguistica si sposta: non consiste più (solo) nel saper produrre testi corretti, ma nel saper orientare una macchina generativa, nel saper trasformare un’idea in concetto e una risposta in nuova domanda. Come la scrittura aveva creato una distanza riflessiva tra parola e pensiero, così i modelli generativi instaurano una distanza meta-linguistica tra chi parla e il linguaggio stesso, rendendo visibile il processo di produzione del senso.
I modelli generativi di linguaggio si collocano, pertanto, in una linea di continuità con il processo di esternalizzazione cognitiva inaugurato dall'introduzione della scrittura. Anch’essi non tolgono all’uomo una competenza, ma la ridistribuiscono: spostano all’esterno una parte della produzione linguistica e combinatoria, consentendo di impiegare le risorse mentali umane non per la generazione di enunciati, ma per la loro valutazione, direzione, interpretazione. Se la scrittura ha reso possibile l’“ordine” del pensiero, il linguaggio generativo potrebbe inaugurare una nuova fase: quella in cui l’umano impara non più soltanto a scrivere, ma a modulare la produzione linguistica come un campo di possibilità esplorabili.

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