sabato 9 settembre 2023

La musca depicta. Tra simbolo e parergon

La musca depicta è stato un motivo pittorico ricorrente tra Quattrocento e Seicento, di provenienza nordica, probabilmente fiamminga. La ritroviamo soprattutto ai margini, vicino alle cornici, ma spesso anche in piena vista, integrata nella composizione.

Per celebrare il genio di Giotto, considerato il pittore che aveva rinnovato la pittura europea, liberandola dai vincoli medievali, Vasari nelle Vite racconta un aneddoto che riguarda l'apprendistato del pittore. 

Dicesi che stando Giotto ancor giovinetto con Cimabue, dipinse una volta in sul naso d’una figura che esso Cimabue avea fatta una mosca tanto naturale, che tornando il maestro per seguitare il lavoro, si rimise più d’una volta a cacciarla con mano pensando che fusse vera, prima che s’accorgesse dell’errore. (Giorgio Vasari, Le vite,1568)

Arasse, nel suo libro Il Dettaglio, sottolinea l'importanza di questo racconto, poiché il Vasari non intendeva solo riferire una bravata che dimostrava il superamento del maestro da parte dell'allievo: "alla burla di Giotto, figura da lui ritenuta decisiva per il rinnovamento moderno della pittura, vuole annettere una risonanza particolare. A conclusione del racconto eroico della rivoluzione giottesca, il dettaglio riepiloga il progresso della pittura: quella mosca dipinta è l'emblema del controllo supremo dei mezzi della rappresentazione mimetica, come se la conquista della verità in pittura s'identificasse con la resa del dettaglio realistico" (D. Arasse, Il Dettaglio, 2007, p. 113).

Carlo Crivelli, Santa Caterina d'Alessandria, 1491-94.

Si è certi che Giotto non avesse mai dipinto quella mosca, eppure il Vasari usa quel topos per la sua efficacia nel testimoniare il salto di qualità portato dalla pittura giottesca. 

Il racconto del Vasari richiama quello di Plinio il Vecchio che, nel XXXV libro della Naturalis historia, scrive: 

Si racconta che Parrasio venne a gara con Zeusi; mentre questi presentò dell’uva dipinta così bene che gli uccelli si misero a svolazzare sul quadro, quello espose una tenda dipinta con tanto verismo che Zeusi, pieno di orgoglio per il giudizio degli uccelli, chiese che, tolta la tenda, finalmente fosse mostrato il quadro; dopo essersi accorto dell’errore, gli concesse la vittoria con nobile modestia: se egli aveva ingannato gli uccelli, Parrasio aveva ingannato lui stesso, un pittore. 
Petrus Christus, Ritratto di Certosino, 1446.

Ancora il tema dell'illusione e dell'inganno emerge da un altro racconto, quello che fa Filostrato, nelle Εἰκόνες mentre esegue l'ekphrasis di un dipinto raffigurante Narciso:

Poiché il dipinto è molto rispettoso della realtà, da quei fiori stilla anche la rugiada, e su di loro si posa persino un’ape, non so se tratta in inganno dalla pittura o piuttosto non si debba ammettere che siamo noi ad avere l’illusione che sia vera lei. (da Bettini M, Pellizer E., Il mito di Narciso. Immagini e racconti dalla Grecia ad oggi, Einaudi 2003)

Il tema dell'insetto dipinto esalta quindi "le capacità illusionistiche della pittura, attraverso l'espediente di un dettaglio dell'immagine che sembra avanzare verso gli occhi dell'osservatore, come se fuoriuscisse dal piano del quadro" (Arasse, cit., p. 114). Vale la pena riportare anche ciò che Arasse scrive dopo, e cioè che "quest'effetto illusionistico, tipico del trompe-l'oeil, non è toscano, ma nordico e veneziano; la gloria di Firenze risiede, al contrario, nell'aver fondato uno spazio che «buca il muro»".

Uno dei primissimi esempi conosciuti è il Ritratto di monaco certosino di Petrus Christus (1446), dove l'insetto compare sulla cornice dipinta del quadro, cioè sul confine che separa lo spazio della rappresentazione da quello dell'osservatore, a sottolineare il suo ruolo di parergon, cioè «né opera (ergon), né fuori-d’-opera (hors-d’œuvre), né dentro né fuori, né sopra né sotto» (J. Derrida, La verità in pittura, 1978). Se si osserva la Santa Caterina del Crivelli, si possono notare le dimensioni della musca depicta sul margine sinistro, del tutto fuori scala rispetto alla figura e tale da poter essere scambiata per un insetto vero. Tale disparità di scala tra il personaggio e la mosca enfatizza la collocazione della santa e dell'insetto in due regni di realtà separati. Esso sembra poggiato sul dipinto, fuori dallo spazio in cui è collocata la santa, come la mosca di Petrus Christus o la chiocciola di Francesco del Cossa o la locusta del San Girolamo di Lorenzo Lotto. La loro presenza illude la percezione dello spettatore, il cui sguardo può facilmente oscillare tra diverse modalità di visione: comprendendo la mosca come parte della scena dipinta o essendo indotto a pensare che una mosca vera sia effettivamente atterrata sul quadro. Attraverso questo piccolo insetto la pittura dimostra altresì il proprio artificio nello stesso momento in cui cerca di confondersi con la realtà del mondo in cui si trova lo spettatore. 

Eppure, se si osservano altre opere del Crivelli con Madonna e bambino, si intuisce che la mosca è anche dentro il quadro. Lo testimonia la sua ombra proiettata sulla balaustra dipinta e lo sguardo in tralice che i protagonisti rivolgono verso quella presenza luciferina.

Carlo Crivelli, Madonna Lenti, 1472-1473 circa.

Alcuni studiosi riconducono il successo della musca depicta all'efficacia del meccanismo di sorpresa, per cui all'attrazione generata dall'illusione segue la disillusione della scoperta dell'inganno e insieme l'ammirazione per la maestria del pittore, come accade anche per gli spazi illusori tipici dei trompe-l'oeil: "la mosca avrebbe concorso a connotare il quadro in quanto pittura d'artificio, la cui presenza riconduce all'efficacia tecnica dell'artista" (ibidem). La mosca dipinta è insomma un indicatore dell'emergere di una coscienza artistica moderna che, oltre al valore attribuito alla mimesi, si nutre della consapevolezza da parte dell'artista di un nuovo status sociale acquisito. 

La mosca dipinta ebbe un notevole successo tra metà Quattrocento e Cinquecento, anche se la sua presenza continua nelle nature morte del Barocco; sparisce alla fine del Seicento per poi ricomparire nel Novecento, in alcuni dipinti di Salvador Dalì o, in forme diverse, nella raccapricciante installazione di Damien Hirst, The Last Judgement (2002), che non è altro che un grande pannello monocromo nero, formato da migliaia di mosche morte incollate con la resina. L'opera di Hirst continua l'equilibrio instabile legato alla mosca dipinta, sempre sul confine tra realtà e rappresentazione, ma lo ribalta: se la mosca dei pittori del passato svelava la propria finzione solo a uno sguardo ravvicinato e ciò che sembrava vero si rivelava essere solo pittura, nel caso di The Last Judgement, invece, lo spettatore, avvicinandosi, constata con orrore che ciò che sembrava pittura è in realtà un manto di mosche autentiche.
In questo ibrido di realtà e rappresentazione, si compie all'estremo il significato mortifero che la mosca, come insetto legato alla decomposizione dell'organico e della carne, ha rivestito nei secoli: il simbolo della morte è diventato morte esso stesso; il cadavere ha preso il posto del segno che lo evocava. E tuttavia l'indicibile della cultura occidentale qui acquista una forma in senso letterale, una forma compiuta, geometricamente perfetta, tanto docile e rassicurante allo sguardo distante, quanto sinistra e disturbante vista da vicino.
Damien Hirst, The Last Judgement, 2002


Damien Hirst, The Last Judgement. Dettaglio, 2002

Lo stesso Arasse, tuttavia, avvisa che il discorso è molto più complesso di quanto un approccio tipicamente moderno possa indurre a pensare. La mosca dipinta, infatti, rivestiva anche connotazioni fortemente simboliche, come emblema del male, della corruzione, del peccato, della morte e come memento mori. La sua connotazione morale non può essere messa in dubbio, data la sua presenza tipicamente in contesti religiosi e devozionali, come la mosca sul teschio presente in una Crocifissione di Matteo di Giovanni o quella che Giovanni Santi, il padre di Raffaello, dipinge sul petto di un Cristo in pietà; oppure nelle vanitas o nelle nature morte, intorno a ghirlande di fiori, ceste di frutta, pesci e cacciagione, con la loro valenza legata ai temi dell'effimero e del memento mori (perché una mosca è indizio di materia in decomposizione e la carne terrena è destinata alla corruzione). E in quei dipinti di frutta, fiori e animali inerti, le piccole mosche nere costituiranno la sola natura viva nel tripudio cromatico offerto dalla natura morta.

Matteo di Giovanni, Crocifissione. Dettaglio, c. 1445.

All'inizio dell'età moderna, le simbologie medievali (contenute nei bestiari e negli erbari) sono ancora sentite, ma si sta affermando anche una nuova mentalità e un nuovo modo di concepire la vita e il ruolo dell'arte e dell'artista. Perché, infatti, quelle mosche cercano così fortemente di illudere la percezione dello spettatore, come a voler stimolare la sua mano a scacciarle? E c'è da farsi venire il sospetto che proprio questa attivazione performante del gesto dell'osservatore (scacciare l'intruso) potrebbe essere uno dei motivi che ha portato a scegliere l'insetto più fastidioso e importuno di tutti a fare da parergon in questi dipinti. Il quale diverrebbe in questo modo una sorta di innesco di interattività, di coinvolgimento e di mobilitazione attiva del corpo dello spettatore, attirandolo nella rete della finzione, ma subito rivelandosi come trucco.

Giovanni Santi, Cristo in pietà, c. 1480.


Barthel Bruyn the Elder, Vanitas (1524).

In ogni caso, il virtuosismo nel raffigurarlo con tanto realismo e metterlo così in evidenza ci dice quanto l'obiettivo del pittore di rappresentare il male e il maligno fosse almeno pari a quello di dimostrare la sua abilità nel realizzare insetti tanto perfetti da sembrare veri, da dare l'illusione di realtà. È anche tenendo conto di questi dettagli che possiamo comprendere la specificità di un periodo storico, quello che chiamiamo Rinascimento, e la sua discontinuità con quello precedente. Era il pittore medievale colui che si preoccupava di dipingere e scolpire soprattutto simboli, senza rivendicare più di tanto la propria autorialità. La musca depicta testimonia invece una nuova coscienza acquisita dall'artista, più consapevole del proprio status e ansioso di lasciare impresse sulle opere che realizzava la propria firma e le marche di riconoscimento del proprio ingegno, pari a quello di Zeusi e Parrasio, i cui dipinti avevano tratto in inganno gli occhi di esseri umani e non umani.

Master of Frankfurt, Self-portrait of the Artist with His Wife (1496)


Ci sarebbe forse un altro aspetto da prendere in considerazione nel tentativo di interpretare questa presenza enigmatica e cioè la sua capacità di collocare nell'immanenza della storia l'evento rappresentato. Ciò è vero soprattutto per quanto riguarda le scene di storia sacra, dove l'insetto diventa quasi il testimone inerte e muto di un fatto che accade nel mondo, concorrendo a costruire una scena realistica, incardinata nel tempo. Siamo lontani dagli sfondi dorati e dalla distanza spirituale che assicurava alle pitture sacre pre-rinascimentali la loro trascendenza e la loro purezza divina. La venuta di Cristo, con il suo farsi carne, ha significato la contaminazione di divino e umano, la discesa concreta di Dio nella storia, il suo prendere parte alla "mondanità". E cosa c'è di più legato alla fisicità e fragilità delle cose della mosca che si posa su di esse, indice supremo di contaminazione materica? Cristo ha preso la forma della carne corruttibile per vincerla e sconfiggere la morte. Ma la resurrezione e la vittoria sul tempo della storia umana, fondamento del Cristianesimo, è possibile solo dopo il passaggio nel mondo. Dio ha dovuto farsi materia per esaltare lo spirito.


Pittore svevo, Ritratto di donna della famiglia Hofer, ca. 1470

Cos'è dunque questa mosca, questo insetto invadente, questa presenza instabile e indiscreta che ci tiene sospesi tra due mondi, che non si sa in quale spazio e in quale livello di realtà collocare, se quello del quadro o quello in cui noi siamo? Come la cornice (il parergon per eccellenza), è anch'egli un elemento interno (diegetico, dentro la scena) e nello stesso tempo esterno all'opera (extradiegetico, fuori dalla scena), che tiene l'occhio dell'osservatore in una zona di confine e di transizione tra l'immagine e il mondo e viceversa. Simbolo morale e marchio del virtuoso, la musca depicta è in ogni caso un oggetto polisemico, impossibile da imbrigliare in una categoria stabile perché in grado di operare uno scarto, sia di significati che di piani di realtà. 

Francesco Barbieri (Guercino), Et in Arcadia ego, ca. 1616-22

Giovanna Garzoni, Natura morta con una ciotola di limoni, 1660

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